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Tentare la fuga o soccombere alle torture?

Dilemma per i detenuti minorenni del "Cesare Beccaria" di Milano. Una storia "ristretta"

“La responsabilità penale è personale.

L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.

Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

Non è ammessa la pena di morte.“.

(Costituzione della Repubblica Italiana, Articolo 27)

Nel pomeriggio del 25 Dicembre 2023 sette detenuti, cinque dei quali ancora minorenni, evadono dal Carcere minorile “Cesare Beccaria” di Milano, approfittando di alcuni lavori in corso da tempo nella Struttura carceraria. Quattro verranno ripresi.

Sembrava la classica notizia di taglio basso in Cronaca ma, invece, era solo il Primo Atto di una Tragedia, affatto scespiriana. Il Secondo Atto lo hanno interpretato, alcuni giorni fa, gli Agenti della Polizia Penitenziaria in servizio al “Beccaria”. Risultato: tredici agenti sono stati arrestati e otto sospesi dal servizio. L’accusa è quella di violenza, maltrattamenti e torture contro 12 ragazzi detenuti, accusa aggravata dalla condizione di “minorata difesa” delle vittime dell’aggressione violenta perpetrata dai 13 Agenti arrestati, al momento dell’arresto 12 di loro erano ancora in servizio nel Reclusorio Minorile milanese, nonostante i fatti delittuosi loro addebitati.

Va ricordato che  L’Articolo 613-bis c.p. punisce con la reclusione da 4 a 10 anni: “chiunque, con violenze o minacce graviovvero agendo con crudeltà cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza ovvero che si trovi in situazione di minorata difesa, se il fatto è commesso con più condotte ovvero comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.”.

E’ notizia del 23 Aprile scorso che il Governo avrebbe l’intenzione di fare dietro front sull’intenzione, in precedenza manifestata da alcuni esponenti del Partito di maggioranza relativa, di cancellare dal Codice Penale il reato di tortura. Lo ha dichiarato al Quotidiano La Stampa di Torino, il Sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove, peraltro rinviato a giudizio per “rivelazione di segreti d’ufficio”.

Il Carcere minorile della Capitale lombarda è intitolato all’insigne Giurista milanese Cesare Beccaria (1738-1794) il quale, nella sua Opera più famosa, “Dei Delitti e Delle Pene” (1764), oltre ad essere contrario alla pena di morte, sosteneva – certo in contrasto con il pensiero giuridico della sua epoca – che “il fine delle pene deve essere quello di convincere il reo a non ricommettere il crimine e dissuadere gli altri da compiere le stesse azioni illecite, perciò le pene non dovranno far soffrire il reo che tanto dalla sofferenza non potrà azzerare il crimine, ma dovranno servire da esempio durevole ed efficace per gli altri uomini.”.

Cesare Beccaria, Dei Delitti e Delle Pene

“Della pena di morte”

“in base a quale diritto lo Stato può uccidere un uomo? Il diritto di uno Stato nasce dal sacrificio di parte della libertà dei cittadini che per il bene comune hanno fatto un patto con chi ha il compito di governarli; ma nessuno con tale patto ha rinunciato al diritto di vivere e d’altra parte se nessun uomo ha diritto di porre fine alla propria vita, come può attribuire questo stesso diritto allo Stato? Non è quindi la pena di morte un diritto. Lo stato potrebbe uccidere solo per necessità o per utilità, ma la morte non è né utile né necessaria se non per difendere la libertà dello Stato. Non vi è alcuna necessità invece di uccidere un cittadino, perché la sua morte non distoglie gli altri dal commettere reati, perchè non è l’intensità della pena a far effetto sull’animo del cittadino quanto piuttosto l’estensione di essa; non è il terribile spettacolo di un uomo che viene ucciso, ma il lungo e stentato esempio di un uomo chiuso in una gabbia, privo di libertà.”

