Sull’origine del termine “borsa nera” e sugli imprevisti della vita

Una Commedia e un Film

Il denaro fa la guerra, la guerra fa il dopoguerra, il dopoguerra fa la borsa nera, la borsa nera rifà il denaro, il denaro rifà la guerra.” (Principe Antonio De Curtis, in arte Totò).

Oggi, una fonte di conoscenza importante è costituita da Internet.

Se andiamo su un qualsiasi motore di ricerca e digitiamo il termine “borsa nera”, nel mare delle risposte che compaiono troviamo la seguente definizione:

«Forma illegale di commercio avente ad oggetto beni di prima necessità (generalmente derrate alimentari) o valuta. La borsa nera è tipica di contesti economico-sociali caratterizzati da un’insufficiente offerta, causata a sua volta da guerre o catastrofi o da provvedimenti governativi volti a garantire alla popolazione un quantitativo minimo essenziale (pane, carne, latte, petrolio ecc.) o a combattere il fenomeno inflazionistico (v. Inflazione) o, ancora, a contenere le importazioni da altri paesi. In particolare, per quanto concerne la valuta, l’esistenza della borsa si collega a divieti e restrizioni nel cambio libero della moneta nazionale con quelle straniere. Le contrattazioni che hanno luogo nella borsa sono contraddistinte da prezzi notevolmente maggiorati rispetto a quelli vigenti nel mercato ufficiale.» Fonte: Dizionari Simone online: www.simone.it

Il termine “borsa nera” nel 1942

Nel nostro Paese il termine “borsa nera” entra nell’uso comune sin dall’anno 1942, per indicare un mercato “parallelo” a quello legale determinato dalla carenza di generi – alimentari e non – che, con il procedere disastroso della guerra, diventava sempre più difficile trovare. A Roma il ricorso ai “borsari neri” si estende a dismisura con l’occupazione nazifascista della città che diventa, di fatto, una retrovia tedesca del fronte di guerra e, a causa dello sviluppo degli eventi bellici dopo il Settembre del ’43, nella città occupata i generi alimentari che arrivano non riescono a soddisfare le esigenze di una popolazione che cresce per l’arrivo di oltre 400mila “sfollati” che vanno ad ingrossare il numero dei suoi abitanti. Il ricorso alla “borsa nera” (per chi può permetterselo) cresce anche a causa del razionamento dei generi alimentari che tedeschi e fascisti impongono alla città riducendo progressivamente, fino a 80 grammi giornalieri a testa, la razione di pane ritirabile con la “carta annonaria”. Nonostante l’azione di repressione che veniva esercitata dalla Polizia della “Città aperta” – in particolare dalla Regia Guardia di Finanza che aveva costituito, dopo l’8 Settembre ’43, specifici Nuclei di “Polizia Annonaria” – dunque il “mercato nero” restò fiorente e si protrasse anche nel primo periodo di pace, dopo la fine del conflitto.

Sotto trovate due esempi, una Commedia e un Film, in cui entra il termine “borsa nera”. Sono due capolavori  del nostro Teatro e della nostra cinematografia che – attraverso la finzione del palcoscenico e del set, raccontano la Storia, insieme alle storie di chi quella Storia con la S maiuscola ha vissuto per davvero.

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Napoli milionaria

«Adda passa’ a nuttata.». (Eduardo De Filippo “Napoli Milionaria”, 1945)

