Categorie: Costume e Società
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Quel maledetto fine d’anno

Un raccontino un po' datato

Settanta anni fa riuscire a mettersi con una ragazza non era facile. Bisognava puntarla, sondare il terreno della reciproca simpatia, comprendere dal primo approccio se l’attrazione provata da te nei suoi confronti, c’era speranza che potesse essere, anche solo larvatamente, ricambiata. Se il corteggiamento andava a buon fine, era la volta che potevi annunciare agli amici che t’eri messo con una, per lo più tralasciando nome e altri particolari, ché all’inizio meno dettagliavi, meglio era. Dopo l’invito a un cinema pomeridiano, accettando il “mano nella mano” e un timido abbraccio, la volta successiva potevi sperare in qualcosa di più. Se poi riuscivi a strapparle un bacio, condiviso con reciproca soddisfazione, a Livorno potevi raccontare che stavi a pane con Graziella o Maria o come diversamente si chiamava la ragazza. 

E qui, per chi non è cresciuto in città, dovevo spiegare quanto meno il significato dell’espressione idiomatica prettamente livornese.  

Mentre mettersi con una non sottintendeva (almeno al momento) alcun impegno che potesse sfociare in qualcosa di continuativo, mettersi a pane costituiva già, per entrambi i soggetti, la volontà di valutare la possibilità di raggiungere una sintonia di coppia, tale da sfociare nel passo successivo: mettersi a pane in casa, prodromo di un fidanzamento ufficiale. con conseguente: andare a seggiola, allorché venivano concesse al fidanzato visite serali alla ragazza, con accoglienza del padrone di casa: vieni Bello, accomòdati, mettiti a sedere. 

L’introduzione è necessaria per ricordare un ultimo dell’anno che se fu tragico per Roberto, fu altrettanto… spiacevole è dir poco, meglio deprimente per Marisa, sul punto di mettersi a pane con lui.

Era tradizione di noi ragazzi trascorrere l’arrivo dell’anno nuovo in casa di qualche amico o amica che si offriva di ospitarci organizzando una festa – si fa per dire – in casa dei genitori, accondiscendenti per evitare di stare in pena quella notte, fin quasi all’alba, iniziando l’anno nel dormiveglia, in pensiero fino al mattino. Tanto più se erano il padre e la madre di una ragazza. Forse era la fine anno del ’59 – ma non prendetelo per oro colato dopo quasi settant’anni – e “la festa” l’aveva organizzata Marisa, speranzosa che durante la seranottata maturasse qualcosa di concreto fra lei e Roberto, a suggello di quel bacio precario e furtivo che le aveva stampato sulla bocca all’uscita del cinema Margherita, dopo essere stato trascinato contro voglia a vedere il film, con Audrey Hepburn “La storia di una monaca”. A casa, ripensandoci meglio, Marisa si convinse che la sua non era stata una scelta felice.

In quegli anni, a differenza di oggi, la festa di fine anno era evento spartano. L’ospitante offriva sandwich e pasticcini, Fanta e Coca-cola; l’alcool era un dovere degli ospiti che non andava mai oltre qualche bottiglia di sambuca, zabov o, al massimo, una di gin scadente, o ancora un accettabile Finsec, quello che ti dava la carica, o un Milk Brandy, cognac targato Tuoca, e ritenuto meno liquoroso per la presenza del latte (?).

Ah già, dimenticavo la musica, elargita da un giradischi sul quale veniva impilata una selezione di 45 giri che il meccanismo lasciava cadere uno sull’altro al termine di ogni brano. Le ragazze preferivano i veloci, per lo più rock e boogie woogie, o sambe e rumbe. I maschi, stranamente i lenti, dove il massimo dell’impresa veniva vantata sottovoce: … “a Silvana, io n’ho ballato guasi tutto Visino de Angelo con le mani sui fianchi, strette così in basso, guasi sul culo”. 

“Un ci redo”. era il commento dei più. “Certe libertà, Silvana un le oncede.” 

E via di questo passo. Ma quella serata scorreva senza allegria; il gruppo degli invitati stentava a trovare la coesione e più di una volta Marisa aveva trascinato Roberto al centro della sala, forzandolo a ballare tra le poche coppie che mostravano averne voglia. I Giochi di società, piazzati sul tavolo spostato in angolo, sembrava non interessare nessuno. Le ragazze avevano fatto gruppo a sé, mentre i ragazzi uscivano spesso a fumare sul balcone del quarto piano parlottando della squadra cittadina di pallacanestro che lottava per restare in prima serie. Qualcuno preferiva affogare la noia ingoiando bicchierini di alcolici e fra questi non mancava Roberto, in serata no, senza spiegarne la causa neppure a Loriano, suo compagno di banco e stretto confidente, lo sapevano tutti. Altre due o tre coppie si presentarono alla porta, accolte amabilmente da Marisa. 

