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1943, i “Giusti” al lavoro nella Questura repubblichina di Verona

Salvare l'ebreo sotto il naso dei nazisti; un libro ce lo racconta

Prima una buona notizia … Benito Mussolini non è più cittadino onorario di Ustica. Il Consiglio Municipale dell’Isola siciliana ha deciso, infatti, approvando una specifica Delibera, di revocare tutte le onorificenze concesse ai defunti. Così è decaduta anche la cittadinanza onorarie concessa, nel 1924, al duce del fascismo. In questo modo l’Isola di Ustica che – prima di diventare tristemente nota per la strage del Volo ITAVIA I-TIGI-II 1870, del 27 Giugno 1980 (81 morti) – era stata un’Isola di Confino fascista nella quale avevano soggiornato Antonio Gramsci e Ferruccio Parri – si è liberata di una pesante eredità.

Se riandiamo con la Memoria al biennio 1943-1944 e alla città di Verona certo a noi, amanti della Storia e della Memoria antifascista, non viene subito in mente Arduino della Scala, considerato l’iniziatore della dinastia degli Scaligeri, né ricordiamo la Tragedia “Romeo e Giulietta” che il Bardo di Stratford upon Avon, al Secolo William Shakespeare, scrisse tra il 1594 e il 1596, ma in prima battuta pensiamo alla Repubblica Sociale Italiana di Mussolini, Pavolini e Graziani. Questo perché lo Stato mussoliniano, collaborazionista e fantoccio, voluto e controllato dai tedeschi, fece di quella città veneta del Nord Italia il centro di due azioni politiche che la Storia ci ricorda. A Verona, infatti, si tenne, nei giorni 14 e 15 Novembre ‘43, il Primo Congresso del ricostituito Partito Fascista Repubblicano – Segretario il fiorentino Alessandro Pavolini che nel 1929 era stato Federale di Ferrara e prima ancora Ministro della Cultura Popolare e che, dopo la nascita della RSI, aveva inventato le famigerate Brigate Nere – ma non solo. 

A Verona si svolse anche il Processo, iniziato l’8 Gennaio del ’44 e chiuso tre giorni dopo, che costò la fucilazione alla schiena a sei dei gerarchi fascisti (Ciano, De Bono, Gottardi, Pareschi, Marinelli e Cianetti) su cui i saloini erano riusciti a mettere le mani; gerarchi che – nella notte del 24 Luglio 1943, durante la fatidica seduta del Gran Consiglio del Fascismo, tenutasi a Roma nel Palazzo di Venezia – avevano votato l’Ordine del Giorno Grandi, così decretando, parole del duce: “la fine del fascismo”.

Verona, Castelvecchio, Sala degli “Amici della Musica”: 8-11 Gennaio 1944, il Processo ai gerarchi “traditori” del 24-25 Luglio 43

Sebbene avesse profuso – giorno e notte – ogni sforzo possibile il Giudice Istruttore Vincenzo Cersosimo dovette, alla fine, riconoscere di non aver trovato una sola prova a carico dei gerarchi imputati di alto tradimento, per avere sottoscritto l’Ordine del Giorno Grandi. Allora, Alessandro Pavolini, il Segretario del ricostituito Partito Fascista Repubblicano – per dare corpo all’affermazione di Mussolini, il quale aveva sostenuto che con i traditori del 25 Luglio ’43, “bisognava andare fino in fondo” – inventò ed insediò in Castelvecchio, l’8 Gennaio ’44, un Tribunale Speciale Straordinario composto da fascisti di provata fede fascista che imbastisse un Processo farsa contro i gerarchi traditori e decretasse la loro condanna a morte.

Dopo tre giorni di “dibattimento” il Pubblico Accusatore, Andrea Fortunato, chiese, appunto, la pena di morte per tutti e sei gli imputati e concluse la sua arringa finale con le seguenti parole, cariche della retorica mortifera propria del fascismo della prima ora (ma anche delle successive): “Così ho gettato le vostre teste alla storia d’Italia, fosse pure la mia, purché l’Italia viva,”,

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Nota: Dino Grandi – processato in contumacia – scrisse una lettera al duce nella quale si dichiarava pentito e se la cavò con una condanna a 30 anni di reclusione che, evidentemente, non scontò. Altri 13 imputati, anche loro giudicati in contumacia, colpevoli dal Tribunale Speciale Straordinario e ritenuti colpevoli di alto tradimento e dunque meritevoli della pena capitale, furono tutti condannati anche se, in quanto erano riusciti a fuggire prima del Processo si salvarono da quella condanna definitiva e ognuno di loro sopravvisse alla guerra.

