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Cosa ci ha detto il referendum costituzionale: prima di tutto il lavoro

“Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia! Chi vuole esser lieto, sia, di doman non c’è certezza”. Così, lieto, poetava Lorenzo de’ Medici. Per il Magnifico, la certezza, mancante non era sicuramente quella economica. E quindi la giovinezza poteva essere ben lieta. Non è così per le giovani generazioni. I cosiddetti “millenials”, alcuni milioni di giovani che non proprio lietamente possono scegliere tra disoccupazione e lavoro precario.

Per loro il domani, cioè il futuro, non è incerto, è più che sicuro: instabilità di vita, salari e stipendi ridotti, altalenanti, precari. Senza potersi costruire una famiglia oggi e avere una pensione domani. Nella vita della Nazione si stanno costruendo alcune bombe sociali destinate a esplodere non solo sul piano economico ma politico e istituzionale. Una democrazia che non assicura progresso sociale e lavoro stabile e decente, come reclama la Costituzione appena salvata, non è destinata a sopravvivere. C’è consapevolezza di tutto ciò a sinistra? Pare proprio di no, a parte le citazioni d’obbligo nei talk show.

Nel referendum appena concluso, la voce di questa generazione di precari e senza futuro si è appena fatta sentire in modo potente, trainando il fronte del No alle percentuali che sappiamo. Nonostante le analisi sui flussi elettorali degli esperti, le inchieste ricche di dati drammatici di Istat, Censis, Inps e degli istituti di ricerca come Demopolis, la riflessione a sinistra, a parte qualche singola rondine che, com’è noto, non fa primavera, non pare intenzionata ad avviarsi con l’urgenza necessaria. Almeno sul terreno dell’apertura di un dibattito politico, che poi sarebbe propedeutico a programmi e progetti concreti. Mentre sembrano in campo solo i soliti acidi scontri di potere e le conseguenti estenuanti discussioni di schieramento, di posizionamento, di propaganda per mantenere avventurosamente (Renzi) un potere perduto, oppure per trovare soluzioni per allungare oltre modo un brodo parlamentare diventato rancido già da molto tempo, dal 13 gennaio 2014, quando la sentenza dell’alta Corte decretò l’incostituzionalità della legge elettorale che aveva originato il consesso parlamentare.

renzSul terreno dell’occupazione giovanile il PD è uscito malconcio da una politica renziana rappresentata dal jobs act, essenzialmente fondata su facilitazioni alle aziende, cioè ai datori di lavoro, per i licenziamenti e sul finanziamento alle medesime per le assunzioni a “tutela crescente” con licenziamento, anche per ingiusta causa, incorporato. Una politica fondata, come si dice, sull’offerta, senza alcuna garanzia di efficacia se non quella di un affidamento al buon cuore del padronato – “ora gli imprenditori non hanno più alibi” disse Renzi – che, come si sa, assume se c’è crescita economica, se c’è innalzamento della domanda conseguente a una espansione economica. Nel qual caso gli imprenditori assumono, o l’avrebbero fatto, anche in barba al vecchio e già malmesso articolo 18. Siffatta politica occupazionale c’è costata l’esborso fra i 10 e i 12 miliardi, per avere in cambio nessuna crescita di occupazione stabile, ma quella esponenziale del lavoro a ore rappresentata dal moderno caporalato dei voucher che hanno raggiunto la ragguardevole cifra di 140 milioni acquistati, a tutt’oggi, nel corso dell’anno.

Ma faccio un passo, un lungo passo, indietro nel tempo. Trentanove anni fa nel 1977 durante un periodo tragico e drammatico della nostra storia recente, l’Italia stava messa molto male. Stretto fra un’inflazione a due cifre e a un indebitamento che aveva portato la Banca d’Italia a ventilare addirittura di dover impegnare le riserve auree per franto ai creditori, il paese era scosso dall’insorgenza terroristica che bagnava quotidianamente di sangue le strade. Poliziotti, magistrati, esponenti industriali cadevano sotto il piombo delle Brigate rosse e di altre sigle terroristiche di destra e di sinistra.