“Ma che bella sorpresa, avere anche voi. Prego, accomodatevi!”.

Ma fra maschi e femmine l’atmosfera dei giovani presenti, non cambiò. 

Al brindisi della mezzanotte fecero la loro comparsa anche i padroni di casa, fino allora confinati in altra stanza e dopo gli auguri di pragmatica riprese la musica del giradischi per i pochi interessati “a stringere” con qualcuna delle ragazze presenti. 

Nel frattempo Roberto era sparito, ma nessuno ci fece caso, tranne l’intuito di Loriano che lo rinvenne nella toilette, ubriaco e ancora abbracciato al water dove aveva restituito parte dell’alcool ingurgitato. In sala avvicinò Lorenzo, gli bisbigliò qualcosa all’orecchio e alla zitta rimisero in piedi l’ubriaco. Gli fecero indossare il cappotto, così come fecero anche loro e con la massima discrezione uscirono verso l’ascensore, sostenendolo a braccetto. 

Poco distante dal palazzo, dalla cabina stradale di un telefono riuscirono per fortuna a chiamare un taxi, adagiarono sul sedile posteriore il semicadavere, che non aveva ancora spiccicato parola, dettero al taxista l’indirizzo dove accompagnarlo e pagarono in anticipo la corsa che l’autista stimò sufficiente per il trasporto.

Quindi prontamente risalirono al quarto piano, scusandosi con Marisa perché scesi per telefonare gli auguri alla famiglia. 

“Ma potevate farlo da qua, minchioni! Quasi, quasi me n’ho a male”. Scosse il capo desolata rivolta ai due, facendo strada verso la sala. Fra i due un muto sguardo d’intesa a significare tutto bene, missione compiuta.  

A quel tempo era in uso l’abitudine barbara e incivile di gettare in strada, dalle finestre, ogni oggetto della famiglia non più in uso e uscire in auto dopo la mezzanotte significava rischiare per lo meno la foratura di una gomma, non riuscendo a schivare il cumulo dei detriti incontravi alla luce dei fari, per le strade soprattutto del centro.

Per questo l’autista del taxi fu obbligato a fare un lungo giro intorno all’isolato, onde evitare i detriti, diversamente taglienti, prodotti da un bidet lanciato per strada da qualche appartamento, chissà da quale altezza. Avranno deciso di lavassela nel lavandino, pensò il taxista. Infine decise di fare retromarcia per raggiungere l’indirizzo di quel corpo che, inaspettatamente, dava segni di vita.

“Ohi, ohi o dove siamo?” Era il mugolìo proveniente dal sedile posteriore.

“Zitto e buci, che ti porto a casa.” 

“Ma io devo andare a una festa.”

“Stai zitto, che se no la festa te la faccio io, briao.” 

Sfortuna volle che, cambiando strada, il taxi ripassò sotto lo stabile dove abitava Marisa.

“Fermati! Sono arrivato.” Urlò Roberto che, nonostante la sbornia, riconobbe l’edificio, 

“Fermati! T’ho detto. Fermati che devo scende’ qui!” Continuò a voce ancora più alta nell’orecchio dell’autista che, avendone piene le scatole di quel servizio accettato per misericordia, frenò di botto il millecento, con una riga verde allo shassis. 

“Senti pallino, io ti devo consegnare in Via del Fagiano 32. Chiaro? E sono già stato pagato per il servizio. Chiaro? Se continui a urlammi nell’orecchio, sai cosa faccio? Ti scendo qui e te la vedi da te solo. Hai ‘apito?”

Nel frattempo, lesto come un furetto, Roberto era già sceso, diretto verso l’ingresso del palazzo. Approfittando di un paio di persone che stavano uscendo, si intromise nell’androne e salì barcollando, appeso al corrimano, fino al quarto piano dove abitava Marisa. Sfinito per la salita, suonò il campanello. Quando Marisa aprì, lo guardò con sorpresa e rimprovero.

“Ma si può sapere dove t’eri cacciato? Ti abbiamo cercato per tutta la casa.”

“Guarda. Senti.” Balbettò. “Ero a una festa, ‘un mi chiedere dove, ché non lo ricordo. Però ricordo che era uno strazio e che mi sono annoiato tutto il tempo. Due palle!… Meno male sono scappato per correre da te, Qui, com’è? Ci si diverte? Son siuro che qui è tutta un’altra musia. Un so propio come sia successo.” Borbottò, la lingua impastata. “C’era della gente brutta e noiosa…” 

Ma non poté proseguire oltre perché la porta gli sbatté sul naso. 

Se è vero che l’alcool aiuta a raccontare, quel pane che avrebbe dovuto unirli, si ammollò tristemente in un attimo e si sbriciolò prima di poter essere condiviso. 


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