“Perché una pena sia giusta deve avere quel grado di intensità che basta a rimuovere gli animi dai delitti e la pena di schiavitù perpetua basta per frenare ogni animo scellerato più della pena di morte; infatti molti vedono la morte come la fine delle miserie e invece la schiavitù è vista come l’inizio di una miseria peggiore di quella da cui si vuol fuggire. Inoltre la schiavitù perpetua spaventa più chi la vede che chi la soffre, perché chi la vede la giudica nella sua somma delle pene mentre chi la vive considera momento per momento la sua sofferenza. Quando uno scellerato considera la sua vita con quella comoda e ricca di altri, pensa che con un gesto coraggioso potrebbe cambiare la propria vita e se va male soffrirà un attimo ma se va bene starà meglio per lungo tempo; di fronte al timore di un carcere perpetuo fa un utile paragone di tutto ciò con l’incertezza dell’esito dei suoi delitti con la brevità del tempo di cui ne godrebbe i frutti. Felici quindi quei paesi che hanno leggi che si sono sapute allontanare dalla tradizione ed hanno abolito ciò era sbagliato.”.

E ancora, relativamente alla tortura, Beccaria affermava, con convinzione, che: “La tortura è una crudeltà: essa costringe a confessare la propria colpevolezza, a confessare il nome dei propri complici o a confessare altri delitti, ma non sempre porta a confessare la verità o il vero colpevole; spesso un innocente sottoposto a tortura confessa di essere colpevole per por fine alla tortura, perciò è più facile che un reo forte e coraggioso si salvi con la tortura e che un innocente debole sia ingiustamente dichiarato reo. Anche far fare il nome dei complici non è a vantaggio della giustizia perché i più forti e criminale resisteranno, i più deboli inventeranno nomi per fuggire al dolore. I romani usarono la tortura solo sugli schiavi che non consideravano persone e stati illuminati d’Europa l’hanno abolita perché in una società dove chi rispetta le leggi sono più di chi le trasgredisce è più facile colpire ingiustamente un innocente che costituisce la maggioranza, piuttosto che un reo.”.

Dunque, al di là di quanto stabilito, relativamente all’espiazione della pena comminata in relazione al delitto commesso dalle Norme di Legge in vigore, le quali discendono dall’Articolo della Costituzione che avete letto all’inizio di questa Nota (e da quanto di conseguenza  stabilito dal Regolamento Carcerario) – molto abbiamo ancora da imparare nel nostro Paese, riguardo il trattamento dei detenuti, non solo minorenni, se con una frequenza che non dovrebbe esistere (e non ci si aspetta) si scoprono casi come quello raccontato qui, il quale purtroppo non è l’unico a macchiare il nostro Sistema carcerario e il lavoro degli Agenti di Custodia che, nella maggioranza, si attengono, invece, a quanto le norme di Legge stabiliscono e sono consci del fatto che per il detenuto la pena non deve essere afflittiva, ma riabilitativa. O almeno si spera sia così.

Anche se alcuni fatti smentiscono duramente questo assunto, noi continuiamo a pensare – con Cesare Beccaria e con la nostra Costituzione – che: “il fine delle pene deve essere quello di convincere il reo a non ricommettere il crimine e dissuadere gli altri da compiere le stesse azioni illecite, perciò le pene non dovranno far soffrire il reo che tanto dalla sofferenza non potrà azzerare il crimine, ma dovranno servire da esempio durevole ed efficace per gli altri uomini.”.

*****

Nota in temaLa Prigione, l’Isola (che stavolta c’è) e noi

Come recita il titolo dell’ultimo libro di Daria Bignardi, “Ogni Prigione è un’Isola” (Mondadori, 2024) ed è vero, ogni Carcere è ed ha una storia a sé stante. Ci sono Carceri – nel linguaggio burocratico li chiamano “Case Circondariali” – in cui l’Articolo 27 della Costituzione, soprattutto nel suo terzo e penultimo comma, trova applicazione concreta e dunque in essi si respira un’aria diversa anche se pur sempre un’aria di galera) e Carceri dove di ogni Articolo della Carta Costituzionale è negata l’applicazione concreta, se posso scriverlo: in profondità, con pervicacia e anche con una buona dose di accanimento, evidentemente non terapeutico (come ci dimostra, per esempio, quanto avete letto fin qui). E dunque, l’aria che in questi Carceri si respira è maggiormente rarefatta, maggiormente soffocante, per molti talmente pesante e irrespirabile da spingerli alla fuga o peggio a suicidarsi per chiudere, in qualche modo, una partita giudicata persa in partenza..

