“Io sono Alex: acqua”, il racconto di Fabrizio Marino

Domenica 17 marzo 2024 al Centro Culturale Lepetit, via Lepetit 86 

Con questa frase, il papa’ di Alex, ha iniziato il suo piccolo discorso di presentazione: “Il mondo è trasformazione, la vita è percezione. Alex ci ha insegnato questo”.

Poi ha proseguito.

“Buonasera, buonasera, Io sono “Cesare” del racconto.

Per chi pensa che la scrittura sia una terapia, scrivete.

I traumi e i grandi avvenimenti della vita possono essere affrontati ed elaborati anche con la scrittura.

Per  questo ho scritto un racconto, la storia di mio figlio, nato femmina, poi la transizione verso il sesso maschile. 

In sintesi, ciò che  può accadere ad una famiglia di fronte ad un avvenimento del genere. 

Io voglio portare  la mia esperienza e quella della mia famiglia, e un messaggio: dove è possibile assecondiamo i sogni dei giovani.

Grazie di esserci”.

Il cronista in questo articolo non intende scrivere nulla di suo.

L’eccellente locandina che alleghiamo, per iniziare , racconterà quel che serve al lettore.

La presentazione, sopra esposta, del Sig. Fabrizio Marino, avrà portato al lettore la giusta tensione, l’emozione, l’ansia, l’attesa, il timore, la partecipazione, l’incertezza, l’insicurezza, la suspence per la lettura del racconto, che qui di seguito riportiamo.

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Io sono Alex: acqua. 

