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Lo sguardo e le mani del Mosè

La tomba di Giulio II, la statua di Michelangelo, l’interpretazione del dott. Freud
“….Finì il Moisè di cinque braccia di marmo, alla quale statua non sarà mai cosa moderna alcuna che possa arrivare di bellezza, e delle antiche ancora si può dire il medesimo, avvenga che egli con gravissima attitudine sedendo, posa un braccio in sulle tavole che egli tiene con una mano, e con l’altra si tiene la barba, la quale nel marmo è svellata e lunga è condotta di sorte, che i capegli, dove ha tanta dificultà la scultura, son condotti sottilissimamente piumosi, morbidi e sfilati d’una maniera, che pare impossibile che il ferro sia diventato pennello …” (Giorgio Vasari, da Vita di Michelagnolo Buonarruoti fiorentino, pittore, scultore e architetto, ne Le Vite, Roma 2005).
“…Se si tiene presente che questo fu scritto all’epoca della diserzione di Jung, e se si ricorda inoltre che Freud riteneva di far parte di quell’élite caratterizzata dalla capacità di controllare le proprie passioni, rimangono pochi dubbi che Freud fosse tanto appassionatamente interessato a questa interpretazione della statua di Mosè perché vedeva se stesso come Mosè, incompreso dalla gente e tuttavia capace di controllare la sua ira e di continuare il proprio lavoro…” (Erich Fromm, da La missione di Sigmund Freud, Roma, 1976).

 

Da quando (moltissimi anni fa) sono venuto a conoscenza, per la prima volta, di quel luogo magico rappresentato da piazza san Pietro in Vincoli, non posso fare a meno, ogni volta che capito nelle sue vicinanze, di recarmi a far visita alla chiesa omonima che occupa il lato orientale della stessa. Essa (la piazza così come la chiesa) è situata quasi al confine tra i rioni Esquilino e Monti, in prossimità del parco del Colle Oppio, in posizione fortemente sopraelevata rispetto alla sottostante via Cavour e a questa collegata attraverso la ripida scalinata detta dei Borgia. Sono poche le persone che, dopo aver fatto l’ingresso nella chiesa si dirigono rapidamente verso la teca posta sotto l’altare maggiore e contenente le presunte catene (i “vincoli”, appunto) che, secondo la tradizione, tennero prigioniero il principe degli apostoli.

In realtà ciò che attrae irresistibilmente la quasi totalità dei visitatori del tempio (compreso il sottoscritto) è senz’altro il solenne monumento posto nel transetto destro, alla fine della corrispondente navata.

Si tratta della tomba, realizzata da Michelangelo in quasi quarant’anni di lavoro, del papa Giulio II; un monumento complesso (come fu complesso l’iter, sottoposto ad una lunga serie di varianti e ad un sostanziale ridimensionamento, a causa della mancanza di fondi e della ristrettezza dello spazio in cui inserire i marmi, nel progetto originario destinati alla nuova basilica di san Pietro in Vaticano), molto simile alla facciata di una chiesa rinascimentale: due ordini, suddivisi longitudinalmente e articolati ciascuno in tre settori; nella parte superiore, al centro e in posizione dimessa e alquanto precaria, la statua del papa Giulio II Della Rovere, adagiata sul sarcofago e con il busto che si appoggia sulle braccia piegate a gomito, mentre la testa disegna quasi un angolo retto con il resto del corpo.

Lo sguardo del pontefice è leggermente rivolto alla sua sinistra (destra per chi osserva) e verso il basso, in direzione dell’enorme statua che occupa il settore centrale della parte inferiore: il Mosè, riconoscibile dalla lunghissima fluente barba, dalla mano destra che sorregge le tavole della legge e con le dita che afferrano le ampie “matasse” della barba; la mano sinistra preme sul ventre, quasi a voler trattenere il gigantesco corpo che, secondo la maggior parte degli interpreti, sarebbe sul punto di muoversi; un movimento accentuato dalla gamba sinistra che riceve la spinta dal piede, quest’ultimo in posizione arretrata rispetto al destro, poggiante sulle dita e con il calcagno sollevato da terra.

Di fronte alla statua del patriarca degli ebrei, latore delle Tavole della Legge (Torah) e liberatore del popolo dalla schiavitù d’Egitto, tutto il resto (le altre quattro statue che contornano le due principali, nonché la statua della Madonna col bambino posta alle spalle di papa Giulio) svanisce, risucchiato dalla penombra.

