Municipi: ,

Lo strano caso dell'”anarchico individualista”

Questura Centrale di Milano, 17 Maggio 1973 - Gianfranco Bertoli, un uomo per tutte le stagioni

Il Ministro Rumor era odiato dall’ambiente di destra perché aveva ostacolato i progetti di mutamento istituzionale in Italia e si era mostrato ostile alla destra. Maggi disse che era assolutamente necessario trovare una persona che eseguisse l’attentato. Ribadì che bisognava “spazzar via Rumor”. Maggi aggiunse che comunque avrebbe continuato ad occuparsi del progetto. E che riteneva fattibile utilizzare Gianfranco Bertoli, persona disposta a tutto. Se si fosse riusciti a reclutare Bertoli vi sarebbe stata per l’azione una “copertura” anarchica per l’opinione pubblica come per Piazza Fontana.” (Carlo Digilio, militante [e “artificiere”] di Ordine Nuovo, deceduto a Bergamo, il 12 Dicembre del 2005).  (*)

*****

E l’acqua si riempie di schiuma, il cielo di fumi La chimica lebbra distrugge la vita nei fiumi Uccelli che volano a stento malati di morte Il freddo interesse alla vita ha sbarrato le porte.”  “[…]”.. “Eppure il vento soffia ancora. Spruzza l’acqua alle navi sulla prora E sussurra canzoni tra le foglie Bacia i fiori, li bacia e non li coglie.”

Chi  di voi– come me – qualche decennio fa ascoltava la romana Radio Città Futura ricorderà certamente di avere spesso sentito cantare le parole che avete letto sopra, facenti parte della canzone “Eppure Soffia”, scritta e cantata da Pierangelo Bertoli (1942-2002), su musica di Alfonso Borghi (1975).

[ascoltala qui: https://www.youtube.com/watch?v=hOxLD7Eb9h4].

Si? Bene. Ma non è di quel Bertoli che scriverò anche se, scrivendo di lui, si potrebbero riempire molte pagine; bensì di un altro Bertoli, omonimo nel Cognome del primo, di nome Gianfranco (1933-2000) e di professione provocatore fascista, finto anarchico e molto altro ancora.

Gianfranco Bertoli, un uomo per tutte le stagioni

Su Gianfranco Bertoli così scriveva, il 17 Maggio 2023 sul Quotidiano “Avvenire”, il giornalista Antonio Maria Mira:

“[…]” . “Anche perché Bertoli era stato informatore del Sifar negli anni ù

50-60 e poi del Sid dal 1966 al 1971. «I documenti su di lui sono stati trovati mancanti di alcuni allegati. Per questo il generale Gianadelio Maletti, capo del reparto D (controspionaggio) del Sid venne incriminato. La sera stessa dell’attentato manda un suo uomo in Israele, dove Bertoli era stato dal 1971, a svolgere dell’attività per non far emergere chi fosse realmente, ma un estremista di sinistra». E «la tesi di Bertoli anarchico individualista ha molto tenuto, anche negli ambienti di sinistra. E anche questo ha ridotto il rischio che scattasse un’apertura di verità». (Fonte:https://www.avvenire.it/attualita/pagine/mezzo-secolo-fa-la-strage-al-fatebenefratelli-il).

Per farlo – e per farlo con precisone – dobbiamo, però, fare un salto temporale all’indietro e andare al 17 Maggio 1973, ovvero ieri, ormai 51 anni fa.  Riandare – con il pensiero – davanti all’entrata della Questura Centrale di Milano, sita in Via Fatebenefratelli, al civico 11, l’Edificio da dove – è bene mai dimenticarlo, ché si tratta di un pezzo del puzzle nero e stragista di quegli anni – la notte tra il 14 ed il 15 Dicembr4e del 1969, il ferroviere anarchico Giuseppe (Pino) Pinelli. dopo un fermo di polizia prolungato illegalmente, “volava” da una finestra del Quarto piano, spinto da forza (e volontà) certamente non sue. Su quell’Edificio, nessuna targa o lapide ricorda la morte del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, ma un busto, collocato all’interno della Questura, ricorda invece, l’assassinio del Commissario Capo Luigi Calabresi, avvenuto esattamente un anno prima dell’attentato stragista di cui scrivo qui, ovvero il 17 Maggio del 1972.