Sul Processo di Verona vedere (o rivedere) il film del 1962, diretto da Carlo Lizzani, intitolato appunto “Il Processo di Verona”, che di quel Procedimento penale farsa ricostruisce motivazioni, svolgimento e fine avvenuta l’11 Gennaio 1944, nel Poligono cittadino di tiro di San Procolo con la fucilazione alla schiena dei sei condannati.  

Ma la città di Verona di quegli anni, oltre alle storie che avete letto sin qui, ne nasconde un’altra che è rimasta sepolta per decenni nei meandri della Memoria non solo cittadina e che il pezzo che potete leggere sotto, scritto da Irene Barichello per il nostro Mensile online Patria Indipendente, ci propone di conoscere. 

Si tratta del lavoro svolto dai “Giusti” della Questura di Verona i quali in quei due anni che, sul territorio controllato dai repubblichini di Salò, erano quelli della “Privazione delle vite” degli ebrei e non solo degli ebrei, salvarono diverse vite di “cittadini di razza ebraica”, come recitavano gli elenchi anagrafici e i loro documenti d’identità. 

Chi sono i “Giusti tra le Nazioni”

La definizione di «Giusto tra le Nazioni» è tratta dalla letteratura talmudica (trattato Baba Batra, 15,2). Nel corso delle generazioni, essa è servita a designare qualsiasi non ebreo che dimostrava un comportamento positivo verso gli ebrei, comportamento che per gli ebrei è – o dovrebbe essere – normale. Lo Yad Vashem, l’Ente nazionale israeliano per la Memoria della Shoah, conferisce il titolo di «Giusto tra le Nazioni» ai non ebrei che durante la Shoah, disinteressatamente e a loro rischio e pericolo, salvarono la vita agli ebrei. La storia di cui scrive la Barichello ce la ricorda attraverso il riferimento al libro intitolato “Le ricerche hanno dato esito negativo” (Cierre Edizioni, prefazione di Stefano Biguzzi), scritto dallo Storico Olindo Domenichini. E’ un libro estremamente interessante, dunque, una storia da conoscere e un libro da leggere e conservare per non dimenticare questa storia veronese.

“Verona 1943, quando i poliziotti salvarono gli ebrei”

Irene Barichello

Con il libro “Le ricerche hanno dato esito negativo”, lo storico Olindo Domenichini racconta la vicenda poco nota dei “giusti” della Questura cittadina durante le persecuzioni razziali nel biennio 1943-1945 (Cierre edizioni, prefazione Stefano Biguzzi). Ed emergono figure di grande levatura morale e civile come quella del brigadiere Felice Sena

Come è noto, la definizione di ‘Giusti tra le Nazioni’ indica coloro che, tra i non ebrei, in qualsiasi modo hanno aiutato gli ebrei a sottrarsi alla persecuzione nazista e fascista. Si trattava di un aiuto disinteressato, dettato da elementari regole di umanità e compassione e, in seguito, se si vuole, da una protesta contro le omicide leggi razziali delle dittature. Naturalmente coloro che si dedicarono a prestare aiuto rischiavano grosso, infatti si trattava di azioni illegali: nascondere, aiutare la fuga di intere famiglie, soccorrere anche materialmente, avvertire gli ebrei di un imminente rastrellamento… Il salvataggio poteva assumere molte forme. Si poteva agire individualmente, in gruppi, o addirittura in intere comunità, come nel caso del paese di Nonantola, che nell’estate del 1942 accolse quasi cento ragazzi ebrei e poi ne organizzò la fuga in Svizzera.

Dopo l’8 settembre 1943, con l’occupazione tedesca e l’inasprimento  delle leggi antisemite della Rsi, la posizione degli ebrei italiani si aggrava: sono dichiarati nemici e la possibilità di essere consegnati alla mercé dei nazisti diventa reale. Carabinieri, questure, tedeschi, Brigate nere, delatori di ogni genere collaborarono alla ricerca e all’arresto degli ebrei italiani. È da qui che parte la ricerca di Olindo Domenico, storico dell’Istituto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea di Verona.