Le figure che adornano il monumento sono situate infatti in ordine gerarchico: in primo piano il Mosè, in secondo piano il papa, sullo sfondo le altre quattro e in più la Madonna. L’attenzione dello spettatore, però, è assorbita soltanto e pienamente dal Mosè, il cui terribile e corrucciato sguardo, tuttavia, non s’incrocia in alcun modo con quello di colui che, in quel momento, lo sta osservando.

Michelangelo, secondo la tradizionale interpretazione riportata dai suoi contemporanei (in particolare dal Vasari), rappresenta il patriarca nell’attimo stesso in cui, dopo esser disceso dal Sinai con le Tavole della Legge ed aver trovato riposo su un sedile di pietra, si accorge, da lontano, di ciò che sta succedendo nell’accampamento degli ebrei profughi dall’Egitto: danze, suoni, schiamazzi, divertimenti intorno al “vitello d’oro”, l’idolo che, assente Mosè, avrebbe dovuto sostituire l’unico vero Dio d’Israele, il dio che ha scelto di stipulare, con la mediazione di Mosè, un’alleanza perpetua con il popolo eletto. Un popolo che ha però bisogno di disciplina e di un capo che gli imponga il rispetto delle norme e delle tradizioni, norme e tradizioni scolpite con la folgore sulle Tavole della Legge.

Mosè è, di conseguenza, disgustato per il tradimento del suo popolo e immediatamente pervaso da un’incontrollabile collera nei confronti di un popolo riottoso e ingrato, una collera che lo spinge, secondo il racconto biblico, a scaraventare le Tavole contro il vitello d’oro, che sarà entro poco tempo preda delle fiamme e che, ridotto in polvere e mescolata questa con l’acqua, verrà fatto bere agli idolatri, molti dei quali saranno puniti con una morte atroce.

Se si potesse esprimere questa situazione, o per meglio dire l’attimo che Michelangelo ha voluto fissare per sempre nel marmo, con una frase semplice e forse banale, si dovrebbe prendere a prestito, parafrasandolo, un titolo leopardiano: la quiete prima della tempesta. Così per la maggior parte dei critici e degli storici dell’arte.

Non così, invece, per il dott. Sigmund Freud, fondatore della teoria e della terapia psicoanalitica, in vacanza a Roma, per tre settimane, nel settembre 1913 e autore del breve saggio Il Mosè di Michelangelo, pubblicato in forma anonima l’anno successivo sulla rivista Imago.

Appassionato e instancabile visitatore di musei, gallerie, chiese e siti archeologici, il medico ebreo viennese ci confessa, nella premessa del saggio: “Quante volte ho salito la ripida scalinata che porta dall’infelice via Cavour alla solitaria piazza dove sorge la chiesa abbandonata! E sempre ho cercato di tener testa allo sguardo corrucciato e sprezzante dell’eroe, e mi è capitato qualche volta di svignarmela poi quatto quatto dalla penombra di quell’interno, come se anch’io appartenessi alla marmaglia sulla quale è puntato il suo occhio, una marmaglia che non può tenere fede a nessuna convinzione, che non vuole aspettare né credere, ed esulta quando torna a impossessarsi dei suoi idoli illusori”.

La “marmaglia” che cerca di sfuggire all’occhio sdegnato del patriarca, che non può o non vuole tener fede a nessuna convinzione e che esulta quando può tornare ai suoi idoli illusori, ci rivela due cose essenzialmente:

a) è avvenuto un processo sotterraneo di identificazione tra il personaggio storico Mosè (così come ritratto dal più celebre scultore del Rinascimento) e il fondatore della psicoanalisi, in quel momento disgustato dalle gelosie e dalle scissioni in corso all’interno del movimento che, fin dai primi anni del ‘900, si è raccolto intorno a lui;

b) che, sebbene profondamente in collera con la “marmaglia”, grazie alla ragione e alla salda custodia delle tavole della Legge (i fondamenti e i principi su cui poggia la teoria), egli è riuscito ad auto-dominarsi e a non distruggere la sua creatura.

Ebbene, fu proprio questo processo di identificazione con il suo eroe, a spingere il dott. Freud ad abbozzare una diversa e antitetica interpretazione della statua di Michelangelo, un’interpretazione che rappresenta il rovesciamento del detto sopra enunciato: non più “la quiete prima della tempesta”, bensì “la quiete dopo la tempesta”.

