Il caso Cucchi, la moderna Antigone, il prof. Barbero

“La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi previsti dalla legge… E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà” (Art. 13 della Costituzione della Repubblica italiana).

Oggi ricorre il 12° anniversario della morte di Stefano Cucchi, il cui caso ha rappresentato e continua a rappresentare una di quelle ferite, sanguinanti nel corpo vivo della nazione, inferte a dispetto e contro il dettato e i principi della Costituzione della Repubblica italiana. Un essere umano, cittadino di uno Stato che si dice “di diritto” – cioè uno Stato nel quale viene assicurata a tutti gli esseri umani (quindi, non soltanto ai “cittadini”) ogni forma di garanzia e di tutela relativamente ai diritti umani fondamentali (vita, salute, libertà personale) – viene privato della sua libertà personale e sottoposto ad un barbaro pestaggio che, nel giro di pochi giorni, lo conduce alla perdita del bene più prezioso: la vita. E tutto ciò ad opera di rappresentanti di quello Stato di diritto ai quali è stato demandato il compito di salvaguardare sia la libertà, sia la salute, e a maggior ragione la vita. Il caso risulta, di conseguenza, semplice pur nella sua tremenda e sconvolgente sequenza.

Dal punto di vista logico e giuridico non ci sarebbe stata alcuna difficoltà, per giudici competenti e fedeli ai principi dello Stato di diritto, indagare, scoprire i colpevoli del fatto e condannarli alle pene previste dall’ordinamento. Rendere, cioè, giustizia tanto al defunto quanto ai suoi familiari e, in questo modo, ristabilire l’ordine e restaurare la legge violati da infedeli servitori dello Stato. Eppure, sappiamo che le cose, relativamente al caso Cucchi (e a numerosi altri casi simili), non si sono svolte nel modo che la legge prevede. Sappiamo che ci sono state complicità, finzioni, omertà, falsificazioni di verbali, depistaggi, tentativi di insabbiamento, tentativi di scaricare le colpe e le responsabilità sulla stessa vittima o su altri soggetti (medici, infermieri, guardie penitenziarie, ecc.). Sappiamo che, nei confronti della sorella Ilaria e degli altri familiari che rivendicavano giustizia, sono stati impiegati tutti i mezzi, leciti ma soprattutto illeciti e subdoli a disposizione: maldicenze, calunnie, intimidazioni di ogni sorta (anche politiche). Si è cercato di far passare Ilaria per una visionaria, una folle, una nemica giurata delle forze dell’ordine, insomma per una persona del tutto inaffidabile e inattendibile.

Ebbene, ogni qual volta il discorso scivola sul caso Cucchi, non c’è dubbio che l’attenzione da Stefano Cucchi si volge, inevitabilmente, sulla sorella Ilaria, l’autentica, vera e assoluta protagonista di 12 anni di instancabili battaglie civili per ottenere ciò che rappresenta un altro dei diritti fondamentali riconosciuti, sul piano teorico, dalla ragione pratica (in senso kantiano) e, sul piano giuridico, dalla Costituzione e dalle leggi: giustizia, ma anche, nel caso di Stefano, l’onore e la dignità selvaggiamente calpestati. Quella giustizia, quell’onore, quella dignità che solo grazie ad Ilaria hanno cominciato, negli ultimi anni, ad emergere e ad affermarsi con la forza travolgente della verità. Ho già avuto modo di sostenere, in un articolo scritto tre anni fa circa, che il modello ideale di Ilaria è rappresentato dall’Antigone di Sofocle.