Dopo approfondite ricerche di archivio, Domenichini può documentare come nella Questura di Verona alcuni funzionari e sottufficiali non solo aiutarono il movimento partigiano veronese, ma furono anche attivi nel salvare i concittadini ebrei (circa trecento, di cui trentaquattro finirono annientati nei lager). L’ordinanza di polizia del 30 novembre 1943 di Buffarini Guidi disponeva la raccolta degli ebrei nel suolo controllato dalla Rsi in ‘appositi campi di concentramento’, preludio naturalmente ai campi sterminio.

Domenichini segue le vicende di alcuni uomini della Questura veronese e del loro opporsi alla deportazione e a quella che ritenevano una legislazione disumana. Come scrive Stefano Biguzzi nella prefazione a questo libro, l’autore racconta «la vicenda di quei ‘questurini invisibili’ che a Verona, nelle tenebre della guerra civile e dell’occupazione tedesca, vollero e seppero alimentare una fiamma di umanità segnando con un gesto salvifico il destino di tante vittime innocenti.».

Autentico eroe di questa storia è a mio parere, assieme al vicecommissario Costantino, al commissario capo Guido Masiero e al commissario aggiunto Gagliani, il vicebrigadiere Felice Sena. Nella ricerca degli ebrei veronesi, Sena fu il più attivo e allo tesso tempo il più felicemente inefficace, infatti, come documenta l’autore, tutte le sue ricerche finirono in un nulla di fatto, tutti gli ebrei ricercati dal vicebrigadiere non si trovano e ogni indagine si risolveva sistematicamente con un “esito negativo”. Sono centocinquanta i rapporti ufficiali che si chiudono in questo modo. Purtroppo  però a volte non bastò la salvifica inefficienza del vicebrigadiere: dei trentaquattro ebrei veronesi mai ritornati, nessuno fu catturato dalla Questura ma alcuni furono rintracciati dai tedeschi, alcuni da polizie esterne alla provincia di Verona, il resto da altri soggetti, come le SS italiane.

Scrive lo storico veronese che il comportamento di questi giusti «portava  con sé grandissimi rischi, che il vicebrigadiere probabilmente decise di correre anche perché sapeva di poter contare sulla solidarietà e sull’appoggio dei suoi diretti superiori».

La felice inerzia di settori della Questura non è infatti spiegabile esclusivamente con una serie di iniziative a livello individuale e con l’assoluta ignoranza dei vertici dell’ufficio di Polizia, si può ipotizzare allora un’azione combinata di Sena, Gagliani e gli altri sovrintesa da una silenziosa accondiscendenza dei vertici. Si può anche aggiungere che a Verona non si ebbero mai retate simili a quella romana del 16 ottobre 1943, fatta salva – ovviamente – la diversità dei numeri tra la comunità ebraica romana e quella veronese.

Bisogna ricordare, tuttavia, che rastrellamenti come quello romano o quello veneziano del 5 e 6 dicembre 1943, poterono contare sulla fattiva collaborazione degli uffici di polizia, in particolare a Venezia si impiegarono circa 1.500 agenti nella caccia all’ebreo.

Si deve ricordare inoltre che operare a Verona in favore degli ebrei non era facile: la città era sede di ministeri repubblichini, della Guardia nazionale repubblicana e del BdS Italien, cioè il servizio di sicurezza in Italia dei tedeschi al comando di Wilhem Harster, da cui dipendeva la sezione B4 guidata dal maggiore delle SS Friedrich Bosshammer, esperto di affari ebraici e responsabile dei prigionieri politici e degli ebrei dall’Italia. Anche L’Arena, il quotidiano della città, contribuiva a creare un clima di strenuo antisemitismo, nel quale, a dicembre del 1943, si diffondeva un appello radio della Rsi che intimava di non avere «sentimenti per loro [gli ebrei, ndr], che sono nemici e come tali vanno trattati». In una nazione divisa in due, travolta dalla guerra, abbrutita dal regime fascista, la sostanziale indifferenza alla sorte degli ebrei degli italiani fu riscattata da uomini e donne che in nome della solidarietà umana aiutarono o cercarono di aiutare gli ebrei, entrando, però, in un pericoloso spazio di disobbedienza civile alla legalità razziale del regime fascista. Il vicebrigadiere Felice Sena, che a quanto pare non ha mai raccontato né si è mai vantato in alcun modo di quanto compiuto, ricorda il Bartleby di melvilliana memoria, colui che seppe dire “no” alla perversione razziale del regime in un modo indimenticabile, infatti ogni indagine da lui svolta aveva già un esito previsto, appunto un “esito negativo”. www.patriaindipendente.it


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