Le strade della capitale quasi ogni sabato nei mesi di gennaio, febbraio, marzo e oltre erano percorsi da cortei tumultuanti di giovani che sfogavano il loro rancore e la loro avversione in particolare contro i “comunisti berlingueriani” accusati di aver tradito gli ideali e gli obiettivi della rivoluzione proletaria “contro il potere delle multinazionali”. Non erano, come si voleva far credere la maggioranza delle nuove generazioni, ma comunque un fenomeno che ebbe un negativo tragico peso negli sviluppi successivi della lotta politica. C’era però il fatto assai corposo che la disoccupazione soprattutto quella intellettuale, era in quel momento abbastanza diffusa e registrava 1.340.000 senza lavoro in particolare giovani.

scritte-lavoroSe non si voleva lasciare un’intera generazione all’influenza dei “cattivi maestri”, occorreva intervenire. E s’intervenne. Soprattutto per l’impegno del PCI e dei sindacati confederali Cgil, Cisl, Uil che allora erano ancora grandi organizzazioni operaie. Il governo Andreotti, quello delle astensioni, varò un intervento di tutto rispetto: la legge 285. La legge aveva il compito di: “Incentivare l’impiego straordinario di giovani in attività agricole, artigiane, commerciali, industriali e di servizio, svolte da imprese individuali o associate, cooperative e loro consorzi ed enti pubblici economici; finanziare programmi regionali di lavoro produttivo per opere e servizi socialmente utili con particolare riferimento al settore agricolo e programmi di servizi ed opere predisposti dalle amministrazioni centrali; incoraggiare l’accesso dei giovani alla coltivazione della terra; promuovere la costituzione di cooperative di produzione e lavoro in possesso dei requisiti di cui all’art .14 del Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 601; realizzare piani di formazione professionale finalizzati alle prospettive generali di sviluppo”. Per la bisogna il governo, nonostante lo stato emergenziale delle sue finanze, stanziò 1060 miliardi che oggi equivarrebbero a quasi 4 miliardi di euro.

Alle liste della 285, aperte ai giovani fra i 15 e i 29 anni, si iscrissero in poche settimane, nell’estate del ’77, più di seicentomila giovani che furono avviati al lavoro e ai quali si diede l’inizio di un ingresso nel mondo del lavoro e di prospettiva di vita. Non credo che fosse una legge perfetta, anzi, qualcuno, anche nelle file della sinistra e del mondo sindacale, ne temeva il carattere assistenziale e, quindi, peggiorativo per le già disastrate finanze pubbliche, ma in quel momento diede una risposta alle ansie dei giovani e contribuì ad isolare, in quel settore particolarmente esposto, i demoni del terrorismo sottraendogli un bel po’ d’acqua in cui avrebbero potuto nuotare. E anche economicamente ebbe effetti positivi.

Oggi servirebbe qualcosa di simile, non nella sua definizione di allora sicuramente datata, ma certamente nella sua ispirazione di fondo: un intervento massiccio e coordinato della mano pubblica per creare lavoro. Un piano del lavoro che investa immediatamente i due o tre milioni di giovani disoccupati modulando gli interventi su vari piani, in diversi settori economici e con varie modalità.

voucher1Ma chi è in grado di far questo? Non si sa. A destra credono di cavarsela, come al solito, con la xenofobia del “dagli all’immigrato”, a sinistra c’è, per ora, il piano del lavoro della Cgil del gennaio 2013 a cui ha fatto da contraltare il malriuscito, per usare un eufemismo, jobs act del PD e l’esplosione dei voucher. Poi c’è il M5s che pensa di dare una risposta al problema con il cosiddetto “reddito di cittadinanza”. Misura questa puramente emergenziale e di dubbia attuazione per estensione e quantità degli interventi, dal sapore assistenzialistico, mentre il problema semmai è, all’opposto, quello di un “lavoro di cittadinanza”, cioè una risposta che sia sociale ma anche produttiva e morale. La Costituzione energicamente difesa dai pentastellati nel recente referendum è fondata sul lavoro, non sull’assistenza.

A sinistra, qualsiasi discussione, dibattito, ipotesi di riorganizzazione, di alleanze, rifondazioni e fondazioni nuove, dovrebbe partire da qui, e in modo urgente: dal diritto al lavoro in generale e, in particolare, per le nuove generazioni con un piano nazionale conseguente. Ma se la preoccupazione principale è ancora quella di giocare a futuri schieramenti dentro e fuori il PD e alla sua sinistra, prescindendo dai contenuti e dagli obiettivi di una politica progressista, allora non si è capito nulla del risultato referendario e di ciò che si muove nella società e delle angosce dei “millenials”.

Una sinistra ripudiata dalle giovani generazioni non ha futuro. La cosa è certa, ma, a differenza di ciò che poetava il Magnifico, non è lieta.


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