Dunque, per capire l’inizio e la fine di questa storiaccia basterebbe leggere le righe che aprono questa Nota, facenti parte di una dichiarazione rilasciata, anni fa, da Carlo Digilio, nazifascista  e  militante di Ordine Nuovo, deceduto, per una grave malattia, curiosamente proprio il giorno del 36iesimo anniversario della strage di Piazza Fontana, a  Milano, operata – ormai è noto – dello stragismo fascista (ma non solo da quello); ambiente, quello nazifascista nostrano, di cui Digilio – dopo l’arresto divenuto collaboratore di giustizia – faceva appieno parte, essendo conosciuto anche come “l’artificyere” per la sua, diciamo così, dimestichezza assassina con gli esplosivi, ma anche come  lo “Zio Otto”. Dunque quella, che avete letto, è  – sulla strage fascista (ma non solo) del 17 Maggio 1973, davanti la Questura Centrale di Milano (4 morti e 52 feriti) – testimonianza di prima mano e inconfutabilmente veritiera.

Tutto si potrebbe, allora, chiudere qui. Ma, invece, è bene rinfrescarci la Memoria, dati i tempi che corrono. Tempi in cui – è a tutti noi incontestabilmente lampante – alcuni esponenti dell’attuale maggioranza di governo tendono a riscrivere, a loro piacimento politico, la Storia, compresa quella dei cosiddetti “anni di piombo”.

Dunque, per fare un servizio alla “realtà effettuale delle cose” e alla nostra Memoria, che si ostina a conoscere la verità, sotto trovate riportato quanto pubblicato su quella strage fascista di 51 anni fa sull’Edizione di ieri del Quotidiano Domani – a firma di Paolo Morando e Massimo Pisa.

NotalI testo è un estratto di Il bombarolo. La strage dimenticata di via Fatebenefratelli  (Feltrinelli 2024, pp. 384, euro 20,90) di Paolo Morando e Massimo Pisa

(*) Carlo Maria Maggi (1934-2018), fondatore della cellula veneta di Ordine NuovoMaggi ha fatto parte del MSI da cui fu espulso a fine anni ’60 perché ritenuto legato al terrorismo “nero”. Condannato a 12 anni di carcere per “reato associativo nel Processo per la strage di Peteano (31 Maggio 1972, reo confesso il nazifascista non pentito, Vincenzo Vinciguerra), fu assolto, dopo una condanna in primo grado all’ergastolo, per la strage di Piazza Fontana a Milano (12 Dicembre 1969) e per quella alla Questura di Milano (17 Maggio 1973). Per insufficienza di prove, uscì indenne anche dal Processo per la strage di Piazza della Loggia, a Brescia (28 Maggio 1974), ha visto la sentenza annullata dalla Cassazione nel 2014, mentre nel successivo Processo d’appello era stato condannato all’ergastolo (22Lluglio 2015) come mandante. La condanna all’ergastolo del 22 Luglio 2015 è stata confermata definitivamente in Cassazione il 20 Giugno 2017. Morto a 82 anni, Maggi non è mai stato arrestato rimanendo ai domiciliari a causa delle sue precarie condizioni di salute.

Carlo Digilio (1937-2005) noto come “l’artificiere” o come “Zio Otto”,, esperto di armi ed esplosivi e militante della cellula veneta di Ordine Nuovo, è stato un terrorista nerocollaboratore di giustizia e sedicente agente segreto  poi pentito e condannato, reo confesso ma con pena prescritta, per concorso nella strage di piazza Fontana, nonché coinvolto anche nella strage fascista di Piazza della Loggia, a Brescia..

******

Verità e misteri di Gianfranco Bertoli, lo stragista della questura di Milano

l 17 maggio 1973 in via Fatebenefratelli a Milano una bomba a mano uccide quattro persone e ne ferisce 52. Chi era l’attentatore, arrestato in flagrante, al centro di una storia che è sintesi della “strategia della tensione”?

L’appuntamento era per le 10:30. Sul pavé di fronte alla Questura, solcato dai binari dismessi del tram, il traffico di auto blu, invitati e curiosi era cominciato ben prima. Ai “ghisa”, i vigili urbani con le loro divise di rappresentanza color ferro battuto, toccava far sgomberare le auto parcheggiate in via dei Giardini e via De Marchi, per far posto a quelle delle autorità.

Agenti e guardie di pubblica sicurezza sostavano all’ingresso per controllare gli inviti: chi non lo mostrava non sarebbe entrato. Al bar dell’Annunciata, il tradizionale ritrovo di poliziotti e giornalisti sul marciapiede di fronte al grande portone, i caffè e i cappuccini arrivavano sul bancone a un ritmo doppio rispetto al solito.

