Ma non è vero che tutto è arte

Se tutto è arte … di Roberto Gramiccia, un libro per chi non si rassegna alla sua totale mercificazione

“Perché questo è il modo giusto di avanzare o di essere guidato nelle questioni d’amore: cominciando dalle bellezze di questo mondo, in vista di quella ultima bellezza salire sempre, come per gradini, da uno a due a tutti i bei corpi e dai bei corpi a tutte le belle arti, e da queste alle belle scienze e dalle scienze giungere infine a quella scienza che è la scienza di questa stessa bellezza … (Platone, dal Simposio);

“Due cause appaiono in generale  aver dato vita all’arte poetica, entrambe naturali: da una parte il fatto che l’imitare è connaturato agli uomini fin dalla puerizia (e in ciò l’uomo si differenzia dagli altri animali, nell’essere il più portato ad imitare e nel procurarsi per mezzo dell’imitazione le nozioni fondamentali), dall’altra il fatto che tutti traggono piacere dalle imitazioni” (Aristotele, dalla Poetica);

“A rigore non si dovrebbe dare il nome di arte se non alla produzione mediante libertà, cioè per mezzo di una volontà che pone la ragione a fondamento delle sue azioni … Il genio è il talento di produrre ciò di cui non si può dare una regola determinata … per conseguenza l’originalità è la sua prima proprietà … Poiché vi possono essere anche stravaganze originali, i suoi prodotti debbono essere insieme modelli, cioè esemplari … (Kant, da La critica del giudizio);

“L’arte bella, al contrario, ha per condizione l’autocoscienza dello spirito libero; e quindi la coscienza della dipendenza dell’elemento sensibile e meramente naturale rispetto allo spirito: essa fa dell’elemento naturale nient’altro che un’espressione dello spirito … (Hegel, dall’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio);

“L’opera d’arte apre, a suo modo, l’essere dell’ente. Nell’opera ha luogo questa apertura, cioè lo svelamento, cioè la verità dell’ente. Nell’opera d’arte è posta in opera la verità dell’ente … l’origine dell’opera d’arte è l’arte. Ma che cos’è l’arte? L’arte è reale nell’opera d’arte. Perciò ricerchiamo in primo luogo la realtà dell’opera … (Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti).

 

Mi è sembrato doveroso, volendo recensire un prezioso volumetto di recentissima pubblicazione (Se tutto è arte … di Roberto Gramiccia, Mimesis Edizioni, Milano 2019) – presentato nella serata di sabato 9 novembre presso la Galleria Plus Arte Plus di viale Mazzini n. 1 in Roma – premettere alle mie riflessioni e considerazioni alcuni brevi richiami alle opinioni di alcuni “Grandi” del pensiero filosofico, relativamente all’arte e all’essenza o definizione di essa. D’altra parte, nelle dense e avvincenti pagine nelle quali si dispiega il ragionamento del prolifico medico, critico d’arte e scrittore romano, di riferimenti agli strettissimi legami, antichi e moderni, tra pratica artistica e riflessione filosofica, se ne trovano in quantità e qualità considerevoli. Il nocciolo del testo è però costituito dall’aspra e puntuale e documentatissima denuncia della deriva involutiva e mercantilistica nella quale si è andata a schiantare l’arte post-contemporanea, per lo meno a partire dalla fine degli anni Settanta – inizi anni Ottanta fino ai giorni presenti. La deriva dell’arte è però soltanto un aspetto, secondo l’autore, di una più generale involuzione caratterizzante l’epoca nella quale viviamo, l’epoca cioè della globalizzazione, della digitalizzazione esasperata e pervasiva, del dominio quasi assoluto di quella nuova divinità, sintesi e surrogato di tutte le più antiche e agonizzanti divinità, che si chiama Mercato neo-capitalistico. Un mercato che ha deciso che anche l’arte, dove pure fino a non molto tempo fa era possibile all’artista godere di uno spazio “contrattato” di libertà creativa, deve essere, al pari degli altri, un territorio interamente dominato, regolamentato e subordinato agli interessi e al profitto delle grandi multinazionali proprietarie di Musei, Case d’arte e Case d’aste, organizzazioni che programmano eventi e mostre estemporanee con enormi investimenti in pubblicità, che pagano profumatamente organi di stampa e critici compiacenti che, in cambio di molto denaro, si prestano a fornire dignità e credibilità a prodotti che con l’arte hanno ben poco a che fare. In poche parole, la nostra è l’epoca della completa mercificazione dell’arte, un’epoca nella quale, prendendo in prestito le categorie marxiane, il prodotto artistico è stato ridotto a puro valore di scambio, dopo essere stato spogliato del suo tradizionale valore d’uso, consistente quest’ultimo nel godimento che la fruizione di esso provocava nello spirito umano. Godimento che, per fortuna, i capolavori del passato (ma anche del recentissimo passato, almeno fino all’avvento della sedicente arte post-contemporanea) continuano a suscitare. La nostra è un’epoca – seguendo la denuncia di Gramiccia – nella quale qualsiasi oggetto di uso comune (a partire dal celebre orinatoio di Duchamp, 1917, all’altrettanto celebre Cesso d’Oro di Maurizio Cattelan, 2017, passando per la scatola contenente la Merda d’artista di Piero Manzoni, 1961, per non parlare delle “creazioni” di autentici guru e “artistar” come Jeff Koons e Damien Hirst, dominatori incontrastati, a giudicare dalle supervalutazioni dei loro prodotti, del mercato internazionale), così come qualsiasi gesto o azione (performance) che rivesta i crismi della stravaganza o che sfiori e magari superi il limite della follia, può essere gabellato e compra-venduto come autentico capolavoro. Un’epoca in cui non è il valore artistico, intrinseco nell’opera, a determinarne il valore economico, bensì il contrario: il valore economico dell’opera, predeterminato dalla corporazione dei mercanti d’arte internazionali (dietro i quali si celano grandi banche e società finanziarie),  determina il presunto valore estetico dell’opera, il quale, a sua volta, prescinde assolutamente dalla sua capacità di suscitare un piacere disinteressato, quello spontaneo e subitaneo “accordo tra immaginazione e intelletto” (Kant) che, tradizionalmente, le autentiche opere d’arte hanno sempre (e ancora oggi è possibile sperimentarlo) provocato nell’animo di colui che vi si accosta.

