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Memoria cecena: la storia dimenticata di Antonio Russo

Tiblisi, Georgia, Anno 2000, morte "accidentale" di un giornalista d'inchiesta

“L’unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede.” (Anna Stepanovna Politkovskaja)

Prologo ad una storia dimenticata: Anna Stepanovna Politkovskaja (1958-2006) era stata più di quaranta volte in Cecenia per seguire quella guerra, la seconda che questa piccola Repubblica caucasica subiva in dieci anni. Aveva vissuto con i ceceni, condiviso il loro calvario. Incurante dei rischi e delle minacce, aveva continuato a voler raccontare il conflitto, testimoniando dei saccheggi, degli stupri e degli omicidi perpetrati dai militari russi, e di come i combattenti ceceni stessero annegando nella delazione e nei regolamenti di conti. Il “viaggio all’inferno” di Anna Politkovskaja è stato un duro atto d’accusa contro la società russa, colpevole di tacere o acconsentire al genocidio, e contro il presidente Vladimir Putin, che ha sempre bisogno di un nemico per far dimenticare i problemi reali del suo paese. Anna Stepanovna

Politkovskaja è stata assassinata, il 7 Ottobre del 2006, nell’androne del Palazzo di Mosca dove viveva, mentre tornava dall’avere fatto la spessa e ha pagato così l’essere sempre stata fedele ad un concetto cardine del suo essere una giornalista d’inchiesta: L’unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede.”. Quegli assassini ci hanno privato, per sempre, della sua intelligenza non solo investigativa.

Questa storia: ma questa – scriverebbe qualcuno – è un’altra storia. E in effetti è proprio un’altra storia quella di cui scrivo qui, ma è una storia (anzi una storiaccia) che c’entra molto con quei 40 e più “viaggi” di Anna Politkovskaja in Cecenia. E’ bene però che la si racconti dall’inizio.

16 Ottobre 2000, siamo nella periferia di Tbilisi, la Capitale della Georgia.  Un poliziotto in pensione rinviene un cadavere col torace sfondato in una stradina di campagna. È il corpo di Antonio Russo, l’inviato di Radio Radicale scomparso due notti prima dalla sua abitazione. Incidente? Rapina? O assassinio?  Russo stava documentando la guerra in Cecenia e aveva denunciato l’uso, da parte russa, di armi proibite sui civili. La documentazione da lui raccolta non è stata ritrovata, ma forse non è così. Sulla sua morte si aprono due inchieste giudiziarie, una in Georgia e una in Italia. Vengono alla ribalta indiziati improbabili, sono formulate ricostruzioni inattendibili, l’unico indagato è un artista olandese. È davvero coinvolto? A 24 anni dalla morte di Antonio Russo, la verità resta sepolta e tutti gli interrogativi sono ancora senza risposta.

Russo era riuscito a mettere le mani su una videocassetta contenente immagini sconvolgenti delle torture inflitte dalle truppe russe a civili ceceni e ne aveva parlato per telefono con la madre in Italia, raccontandole l’orrore che aveva provato alla vista di quelle immagini. Dopo la sua morte, la sua abitazione fu ritrovata ripulita di tutto: computer, telefono, videocamera e qualunque tipo di materiale e documentazione.

Antonio Russo – con la sua aria trasandata, più reale che ricercata – era un giornalista in gamba (anche se non si era mai iscritto all’Ordine). Aveva raccontato molte guerre. In Algeria, in Ruanda, a Cipro, in Bosnia e in Kosovo, dove, un anno e mezzo prima di morire, disobbedì all’ordine dell’Esercito serbo di abbandonare Pristina sotto assedio e fu l’unico giornalista occidentale presente a documentare le prove generali del massacro che sarebbe arrivato di lì a poco. Ricercato, riuscì a uscire dal Paese nascosto in un convoglio di profughi, da cui peraltro era indistinguibile. Come giornalista, in Italia, non passava inosservato, con il codino, gli anelli, l’aria sgualcita e – come ho scritto – una trasandatezza troppo autentica per essere cool. In uno scenario di guerra, per la stessa ragione, diventava invisibile.

Sulla sua storia è uscito, nel 2004, un bel film “Cecenia”, diretto da Leonardo Giuliano, che non è mai stato distribuito e che quindi hanno visto in pochissimi, in cui a interpretare Antonio Russo è Gianmarco Tognazzi. Anche in questo, Antonio, non è stato fortunato: per essere riconosciuto ha dovuto morire. «La sua morte è la sua ultima notizia» aveva detto Marco Pannella al suo funerale; Pannella che lo aveva definito non un giornalista radicale, ma un radicale giornalista.

Dal giorno dopo il suo assassinio, nessun governo italiano ha mai chiesto conto al Governo della Federazione Russa di quella morte, come del coinvolgimento dei Servizi russi nella sparizione e nella fine del giornalista; coinvolgimento, da più parti denunciato, a cominciare proprio da Marco Pannella.

Dunque, per essere ricordato, a ventiquattro anni dalla sua morte, Antonio Russo non può contare che sulla Memoria collettiva di chi ama e difende un’informazione non solo libera, ma soprattutto documentata  e consapevole..

Nota finale: sulla storia dell’assassinio di Antonio Russo, giornalista di Radio Radicale, è possibile ascoltare, su Rai Play Sound, il Podcast intitolato: “La Congiura del Silenzio”, realizzato da Rai Radio 1: https://www.raiplaysound.it/programmi/lacongiuradelsilenzio


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