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Gli stupri nei territori occupati dopo la “disfatta di Caporetto”

Durante la Grande Guerra circa 900.000 friulani e veneti, abitanti nelle Provincie di Udine, Gorizia, Belluno e Treviso, rimasero nei territori occupati dalle truppe tedesche ed austroungariche dopo la “disfatta di Caporetto” dell’ottobre 1917. Circa 250.000 civili, invece, riuscirono a ritirarsi oltre il Piave, insieme con le nostre truppe.

L’occupazione nemica durò un anno, fino alla nostra vittoriosa offensiva della fine dell’ottobre 1918, passata alla storia come “battaglia di Vittorio Veneto”, che portò alla disfatta dell’Esercito austriaco ed alla firma dell’Armistizio di Villa Giusti.

L’occupazione fu caratterizzata da enormi sofferenze da parte della popolazione, conseguenti al saccheggio sistematico di ogni genere di beni: il bestiame, i prodotti agricoli e perfino le suppellettili delle case. Di conseguenza, per la penuria di cibo circa 10.000 persone morirono di fame e altrettanti per le malattie, provocate soprattutto dalla denutrizione.

Inoltre nei territori friulani e veneti occupati fu attuata in modo ampio la violenza sessuale sulle donne, senza alcuna distinzione, né di età né di condizione fisica e sociale. Infatti, le vittime furono non solo donne adulte e sposate, ma anche bambine e ragazze e perfino donne anziane e malate.

Il numero delle vittime non si conosce per precisione, soprattutto per il “senso di pudore” e di vergogna, che portò molte donne a non raccontare la violenza subita. Per lo stesso motivo nelle Comunità locali ci fu una situazione di omertà, che indusse prima a negare il problema o a sminuirlo come “tentativo di violenza”, come se la violenza non ci fosse stata, e poi a dimenticarlo.

Subito dopo la fine del conflitto, il dramma degli stupri fu documentato da una Commissione di inchiesta, istituita dall’Ufficio Tecnico di Propaganda Nazionale, che  in pochi giorni (dal 4 al 14 novembre 1918) condusse una inchiesta sulle violenze di ogni tipo, e quindi anche quelle sessuali, subite dalla popolazione dei territori occupati dopo la “disfatta di Caporetto”, che furono illustrate nella pubblicazione “Il martirio delle terre invase”.

Successivamente, alla fine del novembre 1918 fu istituita la Reale Commissione di inchiesta sulle violazioni dei diritti delle genti commesse dal nemico, con lo scopo precipuo di documentare la gravità delle violenze subite dalla popolazione dei territori friulani e veneti occupati dalle truppe tedesche ed austroungariche, per sostenere la richiesta dei danni di guerra contro gli Imperi Centrali da parte del nostro Paese alla Conferenza di pace di Parigi.

La documentazione raccolta dalla Commissione fu inserita in un’ampia Relazione, pubblicata in sette volumi tra il 1920 ed il 1921. In particolare, le violenze sessuali sulle donne sono state documentate nel Capitolo “Delitti contro l’onore femminile” del IV Volume della Relazione, intitolato “L’occupazione delle Provincie invase”.

Invece nel VI Volume della Relazione, tra gli Allegati, ci sono i “Rapporti delle Autorità locali” (i Sindaci, i Parroci ed i Medici Condotti), che assistettero le donne vittime degli stupri e raccolsero le loro testimonianze tramite  un Questionario, che era stato inviato il 27 novembre 1918 a tutti i Comuni dei territori occupati dopo la “disfatta di Caporetto”, nel quale si chiedeva di accertare «se nelle terre invase la soldataglia  nemica  avesse commesso violenze contro le persone, con uccisioni e ferimenti di cittadini inermi  e con stupri di ragazze e di donne maritate, specificando i fatti e le singole responsabilità». In pratica, con il Questionario, i Sindaci, i Medici ed i Parroci dovevano riferire su tutte le violenze, comprese quelle sessuali, subite dalla popolazione locale.

I casi documentati di stupro furono 735, ma le vittime erano identificate solo in 165 casi. Questo perché molte donne, per il loro innato “senso del pudore”, erano state reticenti nel raccontare l’esperienza traumatica subita, anche perché la raccolta delle loro testimonianze ed il loro interrogatorio erano stati fatti da uomini. Pertanto, la maggior parte delle donne non raccontarono, per la vergogna, la violenza subita oppure la occultarono in parte, riferendo solo di un “tentativo”, non riuscito, di stupro per tutelare non solo la propria onorabilità, ma anche il “decoro” della loro famiglia. Soprattutto i Parroci misero in evidenza la “resistenza” alla violenza attuata da molte donne, che avevano reagito «con le unghie ed i denti» al tentativo di stupro.

In molti casi si mise in evidenza il tentativo di difesa delle donne, purtroppo riuscito solo in pochi casi, sia da parte dei familiari maschi presenti (il padre o il marito), sia da parte di uomini della Comunità locale.