Gramiccia, per fortuna, è in buona compagnia in questa presa di distanza nonché rigorosa critica rivolta nei confronti di questa “fiera dell’incredibile” (definizione dell’autore) rappresentata dall’insieme di “assurdità, di stranezze e di abomini” che, in un omonimo capitolo del libro, egli diligentemente colleziona, offrendolo alla riflessione del lettore. A condividere le sue preoccupazioni e repulsioni vi sono critici, esperti, letterati e filosofi dell’arte di chiara fama, personaggi che non hanno alcun timore delle eventuali e possibili ritorsioni provenienti dai Padroni (sarebbe meglio dire Padrini) del Mercato: Francesco Bonami (autore di L’arte nel cesso); Mario Perniola (autore de L’arte espansa); Tomaso Montanari; Jean Clair, Marc Fumaroli e, dulcis in fundo, il premio Nobel della letteratura 2010, Mario Vargas Llosa, secondo il quale “Da quando Marcel Duchamp, che senza dubbio era un genio, ha rivoluzionato i modelli artistici dell’Occidente stabilendo che un gabinetto poteva essere un’opera d’arte, se lo avesse deciso l’artista, è diventato tutto possibile … Un tempo in cui lo sproposito e la bravata, il gesto provocatorio e privo di senso, bastano a volte, con la complicità delle mafie che controllano il mercato dell’arte e i critici conniventi o gonzi, a coronare falsi prestigi, conferendo lo statuto di artisti a illusionisti che nascondono la propria pochezza e il proprio vuoto dietro i raggiri e la presunta sfrontatezza” (da La Civiltà dello spettacolo, Einaudi 2005).

Nonostante i molto autorevoli e condivisibili pareri, l’autore di Se tutto è arte … dichiara il suo assoluto scetticismo sulle possibilità che, nell’attuale situazione, chiunque sia intenzionato a fare arte sul serio (magari perché hegelianamente convinto del valore conoscitivo dell’arte, in quanto “autoconoscenza dello spirito mediante forme sensibili” e confidando anche nella capacità dell’arte di contribuire a modificare gli assetti sociali esistenti) possa conservare una sia pur minima autonomia espressiva. Essa, infatti, “… dopo secoli e secoli, per la prima volta è venuta meno a causa di uno spostamento dei rapporti di forza a favore del potere … le ragioni del mercato hanno prevalso su quelle della libertà dell’arte”. Quella libertà che derivava, sostanzialmente, dalla capacità dell’artista di saper cogliere e oggettivare (dandole Forma, Armonia, Misura) la realtà, sia quella naturale che quella interiore. Di conseguenza, l’asservimento dell’artista agli interessi del Mercato, “ha comportato la perdita della sua relazione con la realtà. L’arte, cioè, ha cessato di essere “realistica” per divenire funzionaria del profitto e delle dinamiche che lo regolano, legate a un rigido sistema di relazioni fondato su oleati ingranaggi tecno-comunicativi e di marketing. Insomma, dobbiamo tristemente riconoscere che l’arte è diventata una merce come tutte le altre anzi, come vedremo, peggiore delle altre”. Il fenomeno che ha interessato e degradato a merce l’arte post-contemporanea, secondo Gramiccia ha coinvolto e devastato anche il mondo dell’editoria, della musica, della Sanità, dello spettacolo, “fino a indurre vere e proprie mutazioni antropologiche di massa. L’industria culturale è il braccio armato di questo apparato di potere, di cui il sistema dell’arte è una casamatta importante, con un fatturato annuo di miliardi di dollari. Quando parliamo di sistema dell’arte ci riferiamo a un’entità precisa, efficientissima e ampiamente studiata, composta da una rete dinamica che fa capo ai musei, alle gallerie più importanti, alle fondazioni, ai collezionisti più potenti e organizzati …, ai critici e ai curatori (che quasi sempre coincidono), alle riviste e ai giornalisti specializzati”.

Il quadro complessivo che emerge dalla lettura di “Se tutto è arte …” è abbastanza deprimente e desolante. Rimango tuttavia convinto che, in questa epoca di povertà estrema (“In der duerftiger Zeit”, per dirla con Heidegger), contrassegnata dal totale “oblio dell’Essere”, anzi dalla sua trasformazione in “utensile” (o, per ripiegare su Marx, in “valore di scambio”), esiste ancora una estrema possibilità di salvezza, rappresentata non dal Dio o dal Pensiero poetante vaticinato dall’oscuro e discutibile filosofo dei Sentieri Interrotti (ancora Heidegger), bensì da quella inevitabile rinascita della Ragione umana (prima o poi accadrà, vedrete, così come si è già verificato in passato, dopo ben mille e più anni di oscurità medievale) che, nonostante l’Eclisse degli ultimi cinquant’anni, tornerà a far risplendere la sua luce su un’umanità in cui i rapporti tra le persone sono stati ridotti a rapporti tra cose. In questo nuovo, auspicabile (e a mio avviso inevitabile) avvento della Ragione, anche l’arte è destinata a svolgere un ruolo indispensabile e insostituibile.

 

Francesco Sirleto


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