Ma come è stato possibile questo capovolgimento? In virtù di un’accurata analisi non solo della postura e dello sguardo di Mosè, ma anche di due dettagli prima sfuggiti alla maggior parte dei critici: le mani e la posizione delle due tavole di marmo contenenti la Legge. La mano destra, infatti, è impegnata nel sorreggere e nel rimettere in equilibrio le tavole di marmo le quali, appena un momento prima, a causa della subitanea collera suscitata dal triste spettacolo dell’idolatria, stavano per cadere a terra; le dita della stessa mano, inoltre, sembrano voler trattenere la barba fluente dell’eroe e, attraverso la barba, l’intero corpo che, sempre un attimo prima, era pronto a balzare in piedi. La mano sinistra, da parte sua, premendo sul ventre, contribuisce a sopire la collera che cova nelle profondità delle viscere. La capacità di riflessione e di auto-dominio di Mosè ha vinto nella dura battaglia ingaggiata contro la collera; la ragione si è imposta sulla passione.

Bisogna dire che Freud, nell’elaborare questa nuova interpretazione del capolavoro michelangiolesco, non ha esitato (è lui stesso a dirlo) a servirsi del metodo elaborato, nella lettura delle opere d’arte, da un medico e critico d’arte italiano, tale Giovanni Morelli (Verona 1816 – Milano 1891) che, curiosamente, firmava i suoi saggi estetici (scritti in tedesco e pubblicati in Germania) con uno pseudonimo russo: Ivan Lermolieff.

Al termine, dunque, di questa nuova e approfondita analisi del capolavoro, Freud può finalmente scrivere: “… il nostro Mosè non balzerà in piedi e non scaglierà le tavole lontano da sé. Ciò che noi scorgiamo in lui non è l’avvio ad una azione violenta, bensì il residuo di un movimento trascorso. In un accesso d’ira egli voleva, dimentico delle tavole, balzare in piedi e vendicarsi; ma la tentazione è stata superata, egli continuerà a stare seduto frenando la collera, in un atteggiamento di dolore misto a disprezzo. Non getterà via le tavole a infrangersi contro i sassi, perché proprio per causa loro ha dominato la sua ira, proprio per salvarle ha frenato la sua passione. Quando si era abbandonato al suo sdegno appassionato aveva dovuto trascurare le tavole, distogliendo da esse la mano che le tratteneva: a quel punto incominciarono a scivolare, correndo il rischio di spezzarle. Fu un ammonimento per lui. Gli risovvenne la sua missione e rinunciò per essa a soddisfare il suo affetto. La sua mano si spostò all’indietro e salvò le tavole in bilico prima che potessero cadere. In questa posizione egli rimase immobile, e così lo ha raffigurato Michelangelo, come custode del mausoleo”.

Freud, nuovo Mosè, destinato a trarre il popolo fuori dalla schiavitù dei pregiudizi e delle ipocrisie e a condurlo nella terra promessa della verità e della scienza, si sente tradito dalla “marmaglia”, da coloro che vogliono, per invidia e per avidità di potere, spezzare l’unità del movimento psicoanalitico e, sebbene pervaso da collera e indignazione, riesce tuttavia a trattenere la sua passionalità e a rimanere “custode” dell’autentica dottrina da lui elaborata e arricchita con un lavoro che non conosce pause e stanchezze.

Freud, nuovo Mosè del XX secolo, non smise mai di riflettere sul profondo significato che, per la civiltà umana, rappresentò la Legge mosaica. Tornò ad occuparsi del patriarca ebraico con tre saggi scritti tra il 1934 e il 1938, saggi raccolti nel volume L’uomo Mosè e la religione monoteistica. Che Mosè fosse stato il fondatore del monoteismo rafforzò in Freud la convinzione che fosse necessario, anche nel movimento psicoanalitico, opporsi al politeismo delle molte correnti, affermatesi nei vent’anni precedenti, ribadendo le ragioni e la validità (il monoteismo, dunque) dell’unica, valida e vera dottrina psicoanalitica, quella freudiana.

Ma torniamo alla statua di Michelangelo o, anzi, alla tomba di Giulio II. Osservando meglio il Mosè e mettendolo a confronto con l’esile statua, sovrastante quella del patriarca ebraico e mollemente adagiata sul suo sarcofago, di Giulio II, rimaniamo colpiti ed esterrefatti di fronte alla sproporzione che le caratterizza: mai è avvenuto che il personaggio celebrato nel sepolcro sia stato ritratto in maniera così sottodimensionata rispetto alla figura che doveva rappresentare il semplice “custode” del sepolcro. Non possiamo, di conseguenza, fare a meno di ipotizzare (sulla base di quel sentimento che, kantianamente, si può definire come “spontaneo accordo tra immaginazione e intelletto”) che, se c’è stato un processo d’identificazione, questo è avvenuto tra lo scultore Michelangelo e la figura di Mosè, e ciò in linea con la formazione culturale giovanile dell’artista, svoltasi nella Firenze medicea, a stretto contatto con intellettuali umanisti quali Lorenzo, Angelo Poliziano, ma soprattutto Marsilio Ficino e Pico della Mirandola. Questi ultimi, oltre ad essere esperti di greco e di latino, dimostravano una particolare predilezione per tutta la cultura ebraica, in particolare per la tradizione cabalistica.