La maggior parte delle violenze sessuali furono attuate nella prima fase dell’occupazione militare, in particolare, nella prima metà del novembre 1917, quando le truppe tedesche ed austroungariche erano ancora impegnate nell’avanzata verso il Piave. Infatti, dopo il passaggio del controllo di alcune zone occupate dal Comando militare tedesco a quello austriaco, come riferisce la Reale Commissione di inchiesta, le violenze «diminuirono considerevolmente», anche se continuarono a verificarsi, nonostante gli “inviti” degli Alti Comandi ai Comandanti dei Reparti a reprimere le violenze compiute dai propri soldati. Ciononostante ci fu una sostanziale impunità per gli autori degli stupri, che furono soprattutto soldati tedeschi, ungheresi, bosniaci e croati. Lo stupro era infatti inserito dai Vertici Militari tra i “reati minori”, come il saccheggio e la violenza fisica sulla popolazione, considerati inevitabili nel corso di una guerra.

La maggior parte delle violenze sessuali furono compiute da gruppi di soldati, in genere 3 o 5, ma anche 10 o 15 e perfino 20, come avvenne a Valdobbiadene (Treviso) su due giovani sorelle.

La maggior parte delle vittime furono donne trovate in casolari isolati (le cui porte dovevano rimanere aperte, in base alle Ordinanze militari), ubicati lontano dai centri abitati o in piccole Frazioni, dove peraltro era più difficile che ci fossero dei testimoni al di fuori dei familiari (mariti, padri, figli), che quasi sempre furono costretti ad assistere allo stupro.

Le violenze furono compiute anche all’interno di edifici pubblici, come i Comuni e gli ospedali, ed anche in Chiese e Canoniche.

Molte violenze furono compiute su donne che abitavano in montagna e che scendevano a valle per andare a lavorare o a procurarsi del cibo, e su profughe, che si erano allontanate dal luogo nativo per cercare di raggiungere posti più sicuri.

Molti stupri furono compiuti anche su ragazze di 12-14 anni e perfino su bambine di pochi anni «sotto gli occhi piangenti delle madri».

Le vittime furono perfino donne molto anziane oppure malate, perfino contagiate dalla terribile epidemia “spagnola”, che falcidiò la popolazione civile debilitata.

In molti casi, le vittime, oltre a subire il trauma psicologico, da cui non si ripresero mai, contrassero le terribili malattie veneree a trasmissione sessuale, come la sifilide, che le segnò gravemente nel fisico e le portò spesso alla morte.

In 93 casi documentati, le donne persero la vita in seguito alla violenza. In 53 casi, furono uccise durante o dopo lo stupro. In 40 casi le donne morirono per le conseguenze della violenza e delle percosse ricevute. In vari casi, anche i familiari maschi presenti allo stupro (padre o marito) furono uccisi o malmenati.

Raramente gli Ufficiali intervennero per punire i soldati autori delle violenze. Non sappiamo però se gli autori furono processati e condannati. Crediamo, però, che tutti gli autori degli stupri sono rimasti impuniti. In genere, infatti, gli Ufficiali, tollerarono che i propri soldati saccheggiassero le case e violentassero le donne, addirittura incitandoli a farlo, come fecero in Belgio e nei territori occupati della Francia. In altri casi commisero direttamente lo stupro.

Centinaia di donne rimasero “incinta” in seguito alla violenza subita. Molte furono indotte ad abortire dai familiari per evitare l’onta del disonore della famiglia. Per lo stesso motivo, ci furono anche alcuni casi di infanticidio, provocato in genere non allattando il neonato.

La maggior parte delle donne però portò a compimento la gravidanza, per cui nacquero alcune centinaia di bambini e bambine, che nella maggior parte dei casi non furono accettati dai familiari perché considerati “figli del nemico” e chiamati “piccoli tedeschi”. I neonati “rifiutati” dalle famiglie non potevano essere portati negli Orfanotrofi dato che non erano orfani. Pertanto erano chiamati “orfani dei vivi”.

Per risolvere il “problema”, il 2 dicembre 1918 fu aperto a Portogruaro (Venezia) un Ospizio per i “figli della guerra”, chiamato in seguito Istituto di S. Filippo Neri, che accolse subito un centinaio di donne “incinta”, che vi diedero alla luce il figlio. Vi furono portati anche i bambini rifiutati dalle famiglie, che però molte madri andavano a trovare di nascosto, finché il Segretario dell’Istituto ingiunse loro di  non venire più.

L’Istituto accolse 327 bambine e bambine. Di questi, 205 morirono perché le madri non li allattavano in quanto non potevano andare a trovarli, su pressione delle famiglie, ed il latte in polvere non era adatto all’alimentazione infantile.

Invece, 59 bambini furono dati in adozione, alcuni alla famiglia naturale che alla fine aveva deciso di riprenderli e di tenerli. Gli altri rimasero in Istituto fino al compimento della maggiore età.

 

Giorgio Giannini


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