Categorie: Cronaca
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La fine della Primavera di Praga

Il 20-21 agosto del 1968 i carri armati del Patto di Varsavia schiacciarono la voglia dei cecoslovacchi di vivere liberi

“Di antichi fasti la piazza vestita / grigia guardava la nuova sua vita / come ogni giorno la notte arrivava, / frasi consuete sui muri di Praga./ Ma poi la piazza fermò la sua vita / e breve ebbe un grido la folla smarrita / quando la fiamma violenta ed atroce / spezzò gridando ogni suono di voce //. (Francesco Guccini, “Primavera di Praga”, 1970)

Quel 20 Agosto del 1968, un Martedì, non era ancora scoppiata la bomba fascista di Piazza Fontana. Non era ancora il tempo della cosiddetta “strategia delle tensione”, né quello del Golpe Borghese, ma era il tempo del Maggio francese che era arrivato anche da noi e di lì a poco sarebbe scoppiato “l’autunno caldo” degli operai. Da noi, in Italia, le cronache si dividevano equamente tra l’esodo estivo e la contestazione giovanile. Poi la routine fu rotta, intorno alle 24,00 di quel 20 Agosto, da una notizia drammatica: i carri armati del Patto di Varsavia avevano invaso la Cecoslovacchia per riportare “l’ordine socialista”. Come già. era successo in Ungheria, nel 1956, poi in Polonia e poi a Berlino, ogni avvisaglia di quello che sarà poi definito il “socialismo al volto umano” veniva schiacciata dai carri armati.

Si trattava di un tentativo di liberalizzazione e democratizzazione della vita politica portato avanti dai dirigenti comunisti di quel Paese a partire dalla fine del 1967, in primis da Alexander Dubček (che, per inciso, non era praghese ma slovacco di Bratislava). Tale esperimento, che fu presto chiamato la “Primavera di Praga”, spazzò via in pochi mesi la stagnazione ed il conformismo tipici dei Paesi socialisti del periodo brezhneviano: Praga era veramente ridiventata la “mitica” città mitteleuropea con la sua vita culturale vivacissima, la sua ironia (cui non è certo estraneo il retaggio ebraico) ed i suoi celebrati misteri. 

Come terminò tale esperimento lo sappiamo più o meno tutti: fra il 20 ed il 21 Agosto 1968 i carri armati sovietici e di altri Paesi del Patto di Varsavia invasero il Paese per “ristabilire l’ordine socialista”. Dubček per un po’ fu mantenuto nominalmente a capo del Partito, poi fu sostituito da Gustav Husák, ligio agli ordini di Mosca.

Come racconta lo scrittore Milan Kundera, i primi tempi dopo l’invasione furono un periodo di “fibrillazione”: tutti si sentivano in qualche modo coinvolti, dal podista Emil Zátopek che faceva la staffetta per portare messaggi nella città invasa (i cui cittadini avevano rimosso le targhe stradali in una notte per disorientare gli invasori) alle ragazze che esibivano davanti ai carristi russi delle minigonne da capogiro, ai professionisti (medici, avvocati, ingegneri) che, ridotti spesso a semplici impiegati (Dubček stesso si adattò a fare il giardiniere), venivano ancora clandestinamente consultati dai propri clienti. A tutto questo seguirono il grigiore e la stagnazione di ogni “normalizzazione”. (*)

Così quel giorno è ricordato sul Sito web di RAI Cultura:

La Primavera di Praga. Le coraggiose riforme di Alexander Dubcek

“Sono le 23 del 20 agosto del 1968. Le truppe corazzate sovietiche varcano la frontiera cecoslovacca. Puntano su Praga. Contingenti polacchi, tedeschi orientali, ungheresi e bulgari prendono parte all’invasione”.  Comincia così il Servizio Speciale del Telegiornale che vi proponiamo [vedi video al link sottostante, Ndr.], dedicato alla Primavera di Praga, realizzato a un anno di distanza dall’invasione.

La dinamica è la medesima già avvenuta in altri casi: a Budapest, in Polonia, a Berlino e ora a Praga. L’agenzia ufficiale di informazione dell’URSS, la Tass, dichiara che le truppe del Patto di Varsavia sono state chiamate dal governo cecoslovacco, per riportare il socialismo al potere e porre termine alla controrivoluzione. In Cecoslovacchia, dal 5 gennaio 1968, è in carica un governo presieduto dal riformista Alexander Dubcek. Nei mesi precedenti l’invasione, è stato portato avanti un programma di moderate riforme che si fonda sul decentramento economico e politico, sulla rinascita dei sindacati, e sulla libertà di stampa. Il timore sovietico è che l’esempio della Cecoslovacchia si diffonda in tutta l’Europa Orientale. Anche sul piano delle alleanze internazionali, la Cecoslovacchia desta preoccupazione. Ha accentuato la sua posizione autonoma, avvicinandosi alla Jugoslavia di Tito e alla Romania di Nicolae Ceausescu, due governi che, se pure comunisti, non rientrano nella rigida ortodossia sovietica.