Il feto galleggia nel liquido amniotico di Vittoria. La sonda impregnata di gel scorre con delicatezza sull’addome della madre e ne viola i segreti, estraendo l’immagine della vita in formazione per esporla agli sguardi del mondo di fuori. Il legame intimo è sancito e vincolato fisicamente dal funicolo che collega il feto alla placenta della madre: il cordone ombelicale. Sul monitor le immagini nitide e apparentemente inequivocabili della seconda figlia, la morfologia di una femmina che di lì a qualche mese avrebbe sentito i primi stimoli dall’ambiente: la corrente d’aria proveniente dal primo taglio del sacco amniotico, l’ossigeno che entra dalla bocca e dal naso, un paio di mani che la afferrano dolcemente, il liquido che ne deterge il corpo ed il cotone che lo avvolge, l’alito tiepido e gonfio di vita proveniente dalla bocca della madre nell’atto di baciare quel corpo per la prima di una serie infinita di volte. Lui non lo sa, ma i genitori la chiameranno Lavinia. Anni prima, fantasticando sul mettere su famiglia, Vittoria e Cesare si erano divisi i compiti: il nome del primo figlio l’avrebbe scelto lei, un eventuale secondo sarebbe stato scelto dal marito. Chiara, la prima: – bello, insolito, e perché proprio Chiara? –perché è un nome luminoso, pulito, rispondeva Vittoria. Ora tocca a Cesare. Con quella dolce ed insistente intenzione di immaginare il futuro, portarlo alla luce e formarlo raccontandolo, Vittoria aveva cominciato a chiedergli mille volte quale nome avesse scelto, perché, da dove lo avesse immaginato. Con la semplicità basica degli uomini, Cesare rispondeva sempre nello stesso modo: mi piace, mi ricorda la storia di Roma, suona bene: Lavinia. Il cammino inizia in salita. La seconda ecografia rivela una malformazione ai piedi, che sono girati all’interno quasi ad angolo retto. Si chiama “Piede torto bilaterale”. Si rivolgono ad un ortopedico che si occupa solo di questo, apprendono che ci vorranno anni per raddrizzarli. Non ci sono solo le lacrime della mamma: c’è il suo colpevolizzarsi, come se non fosse stata in grado di impedirlo. Aveva detto al marito: la prima figlia ha gli occhi azzurri, vedrai, anche la seconda te la farò così. E così sarà.  Se ne ha deciso il colore degli occhi come ha potuto non riuscire a proteggerne l’integrità fisica?  Tre operazioni chirurgiche in anestesia totale, gessi, tutori, sedia a rotelle, fisioterapia. Finalmente a 13 anni Lavinia non potrà più essere preso in giro per i piedi storti, ma solo per le cicatrici. A 14 anni una sfilata di moda per un negozio di quartiere: calze a rete, gonna corta, anfibi ai piedi, uno sguardo duro, un incedere troppo veloce. Un giorno, di ritorno dal Gay pride, commenterà con rabbia e indignazione le notizie di aggressioni agli omosessuali. Comprerà un giaccone di pelle usato di due taglie più grande, nasconderà lo sbocciare delle forme. –mamma, siediti qui con me. Ti va di parlare? Voglio confessarti il mio segreto. È da tempo che ci penso, ascoltami senza interrompermi. Vittoria accavalla le gambe, si sistema i capelli dietro l’orecchio e poggia i gomiti sul tavolo sporgendosi verso Lavinia —Io non mi sento una femmina. Io non sono una femmina. Sono prigioniero in un corpo femminile, ma io mi sento, io sono un maschio. Il maremoto romba liquido nel campo di amore esistente tra madre e figlia, ma sembra disperdersi: quello è uno spazio immenso e la forza dirompente proviene da profondità abissali. In quel baratro scuro nuotano creature dalle forme e dai nomi sconosciuti, perché dovrebbe essere proprio sul fondo del mare che il secondo figlio dovrebbe accompagnarli? Madre e padre rovistano nei cassetti della mente. Il ricordo di Vittoria: in sala parto sognava ad occhi aperti in attesa del chirurgo per il taglio cesareo, nello scomparto più riposto e inaccessibile della sua fantasia l’uomo col bisturi è un mago che reciterà una formula magica mai più ripetibile i cui suoni misteriosi si depositeranno sui piedi di Lavinia come una polvere fatata rendendoli dritti. Il ricordo di Cesare: nello spogliatoio della clinica si infila camice e soprascarpe, chiude l’armadietto, si volta e incrocia lo sguardo di una donna: sembra conosciuta, ci mette qualche secondo, l’immagine si forma: Daniela, quarto ginnasio, il primo bacio. Si riconoscono, si scambiano due frammenti di memoria, varcano la porta della sala operatoria. Lavinia nasce assistita da Daniela l’anestesista, accompagnata dai battiti caotici del cuore del padre. Primo anno di liceo, sullo zainetto Cesare nota una scritta color arcobaleno: “non è una fase passeggera”. Reagisce come la moglie: uno scambio dirige il treno dei pensieri sul binario dove non sembra esserci spazio per gli eventi estremi, e lo fa rifugiare in una serie di ipotesi intermedie: disagio temporaneo, omosessualità, bisessualità.  Padre e madre lo osservano con discrezione, cercando di captarne gli umori nascosti o eventuali indizi in grado di rivelare la consistenza delle sue convinzioni. Con l’arrivo dell’estate Lavinia compie il primo passo per cominciare ad avvicinare il suo aspetto a ciò che sente: davanti al computer mostra ai genitori diversi modelli di binder, una fascia toracica che comprimendo il seno mitiga l’angoscia muta e la vergogna crudele di mostrare forme femminili. Ora Lavinia li sta portando sul fondo dell’oceano a vedere la creatura sconosciuta, perché è solo immergendosi a quella profondità che potranno forse nuotare per risalire insieme verso la luce della superfice. È tempo di decidere: assecondare e accompagnare Lavinia nella trasformazione definitiva oppure opporsi, rifiutandosi di riconoscere la grandezza e l’autenticità di quello che sta succedendo? – Lavinia, è questo quello che vorrai essere? Subirai operazioni dolorose, non potrai dare la vita, e il mondo non ti accoglierà sempre a braccia aperte: sei disposta a sopportare tutto questo per essere felice? — Sì. Io sì, e voi? -Noi ora ti prendiamo per mano e camminiamo insieme, fino a dove vorrai tu – Chiamatemi Alex. Vi riferirete a me con il pronome maschile, inizierò la terapia ormonale: e l’operazione di rimozione del seno sarà la mia prima liberazione. Risuona il nome della creatura in trasformazione: persona transgender. Otto piedi piombano sul fondo del mare e rimbalzano con forza. Eliminare dalla conversazione familiare i riferimenti femminili non è un processo semplice, è come cancellare dalla mattina alla sera a colpi di parole una figlia per creare un figlio: la voce si abbassa, il corpo meno timido e lieve fende lo spazio quasi sfacciatamente, gli arti si scuriscono di peli. Sono vicini al punto di non ritorno. Il test di vita reale funziona, lui è a suo agio in questi panni. Guidato da una determinazione feroce, non c’è ostacolo che non superi: l’asportazione del seno. Il chirurgo entrerà di nuovo nel grembo materno, ma questa volta il bisturi non si limiterà a tagliare: rimuoverà e trasformerà, e il fiume del liquido amniotico irromperà nel mare. Al risveglio dall’anestesia Alessandro, figlio transgender, e una madre: Vittoria, quella che lo sentiva scalciare nella pancia, quella che ai tempi dei piedi torti marcava con un pennarello una grande X sul piede da operare per evitare errori del chirurgo. Gli tiene la mano come fosse di vetro appena soffiato, gli inumidisce le labbra secche, lo accarezza sul viso e lo fa sentire sdraiato su una nuvola. Un padre, Cesare: gli porge un biglietto vergato a mano, un frammento da uno dei suoi scrittori preferiti: “lascia che il tuo spirito rimanga intatto, diventa chi sei”. Una sorella, Chiara: lo bacia sulle guance come se posasse le labbra su un petalo. È tempo di gettare per sempre il binder, il cordone ombelicale è reciso, il ventre materno non ha più confini. Fa il suo primo bagno in mare a torso nudo: Alex, Vittoria, Cesare e Chiara riemergono dalle profondità alla superficie. Il corpo salino, bagnato e segnato con le cicatrici liberatorie luccica ai raggi del sole estivo, gli occhi azzurri assumono il colore dell’acqua mentre guardano lontano: sul bagnasciuga un’onda cancella per sempre le orme di Lavinia.  


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3 commenti su ““Io sono Alex: acqua”, il racconto di Fabrizio Marino

  1. Buongiorno,
    grazie Palmira Pasqualini, grazie Giorgio Grillo, responsabili del Centro Culturale Lepetit, per l’organizzazione dell’evento.
    Attilio Migliorato

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