Non è azzardato ipotizzare che il giovane Michelangelo ne sia rimasto fortemente impressionato, maturando una sua speciale sensibilità verso temi, figure, storie e simboli della cultura ebraica (una gran mole di informazioni, a tale proposito, la si può invenire nel libro di Doliner e Blech, I segreti della Sistina, Milano 2013). Testimonianze significative di tale apprendimento ebraico sono presenti nelle maggiori opere dell’artista: il David, la volta della Cappella Sistina, il Giudizio universale, il Mosè. Niente di più facile, quindi, che nella possente figura di Mosè, nelle sue membra vigorose e nel suo sguardo corrucciato e volto verso un indefinito e lontano orizzonte, sia ravvisabile la proiezione del suo stesso artefice.

Così come non è da trascurare, nella lettura non solo tecnica ma anche filosofica del muto colloquio che si svolge tra la statua di Giulio II e quella di Mosè, un implicito rimando ai conflittuali rapporti che Michelangelo ebbe con il papa suo committente o, per meglio dire, “padrone”.

Osservando il gioco di sguardi che non si incrociano tra le due statue, sembra quasi di sentire le parole di Michelangelo: “Tu sarai pure il padrone e colui che, con i suoi denari, mi consente di produrre dei capolavori; ma vivi nel tempo e morirai nel tempo, mentre ciò che io creo è destinato all’eternità e, se di te rimarrà un qualche labile ricordo, ciò avverrà solo perché quel ricordo sarà collegato alle mie opere. E rammenta inoltre che queste opere sono frutto della mia fantasia e della mia libertà artistica, che tu, nonostante il tuo immenso potere, non puoi assolutamente limitare. Sono io, Michelangelo, il vero mediatore tra la l’infinita divinità e questa umanità sofferente e mortale che aspira e sogna l’immortalità”.

Con queste immaginarie parole dell’artista, rivendicanti orgogliosamente la propria dignità e libertà, possiamo anche oggi concludere la nostra visita ad uno dei nostri più inestimabili tesori d’arte.

Possiamo distogliere i nostri occhi dalla tomba di Giulio II e avviarci verso l’uscita della chiesa, passando spediti davanti all’altare maggiore e soffermandoci per qualche minuto a metà circa della navata sinistra, laddove, seminascosto e trascurato dai più, è situato il sepolcro (ricoperto da una semplice pietra tombale con iscrizione in latino) di un grande filosofo del XV secolo: Niccolò Cusano, morto a Todi nel 1464 e la cui salma venne trasportata a Roma per essere seppellita in questa chiesa di san Pietro in Vincoli, chiesa della quale proprio lui aveva ordinato e curato il restauro qualche anno prima.

Anche Cusano, nelle sue opere, si era soffermato sul concetto di infinito, ipotizzando un mondo materiale infinito, formato da innumerevoli corpi celesti molti dei quali abitati, così come il nostro pianeta, la Terra, non più immobile al centro, ma mobile e sperduto nell’immensità dell’universo. Aveva così preconizzato gli straordinari sviluppi della civiltà moderna, nonché le idee di Leonardo, Copernico, Giordano Bruno, Galileo Galilei.

Francesco Sirleto

La prima e la seconda foto sono tratte da: http://www.traccedistudio.it/4662/mose-michelangelo.html

 


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3 commenti su “Lo sguardo e le mani del Mosè

  1. Grazie a Francesco per questo bel saggio di passione interpretativa ed acribia critica che mi ha riportato alle mie letture adolescenziali, quando la copertina dell’edizione Boringhieri era arancione.

  2. Complimenti per questa interessante presentazione del pensiero freudiano su di un’opera scultorea bella ed imponente!

  3. Grazie Francesco, mi hai riportato in dietro agli studi liceali (storia dell’arte) e a quelli universitari (esame di psichiatria). Hai, in due articoli, condensato alcuni anni di studi miei.

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