L’uomo col giaccone color crema, il viso scavato ornato da un lungo pizzetto, si muoveva senza far molto per non farsi notare. Dentro l’Annunciata, tra le 9:30 e le 9:40, si era fatto versare un cognac dal barista Francesco Galoppini. Uscito dopo l’insolita consumazione, aveva formato un piccolo capannello con altre due persone, sotto gli occhi dello chauffeur Giuseppe Iannaci e del poliziotto della Scientifica Gioacchino Gemelli, uno abituato a fotografare le persone con un solo sguardo e a tradurne i connotati in gergo tecnico sui rapporti.

Quel volto non passava inosservato e nemmeno la figura di uno dei suoi due compagni di chiacchiera, un giovane dall’aspetto hippy con i capelli biondo-rossicci, lunghi “alla nazarena”, il viso “poligonale”, i baffoni a manubrio, l’eskimo verde col cappuccio, i pantaloni di velluto marrone: così Gemelli lo avrebbe descritto in seguito. I tre erano rimasti insieme per lunghi minuti, scambiando qualche parola. Poi l’uomo col giaccone era rientrato al bar e il cameriere Roberto Bonetti gli aveva versato una sobria aranciata.

LA CERIMONIA

Nel cortile della Questura, il discorso di Mariano Rumor era durato pochi minuti e non aveva lasciato tracce significative. Difficilmente le parole del leader vicentino dei dorotei democristiani restavano scolpite nel marmo della Storia. La tromba del silenzio era risuonata mentre l’uomo col giaccone chiaro si presentava al portone.

«L’invito», gli aveva intimato il maresciallo Ferdinando Oscuri, un omone che era già leggenda alla Squadra mobile per le sue mani enormi e i modi spicci. Aveva già catturato rapinatori rampanti come Renato Vallanzasca, o incalliti come le “tute blu” di via Osoppo, gli autori del colpo che aveva fatto tifare per i cattivi perfino Indro Montanelli dalle colonne del Corriere della Sera, nel lontano 1958. Respingere un imbucato era una pura formalità.

Per le 10:50 il picchetto d’onore mise già termine alla cerimonia. E per la seconda volta le manone di Oscuri bloccarono sulla soglia quel signore col pizzetto e le mani nelle tasche del giaccone. «Circolare».

Ricevuta l’ennesima stretta di mano dal ministro, Gemma Capra gettò un’ultima occhiata al busto. L’espressione del marito, ritratto in dolcevita e giacca, era dura, quasi cupa. Rocchi aveva dovuto lavorare sulle poche foto disponibili, quelle scattate durante il processo per diffamazione all’allora direttore di Lotta Continua, Pio Baldelli.

Erano i giorni in cui decine di extraparlamentari rossi scandivano verso il commissario l’accusa “as-sas-si-no!” in quell’aula di tribunale. Anche Enzo Tortora, che sulle colonne della Nazione aveva difeso le ragioni di Calabresi fin dai giorni della morte di Pinelli, andò a dare un bacio alla vedova.

Camilla Cederna osservava la scena qualche metro più in là, col suo quaderno pieno di appunti da riversare sul numero seguente dell’Espresso. In un anno, la firma più acuta e impegnata dei salotti milanesi non era retrocessa di un millimetro dalla sua convinzione: l’anarchico non si era certo suicidato, e le responsabilità del funzionario dell’Ufficio Politico prima o poi sarebbero venute fuori.

Le cineprese e i flash a bulbo seguirono Rumor dal cortile fino all’auto blu che attendeva lui e Zanda Loy, ferma sul pavé, mentre un cordone di agenti conteneva la folla sul marciapiede opposto. Il prefetto Libero Mazza e il questore Ferruccio Allitto Bonanno seguirono il ministro con lo sguardo finché la portiera non fu chiusa e l’autista diede gas. Gli invitati sciamarono via con ordine. Gemma Capra guadagnò l’angolo tra via Fatebenefratelli e via dei Giardini, insieme ai familiari.

Il sindaco Aldo Aniasi percorse il marciapiede in direzione opposta, dove l’autista era pronto a riportarlo a palazzo Marino. Dalle finestre del piano ammezzato della Questura, nella saletta dove ogni giorno si dettavano ai dimafonisti i resoconti degli arresti e le ultimissime per le “ribattute” notturne dei quotidiani, i cronisti di nera osservavano gli ultimi scampoli di scena. Tutto si era già concluso.

Tutto, invece, stava per cominciare.

LA BOMBA

L’archivista Leone Di Bratto, appuntato di Ps in servizio d’ordine fin dalle 8, notò il gesto con la coda dell’occhio. Dalla tasca del giaccone chiaro, un paio di metri alla sua sinistra, erano spuntati una mano e un oggetto. Il gesto del braccio fu ampio, quello di Di Bratto secco. Arrivò a sfiorarlo.