Nota: i dati di fonte ministeriale ci dicono che attualmente si trovano in carcere quasi 60mila detenuti (per la precisione 59.715) in numero notevolmente più elevato di quello consentito dai “posti letto” disponibile in tutto Il Sistema carcerario nazionale. La stessa fonte governativa registra – ad oggi – un totale di  67 suicidi.

Ma comunque la si intenda la “questione carceraria” e le persone che la popolano, ci riguarda e quelle persone ci riguardano, anche se noi siamo liberi. Ci riguarda la galera e ci riguardano i galeotti, come cittadini coscienti e responsabili e questo essere coinvolti in quella questione civile (o che dovrebbe esserlo) ci invita, ogni giorno, a non mettere la testa sotto la sabbia, ma, al contrario, ad avere la capacità (parafrasando il Lucio Battisti di “Emozioni”: “tu chiamalo, se vuoi, coraggio”) di confrontarci anche con storie carcerarie che avremmo voluto non fossero state, meglio, di cui non avremmo mai voluto sapere nulla. Dunque – come scrivo spesso – per “capire e capirci” è utile leggere il libro della Bignardi. Azione caldamente consigliata.

Daria Bignardi, “Ogni Prigione è un’Isola”, /Mondadori, 2024) –  Il libro:

«So come vanno le cose col carcere» scrive, «il carcere lo odiano tutti. Alcuni amano il carcere degli altri, per così dire»: parlarne è un gesto inevitabilmente politico, perché rivolgendo lo sguardo al carcere lo si rivolge al cuore della società, ma questo è anche e prima di tutto un libro personale, in cui ogni cosa – ritratti, riflessioni, cronaca, ricordi – è cucita assieme dalla scrittura limpida e coinvolgente di Daria Bignardi.

“Il carcere è come la giungla amazzonica, come un paese in guerra, un’isola remota, un luogo estremo dove la sopravvivenza è la priorità e i sentimenti primari sono nitidi”: forse è per questo che, da narratrice attratta dai luoghi dove “l’uomo è illuminato a giorno”, Daria Bignardi trent’anni fa è entrata per la prima volta in un carcere. Da allora le prigioni non ha mai smesso di frequentarle: ha collaborato con il giornale di San Vittore, portato in tv le sue conversazioni coi carcerati, accompagnato sua figlia di tre mesi in parlatorio a conoscere il nonno recluso, è rimasta in contatto con molti detenuti ed è tuttora un “articolo 78”, autorizzata cioè a collaborare alle attività culturali che si svolgono in carcere. Ha incontrato ladri, rapinatori, spacciatori, mafiosi, terroristi e assassini, parlato con agenti di polizia penitenziaria, giudici, direttori di istituto. Per scrivere di quel mondo si è ritirata per mesi su un’isola piccolissima: Linosa. Ma il carcere l’ha inseguita anche lì. E gli incontri e la vita sull’isola sono entrati in dialogo profondo con le storie viste e ascoltate in carcere. Bignardi ci racconta il suo viaggio nell’isolamento e nelle prigioni, anche interiori, con la voce unica con cui da sempre riesce a trasportarci al centro delle esperienze, partendo da sé, mettendosi in gioco, così come ha fatto la mattina del 9 marzo 2020 in un video girato di fronte a San Vittore, mentre alcuni detenuti salivano sul tetto unendosi alle rivolte che stavano scoppiando in molte carceri itliane. In seguito a quegli eventi sarebbero morte tredici persone recluse. “.


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