Sono le 23 del 20 agosto del 1968. Le truppe corazzate sovietiche varcano la frontiera cecoslovacca. Puntano su Praga. Contingenti polacchi, tedeschi orientali, ungheresi e bulgari prendono parte all’invasione. Le truppe sovietiche avanzano nella notte senza incontrare alcuna resistenza. Il governo praghese invita la popolazione e l’esercito a non opporre alcuna resistenza. All’alba il primo ministro Dubcek e i ministri del governo vengono arrestati. Dal punto di vista militare l’invasione riesce perfettamente, ma i Sovietici si rendono presto conto che sono privi di qualunque copertura politica, e non riescono a dar vita a un governo collaborazionista. La popolazione di Praga scende in strada per protestare contro l’invasione e per spiegare ai soldati sovietici cosa stia realmente accadendo. Il paese si ferma in uno spontaneo sciopero generale. 

L’atto di forza sovietico si presenta sempre più come un mero atto di violenza e sopraffazione della sovranità nazionale cecoslovacca. Il mondo comunista internazionale, dai cinesi agli jugoslavi ai partiti comunisti del mondo occidentale, protestano per l’invasione. Dopo un periodo di detenzione Dubcek viene liberato. In cambio è costretto ad accettare la presenza di truppe straniere sul suolo cecoslovacco. Ma non basta.

Lentamente uno a uno, i dirigenti del governo riformatore sono costretti a lasciare le leve di comando. Saranno sostituiti da una nuova leadership che accetterà la dottrina della sovranità limitata formulata dal premier sovietico Breznev, che nel novembre del ’68 dichiara: “Quando le forze che sono ostili al socialismo cercano di portare lo sviluppo di alcuni paesi socialisti verso il capitalismo, questo non diventa solo un problema del paese coinvolto, ma un problema comune e una preoccupazione per tutti i paesi socialisti.” Una forma di neocolonialismo con la quale l’URSS si riservava di intervenire militarmente in ogni paese del patto di Varsavia.”

Fonte: https://www.raicultura.it/storia/articoli/2019/11/La-Primavera-di-Praga-67f15f22-6e00-4de2-9e87-69b134aeba57.html

(*) Ian Palach (11.8.1948-19.1.1969) – La sera del 16 Gennaio 1969 un giovane studente di filosofia praghese (Jan Palach) si recò in Piazza San Venceslao. Teneva nascosta nel cappotto una bottiglia piena di benzina. Proprio all’inizio della grande piazza, davanti al Museo, con calma si tolse il cappotto, si versò addosso la benzina e si diede fuoco, senza un grido. Quando gli chiesero chi gli avesse fatto una cosa del genere, Jan rispose semplicemente: “Sono stato io”. Non disse altro. 

Accorsero immediatamente gli agenti della Bezpecnost’ e il ragazzo fu trasportato in ospedale, dove morì poco dopo. Il giorno dopo un trafiletto di poche righe avvertiva dell'”insano gesto di uno squilibrato”, ma fu subito a tutti chiaro quale significato avesse il gesto disperato di Ján Pálach. I suoi funerali furono seguiti da migliaia di persone (circa 600.000 arrivati da tutto il paese) in silenzio, proprio come si racconta nella canzone di Francesco Guccini. Malgrado le (ovvie) strumentalizzazioni, il sacrificio di Jan Palach* fu e resta esclusivamente un gesto di libertà, un grido contro tutte le tirannie, di qualsiasi colore esse siano. Il punto dove Jan Palach si diede fuoco è stato sempre coperto di fiori. Prima del 1989, delle “solerti” mani provvedevano a rimuoverli ogni giorno; adesso vi sorge una piccola lapide con la foto del ragazzo. Nessuno toglie più i fiori, ma ce ne sono molti meno di prima.

(*) Jan Palach, faceva parte di un’organizzazione antisovietica che lui stesso aveva fondato poco dopo l’invasione dell’agosto del 1968. Quando si diede fuoco fece ben attenzione a mettere in salvo una borsa contenente i documenti dell’organizzazione; tra di essi, il proprio, breve testamento politico: 

“Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi esigiamo l’abolizione della censura e la proibizione di Zparvy (il giornale delle forze d’occupazione sovietiche). Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni, il 21 gennaio 1969, e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, una nuova torcia s’infiammerà”.

Il gesto di Jan Palach non rimase isolato: almeno altri sette studenti, tra cui il suo amico Jan Zajíc, seguirono il suo esempio. 

Ugo Fanti, Presidente della Sezione Anpi di Roma Aurelio-Cavalleggeri “Galliano Tabarini”


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