A 105 anni dalla “disfatta di Caporetto”
Alle due di notte del 24 ottobre 1917 la XIV Armata austro-tedesca, appositamente costituita per l’offensiva contro il fronte italiano, comandata dal generale tedesco Otto von Below, inizia lo sfondamento delle nostre linee, dove è schierata la 2a Armata (costituita da ben 7 Corpi d’Armata), comandata dal Generale Luigi Capello, nella zona tra Tolmino e Plezzo, che avviene in pochissime ore nel piccolo borgo di Caporetto (ora Kobarid in Slovenia). Questa località ha dato il nome alla più pesante sconfitta dell’Esercito italiano subita in tutte le guerre (compresa la Seconda Guerra Mondiale), con circa 10.000 morti, 30.000 feriti e più di 300.000 prigionieri, tanto che nel linguaggio comune “caporetto” è sinonimo di “disfatta completa”.
La rapida vittoria austro-tedesca è dovuta in parte alla “incapacità militare” dei nostri Comandi, in primis del Comandante Supremo, il generale Luigi Cadorna, ed alla loro insipienza, tanto che non credono a quanto riferiscono vari disertori austriaci sulla imminenza di un vasto attacco, di cui alcuni forniscono anche la documentazione!
In parte la nostra sconfitta è dovuta alle nuove tecniche di attacco introdotte nell’esercito tedesco, basate sulla “guerra di movimento” e sulla penetrazione in profondità oltre le linee nemiche, allo scopo di scompaginarle. Alla base di questa tecnica ci sono le “squadre di assalto”, formate da 11 uomini (7 fucilieri, 2 con mitragliatrici e 2 porta munizioni) e la “linea di comando breve”, che va dalla Divisione al Battaglione, mentre quella delle nostre truppe è lunghissima (burocratica): Corpo d’Armata, Divisione, Brigata, Reggimento, Battaglione. In questo modo gli ordini alle nostre truppe arrivano dopo molto tempo e soprattutto i Comandi inferiori non hanno alcuna “autonomia di azione”, in quanto devono ricevere gli ordini per agire. Questa situazione lascerà i nostri Reparti inferiori “senza ordini” dato che, all’inizio dell’attacco, il cannoneggiamento nemico distrugge quasi tutte le nostre linee di comunicazione. In particolare ne consegue che l’artiglieria del nostro XXVII Corpo d’Armata, comandato dal generale Pietro Badoglio e schierato proprio nella zona di Caporetto, “non risponde” al fuoco nemico.
La sera del 25 ottobre la situazione è già compromessa ed il 28 Cadorna ordina il ripiegamento oltre il fiume Tagliamento dei resti della 2a Armata, e della 3a Armata, schierata sul Carso, comandata dal Duca Filiberto di Savoia (cugino del Re Vittorio Emanuele III), per evitarne l’accerchiamento. Però questa linea di difesa non è considerata valida per cui Cadorna il 4 novembre ordina il ripiegamento oltre il fiume Piave, che diventa la nostra estrema linea di difesa.
Il pomeriggio del 28 ottobre Cadorna, nel Bollettino di guerra, attribuisce la sconfitta ad alcuni Reparti della 2a Armata “vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico”. É l’estremo tentativo di allontanare dalla sua “direzione della guerra” la responsabilità della sconfitta.
La ritirata dei nostri Reparti, in parte “sbandati” e senza la maggior parte degli Ufficiali che si sono dileguati, è molto disordinata. Anche oltre 500.000 civili del Friuli e del Veneto, temendo l’arrivo degli austro-tedeschi, lasciano le proprie case per ritirarsi oltre il Piave ed ingolfano le strade, intralciando i movimenti delle nostre truppe. Alla fine solo la metà dei civili in movimento riesce a passare il Piave.
Naturalmente la gravissima sconfitta militare provoca un terremoto politico. Il Presidente del Consiglio Paolo Boselli si dimette ed il 30 ottobre il Re chiama a dirigere il Governo Vittorio Emanuele Orlando, che era Ministro dell’Interno.
Anche gli Alleati (Inglesi, Francesi ed Americani) sono molto preoccupati, temendo la nostra sconfitta e quindi l’attacco ancora più pesante degli austro-tedeschi sul Fronte Occidentale, e chiedono la “testa” di Cadorna, che è sostituto l’otto novembre dal Generale Armando Diaz, comandante del XXIII Corpo d’Armata, alle dipendenze della 3a Armata, assistito da due Vice Comandanti: il Generali Gaetano Giardino (già Ministro della Guerra nel Governo Boselli) e Pietro Badoglio.
Le nostre truppe resistono sul Piave, ben consapevoli che ora difendono il proprio Paese e non muoiono, inutilmente, sulle pietraie del Carso e dell’Isonzo in inutili attacchi contro le postazioni nemiche ben difese.
Esattamente un anno dopo, il 24 ottobre 1918 inizia la nostra offensiva per riconquistare i territori perduti, meglio nota come “battaglia di Vittorio Veneto”, che porta alla disfatta dell’Esercito austriaco ed il Governo di Vienna è costretto, anche per la difficilissima situazione economica interna, a chiedere l’Armistizio, che è firmato a Villa Giusti (Padova, dove c’è il nostro Comando Supremo) il 3 novembre ed entra in vigore il giorno seguente.
La guerra finalmente finisce, ma è costata oltre 650.000 morti e 1.100.000 feriti e mutilati (tra i quali oltre 4.000 “scemi di guerra”, militari scioccati dalla crudeltà dei combattimenti e dei bombardamenti).
Giorgio Giannini
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