Nella finzione teatrale, un esempio famoso di “borsa nera” ci è descritto dal grande Eduardo De Filippo nella sua celeberrima Commedia intitolata “Napoli Milionaria!”. A liberazione avvenuta, nel “basso” napoletano in cui vive, la moglie di Gennaro Jovine, Amalia, ha avviato – durante l’assenza del marito militare (che tornerà a casa solo con la fine del conflitto) un fiorente e fruttuoso “mercato nero” di ogni genere di prodotti. La donna però, ad un certo punto della storia, avrà bisogno della penicillina – un medicinale che era stato portato in Italia dagli americani – indispensabile per salvare la vita della figlia Rituccia gravemente ammalata; penicillina che però risulterà introvabile anche per lei, che è disposta a pagare qualsiasi prezzo. La donna sospetta che la medicina sia tenuta nascosta per farne alzare il prezzo, espediente che anche lei ha usato spesso, con diverse merci, per aumentare i suoi guadagni. Il medicinale, alla fine, le sarà portato da un suo cliente, il Ragionier Spasiano, che la donna aveva affamato ed impoverito, in passato, con esose richieste di denaro in cambio dei generi alimentari introvabili, necessari all’uomo per sfamare i propri figli. Lui possiede ancora un flacone di quella medicina, che ha dovuto usare per i suoi figli e lo regalerà alla donna, senza nulla pretendere in cambio, sperando che lei capisca che «Chi prima, chi dopo, ognuno deve bussare alla porta dell’altro». Ad Amalia e a Gennaro, a questo punto, non resterà che aspettare che la medicina faccia effetto: «Mo avimm’aspetta’, Ama…» – le dirà il marito – «S’ha da aspetta’.». «Comme ha ditto o’ dottore?». «Adda passa’ a nuttata.».

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“Un Giorno da Leoni”

Per vincere ci vogliono li leoni” (Nanni Loy, “Un Giorno da Leoni”, 1961)

Michele, Gino e Danilo sono tre cittadini di una Roma scossa dagli eventi successivi all’Armistizio del settembre 1943. Il primo è impiegato in un ministero ed è costretto a trasferirsi nell’Italia del nord, insieme al resto del personale del proprio ente; nel momento in cui apprende che, essendo scapolo, rischia di essere inviato in Germania, fugge dal convoglio e torna a Roma. Gino è un giovane che pratica la borsa nera per poter mandare avanti la numerosa famiglia. Danilo, amico di Michele, è uno studente universitario renitente alla leva. Nessuno di loro ha un particolare interesse ideologico nelle sorti del conflitto, nè, fino a quel momento, vi è stato coinvolto. Ma nella complessa situazione determinatasi in quel frangente storico, rimanere indifferenti è impossibile. Film drammatico di ambientazione bellica, diretto da Nanni Loy, racconta un periodo storico di particolare complessità, caratterizzato da un rapidissimo susseguirsi di gravi eventi, i quali spingono persone di diverse origini e propensioni – tali sono i tre giovani protagonisti, ma anche altri personaggi coinvolti nella vicenda – ad una presa di coscienza del proprio ruolo in relazione ai tempi. Ne derivano una crescita morale ed una conseguente assunzione di responsabilità. Michele è un pavido e timido ragioniere; per obbedire agli ordini, lascia la sua ragazza; compreso il rischio di poter finire molto lontano da casa, senza garanzie circa il ritorno, si lancia in una fuga che, secondo il suo progetto, si dovrebbe concludere a sud della Linea Gustav, insieme a Danilo, uno studente idealista e riottoso, ma solo a parole. Ben diverso da loro, perché  di bassa estrazione sociale, è Gino, un giovanotto dall’espressione e dai modi “lesti”, dedito alla borsa nera. Nel corso del viaggio verso il basso Lazio, il treno che trasporta i tre è intercettato da soldati tedeschi, che avviano un rastrellamento; essi, raggiunto un paese, si rifugiano presso un’abitazione, entrando in contatto con gli occupanti, alcuni dei quali sono partigiani. Prima Michele e Danilo, poi Gino, sono coinvolti nelle attività di questi ultimi, comandati dai determinati Edoardo ed Orlando. I tre giovani conoscono, per esperienza più o meno diretta, la fame, il freddo, l’orrore dei rastrellamenti e delle esecuzioni sommarie; la paura costante ed il dolore per chi viene a mancare; l’assurdità della guerra civile, avere un vecchio amico come nuovo nemico. Nutrendo l’anima con queste esperienze, essi la fortificano, rafforzando la determinazione per il raggiungimento del loro scopo, la qual cosa è sinonimo di sacrificio. Evocativa è la ricostruzione dell’ambientazione bellica; sono visibili poche armi e poche divise, ma l’ingombrante presenza dell’occupante è palpabile. Coprifuoco, limitazioni alla libertà di movimento, controllo sulle attività, le prepotenze dei collaborazionisti in uniforme, rendono difficile la vita dei civili. L’immagine che dà il regista della Resistenza è quella di un movimento popolare, al quale hanno dato il proprio contributo persone diverse ed animate dai più disparati motivi, dall’ideologia, all’opportunismo, fino al più semplice istinto di sopravvivenza. Tra i molti attori noti, ho apprezzato Tomas Milian nel ruolo di Gino; per l’attore originario di Cuba, il periodo dei film poliziotteschi e del “Monnezza” deve ancora venire, ma mimiche e caratteristiche del personaggio iniziano a delinearsi. Bravi anche Leopoldo Trieste e Nino Castelnuovo, nelle vesti degli altri due protagonisti Michele e Danino, e Carla Gravina – la coraggiosa popolana Mariuccia. Emblematiche due sequenze, in particolare. La prima, il monologo della vedova di Edoardo, morto per le violenze successive al suo arresto. Ella, se non nega l’importanza del ruolo “pubblico” dell’uomo, ne deplora tuttavia il “privato”, rimproverando al marito i molti dolori causati a lei e, soprattutto, ai suoi figli, destinati a crescere senza padre, a causa della sua militanza attiva. Un simile punto di vista è sostenuto dalla moglie di Orlando, legatissimo ad Edoardo, la quale, in seguito all’arresto dell’amico, invita il marito a non pensare più al progetto comune dell’unità partigiana. Altra sequenza memorabile, quella conclusiva. Mentre un sedentario “travet” dall’aspetto dimesso sceglie di morire per un ideale, un graduato fascista dirige nella ginnastica un gruppo di reclute, mentre alcuni commilitoni, cantando baldanzosamente, escono in pattuglia alla ricerca di qualche persona inerme da infastidire. Chi è il “leone”, l’uno o gli altri? Nanni Loy racconta una storia di formazione e di lotta, dando voce ad una coscienza “corale”, che trae forza non tanto dalle ideologie, quanto da istinti universali di sopravvivenza e ribellione alle ingiustizie.