Vale la pena riprendere il filo e il succo di quel discorso: “E’ Antigone, l’eroina dell’immortale tragedia di Sofocle, il modello, o per meglio dire il paradigma etico, che si incarna, dal lontano 2009 fino ai giorni nostri, nei gesti, negli sguardi, nelle parole e nella lunga battaglia che Ilaria Cucchi sta portando avanti, con ostinazione (e con l’incrollabile convinzione di essere dalla parte della ragione, senza curarsi degli insulti e di una ben orchestrata campagna di stampa finalizzata a presentarla come una donna affetta da follia) per restituire dignità ad un fratello al quale è stata riservata una morte ignobile e disumana. Antigone sfida la legge degli uomini (impersonata da Creonte) pur di offrire dignitosa sepoltura al fratello Polinice, il cui corpo è stato condannato a essere nutrimento per gli avvoltoi; Ilaria ha sfidato gli apparati della “legge”, le menzogne, i depistaggi, i verbali manipolati, i referti medici contraddittori e reticenti, i documenti fatti sparire, pur di restituire al fratello una dignità che gli era stata negata con la violenza, pur di riscattare (ricostruendo la verità  sui suoi ultimi giorni) un povero corpo dallo scempio a cui era stato sottoposto e del quale né medici, né giudici, né agenti penitenziari si erano accorti (o avevano finto di non accorgersi)”. Ma perché riprendere quell’ormai antico discorso, oggi, in questo effimero frangente storico? Perché spostare il tema, o il nocciolo del tema, dal fratello Stefano alla sorella Ilaria? Qual è il fatto contingente che ci spinge a ciò? Qualcosa di apparentemente banale e avulso dal caso in questione: le recenti esternazioni di uno storico stimato e famoso, il prof. Alessandro Barbero, sulle donne e sulla loro “differenza strutturale” rispetto agli uomini.

Alcuni giorni fa, interrogato sul tema degli insuccessi o degli scarsi successi delle donne, il prof. Barbero ha dichiarato: “Rischio di dire una cosa impopolare, ma vale la pena di chiedersi se non ci siano differenze strutturali tra uomo e donna che rendono a quest’ultima più difficile avere successo in certi campi. È possibile che in media le donne manchino di quella aggressività, spavalderia, sicurezza di sé che aiutano ad affermarsi? Credo sia interessante rispondere a questa domanda. Non ci si deve scandalizzare per questa ipotesi, nella vita quotidiana si rimarcano spesso differenze tra i sessi”. Ciò che stupisce, in questa dichiarazione, non è tanto l’ultima frase, che è qualcosa di talmente banale da apparire vuota, quanto piuttosto quel susseguirsi di “carenze” che, secondo lo studioso, caratterizzerebbero in senso negativo le donne: aggressività, spavalderia, sicurezza di sé. Ma ammesso e non concesso che, nelle donne, sarebbero assenti, in senso “strutturale” (ma poi, cosa significa la parola “strutturale”? è forse un sinonimo di “genetico”?), quelle tre cose elencate dall’illustre studioso, perché le donne dovrebbero commiserarsi e rassegnarsi al fatto che, nei rapporti con gli uomini, sono destinate “strutturalmente” ad avere la peggio? Sono quelle tre cose che, secondo il prof. Barbero, costituiscono le condizioni necessarie e sufficienti per ottenere successo? Io non lo credo, e sono convinto che anche il prof. Barbero, se avesse riflettuto sulla figura e sulla storia di una donna come Ilaria Cucchi, non avrebbe sicuramente fatto quella dichiarazione che così tante polemiche ha scatenato. Infatti, se ci pensiamo bene, Ilaria Cucchi è tutt’altro che aggressiva (anzi, dimostra sempre, in ogni occasione, un’infinita dolcezza), tutt’altro che spavalda (è una donna molto educata e gentile, sempre rispettosa nei confronti dell’interlocutore), tutt’altro che sicura di sé (anzi, a volte sembra manifestare una “strutturale” fragilità di fondo). Queste “carenze” (di mascolinità) non le hanno impedito, però, di intraprendere una battaglia che ha un sapore “epico”, non arretrando di un millimetro di fronte a difficoltà e barriere che sembravano insuperabili, convinta della verità e del valore non soltanto personale, ma universale, di una lotta per la giustizia e per la verità che ancora non si può ritenere conclusa; convinta, soprattutto, dell’esemplarità della sua azione. La battaglia di Ilaria non è soltanto sua, infine, ma di tutti coloro che hanno a cuore i diritti umani, la verità e la giustizia.


Questo articolo è stato utile o interessante?
Sostieni Abitarearoma clicca qui! ↙

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Scrivi un commento