Il carabiniere Giancarlo Aloisi fu il primo ad afferrare il lanciatore, ma intanto quella cosa scura a forma di uovo era volata verso il portone della Questura, colpendone lo spigolo e rotolando lungo il marciapiede. Non ci fu tempo per notare le linee verticali e orizzontali che la intarsiavano a intervalli regolari. Tra lo strappo della coppiglia e il botto trascorsero appena cinque secondi.

Una bomba a mano.

L’esplosione. La fiammata. Pochi istanti di silenzio, una nuvola di fumo. Poi ecco le grida di dolore. Ecco i cameraman e i fotografi fare il loro lavoro: documentare in diretta la morte e lo sgomento dei feriti.

L’anziano, ritto sulle ginocchia, con la bocca spalancata e le macchie scure a imbrattare la fronte, il mento, la camicia, i pochi capelli sulle tempie. Le braccia gli penzolavano lungo i fianchi. Comparve in pochi scatti, lo portarono via subito.

Restò invece seduto sul marciapiede, a pochi centimetri dal muro esterno della Questura, il giovane alle sue spalle in giacca chiara e cravatta. C’era più sorpresa che sofferenza sul suo viso, mentre tentava invano a rialzarsi, o almeno è quello che rimase impresso sulle pellicole. Lo sorreggevano per le spalle, durante quei suoi tentativi, quasi che vincere il male fisico fosse una missione. Il suo volto era già comparso sui giornali del 13 aprile 1973 mentre osservava da vicino il collega Antonio Marino, straziato da una bomba a mano lanciata dai neofascisti Vittorio Loi e Maurizio Murelli che manifestavano con i loro camerati nonostante il divieto del questore.

Due metri più in là, la maschera stravolta di un “ghisa” era il perfetto pendant ai brandelli dei suoi pantaloni, alle sue gambe martoriate e incapaci di tirarlo su.

Immobile, come addormentata su un fianco, stava una ragazza col maglione a quadretti, i pantaloni a zampa d’elefante appena pronunciata, le scarpe col tacco basso. Il suo caschetto di capelli corto e biondo donava ulteriore grazia alla sua figura.

Altre décolleté da signora, scivolate dai piedi della corpulenta proprietaria, penzolavano ai bordi del marciapiede. I cronisti di nera lo sapevano bene: ogni volta che una scarpa restata terra, lì c’è la vittima. Le aveva perse anche la signora immobile alla sua destra. Un paio, scuro e con tacchi spessi, era invece ancora calzato da una giovane con la bocca spalancata, gli occhi voltati all’indietro alla ricerca di qualcuno che le curasse le ferite e le spiegasse il perché.

Sembravano rendersene conto i soccorritori, civili e in divisa, che provavano a dar conforto in quegli istanti straziati, e quelli che allargavano le braccia di fronte all’orrore.

L’ATTENTATORE

Sul lato opposto della strada altri flash continuavano a crepitare. Riprendevano il mucchio umano che si era formato sopra l’attentatore. La guardia Pietro Carlucci lo aveva visto girarsi di spalle e provare a incamminarsi con fare indifferente. Due passi e il carabiniere Aloisi lo aveva afferrato, la guardia Vito Di Fonzo gli era saltato addosso, il tenente colonnello dei carabinieri Guido Petrini era piombato a dare man forte.

E dietro di lui cittadini inferociti, passanti che facevano roteare gli ombrelli, testimoni che menavano e scalciavano, colpendo soprattutto gli uomini in divisa, che facevano scudo. «A morte!». A stento, guidati dall’erculeo Oscuri, carabinieri e poliziotti erano riusciti a trascinare l’uomo col pizzetto e il giaccone chiaro verso il portone. «È per Pinelli! Viva Pinelli!».

Le sue urla sapevano di sfida. (…) Evitare il linciaggio fu un’impresa. I rullini con le crude immagini stavano già volando verso le camere oscure, pronte ad andare in stampa sulle prime pagine e sullo sfoglio interno dei quotidiani del pomeriggio e dell’indomani.

Appena dentro il cortile, e prima di mettere piede nell’ufficio di Notturna, l’appuntato Di Bratto tolse il portafoglio dalle tasche dell’attentatore. Sul passaporto n. 4338024/P c’era il nome di Massimo Magri, nato a Bergamo il 30 luglio 1942. Il bombarolo dimostrava almeno dieci anni in più.

Fonte: https://www.editorialedomani.it/idee/cultura/gianfranco-bertoli-stragista-questura-milano-saqmbois


Questo articolo è stato utile o interessante?
Sostieni Abitarearoma clicca qui! ↙

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Scrivi un commento