Nota 1: I protagonisti del Film di Nanni Loy faranno la loro azione partigiana minando e facendo saltare un ponte ferroviario. Nella realtà quell’azione avvenne davvero. Si trattò di un’azione condotta dai combattenti della Banda Partigiana dei Castelli [il comandante era il genovese Pino Levi Cavaglione, di Giustizia e Libertà, Ndr.] in collaborazione con i combattenti del Fronte Militare Clandestino di Resistenza, diretto dal Colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, poi assassinato alle Cave Ardeatine. Al riguardo, così scrive Mario Avagliano: “[…]. Il titolo del libro (Il Ponte Sette Luci) prende lo spunto dall’azione militare più clamorosa realizzata dalla Resistenza romana. Nella notte di pioggia tra il 20 e il 21 dicembre la banda dei Castelli Romani, con la collaborazione del Fronte Militare Clandestino, portò a termine un’azione spettacolare dal punto di vista bellico. Vennero fatti saltare in aria, quasi nello stesso momento, un convoglio carico di esplosivi sulla Roma-Cassino, nei pressi di Labico, e il ponte Sette Luci della ferrovia Roma-Formia, a circa 25 km da Roma, mentre vi transitava un treno carico di militari tedeschi, provocando circa 400 tra morti e feriti. Gli ordigni per gli attentati e le informazioni sui treni erano stati forniti da Giuseppe Montezemolo. La paternità dell’azione, per prudenza, fu avvolta da segreto: il Cln non ne diede notizia sulla stampa clandestina e i tedeschi, persuasi che i partigiani italiani non erano così efficienti da compiere azioni belliche di tale portata, la attribuirono ai paracadutisti inglesi.” (Fonte: https://www.marioavagliano.it/index.php/storie/item/621-storie-pino-levi-cavaglione-e-il-giorno-da-leoni).  

Nota 2, Il Film e la censura: la scena in cui vengono mostrati i partigiani impiccati in piazza era in origine più lunga, soffermandosi sui primi piani di ciascuna vittima. Questa sequenza venne eliminata per volere della censura che la ritenne “impressionante e quindi inadatta alla sensibilità dei minori”.Si tentò inoltre di far eliminare la battuta pronunciata da Salvatori “Non ve lo scordate mai”, pronunciata alla vista delle vittime, ma Loy si rifiutò categoricamente.


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