

Nella “Guida vagabonda di Roma” di Marco Lodoli
“Sono già qui da sette giorni, e a poco a poco si precisa nel mio animo un’idea generale di questa città. La percorriamo in ogni senso con scrupolo; io mi familiarizzo con la topografia dell’antica e della nuova Roma, osservo rovine e edifizi, esploro questa e quest’altra villa, lentamente m’accosto alle maggiori bellezze e non faccio che aprire gli occhi e guardare, che andare e venire, giacché solo a Roma ci si può preparare a comprendere Roma” (W. Goethe, Viaggio in Italia).
La “Guida vagabonda di Roma” di Marco Lodoli non è una guida turistica. E’ semplicemente un modo diverso di vedere e vivere la città Caput Mundi, scoprendone la bellezza e la poesia non solo nei luoghi segnalati dagli itinerari proposti dai “tour operators” ma, soprattutto, in spazi (isole) che quasi si nascondono per non essere cancellati e che possono essere quadri o alberi, libri o angoli in penombra, statue o fontanelle, giardini e piazzette periferiche che, immote come il sole di Copernico, governano il disordine poetico di un piccolo quartiere.
Ci sono libri che vorrei avere scritto io, per il semplice motivo che parlano di me, non solo in quanto lettore ma, soprattutto, in quanto protagonista o soggetto dell’opera. Sono quei libri che descrivono emozioni, passioni, eventi, incontri, improvvisi trasalimenti, intermittenze del cuore, stupori, odi e amori di cui è piena la mia ormai confusa e intricata umana vicenda. In mezzo a questo caos esistenziale non vi è dubbio che un aspetto di rilevante portata è costituito dal rapporto che mi lega alla città, che non è solo spazio fisico climatico e toponomastico ma, in misura ancora più determinante, un reticolo temporale, un labirinto di esperienze quasi illimitato ed inestricabile. Uno di questi libri è “Isole” di Marco Lodoli, con sottotitolo “Guida vagabonda di Roma”, da me letto l’estate appena trascorsa. Per capire la natura di quest’opera, e soprattutto lo strano incantamento da me provato nello sfogliarne le pagine, mi sembra opportuno riportarne un passo che considero essenziale: “Le intricate vie che abbracciano l’isola di quest’oggi recano sulle loro targhe i fantasiosi nomi di comandanti di ventura o di astronomi e geografi: Fanfulla da Lodi, Brancaleone, Romanello da Forlì, Braccio da Montone e poi Cosmo Egiziano, Pomponio Mela, Strabone. L’immaginazione rincorre le remote gesta di chi, con le armi in pugno o con la curiosità negli occhi, provò a ridisegnare le mappe del mondo, tracciando nuovi confini o spostando le stelle. E’ il movimento eterno della vita che al Pigneto si racconta, l’insoddisfazione di chi non volle accettare le cose per come si presentavano, ma cercò di modellarle seguendo la propria ansia e la propria inventiva. Ma come in ogni trottola colorata è il punto centrale, perfettamente fermo, a sostenere i mille giri e l’inquietudine infinita del moto, così il disordine poetico di questo piccolo quartiere romano è retto da una piazzetta che pare fuori dal tempo. Si tratta della piazza dedicata a Copernico, colui che mise il sole al centro del nostro sistema planetario. E’ uno spazio che sarebbe piaciuto a De Chirico e ai pittori metafisici per la potenza che il vuoto costruisce attorno al pieno dell’unica casa posata nel mezzo. Ci capito ogni volta arrivando dalla Casilina, e ogni volta il mio sguardo è già preparato a quel quadro novecentesco da un annuncio che lo precede di un minuto: sulla sinistra mi sorprende un negozio che vende manichini, uomini donne e bambini fissati per sempre in una posizione, come orologi fermi. Potrebbero essere loro gli abitanti dell’edificio squadrato dalla luce e dall’ombra di piazza Copernico, metà casa e metà castello, dove persino la bandierina di ferro issata sul tetto è consacrata all’immobilità e anche i lenzuoli stesi sulla terrazza paiono indifferenti al vento …”. Ecco come le parole di Lodoli, riferite ad un luogo caro alla mia immaginazione e al legame che mi stringe al territorio a me familiare, sembrano partorite dalle analoghe impressioni suscitate in me dalle innumerevoli occasioni in cui mi sono trovato a passare nella stessa piazzetta. Avrete capito, a questo punto, che l’opera di Lodoli non è un romanzo, e neanche un saggio storico-filosofico, ma una guida molto speciale alla città Capitale d’Italia e Caput Mundi. Una guida che è anche un modo diverso di rapportarsi alla città che tanto generosamente ci ospita, scoprendone la bellezza e la poesia non solo nei luoghi segnalati dai dépliants riccamente illustrati offerti dai “tour operators”, ma soprattutto in spazi (isole, appunto) che quasi si nascondono per non essere cancellati: quadri, alberi, angoli in penombra, statue, fontanelle, giardini e piazzette periferiche, ristoranti dove si gustano piatti che fanno parte integrante della cucina tradizionale, come gli gnocchi che una piccola trattoria, sempre al Pigneto, prepara per i suoi clienti la sera del giovedì e nella quale, una sera d’inverno di due anni fa, incontrai casualmente l’autore dell’opera proposta. “Bisogna perdersi un poco nei vicoli del quartiere, domandare a qualche passante che sa e non sa, imboccare un paio di vie contromano, ma alla fine si arriva davanti ad un giardinetto che è un vero hortus conclusus, un luogo che pare magicamente separato dalle angosce della vita. Al centro del giardino cresce un albero del Paradiso, e sui dieci tavoli scalcagnati che gli stanno intorno fumano grandiose porzioni di gnocchi con il sugo delle spuntature … C’è un clima affettuoso, antico, cordiale: si parla da tavolo a tavolo, degli gnocchi e di tutto, si ride come bambini, perché la vita a volte è bella, se mamma ha fatto gli gnocchi”. Per chi è interessato, non è difficile arrivare all’hortus conclusus di Lodoli: dalla Casilina imboccare via Zenodossio, superare via Dulceri percorrendo fino in fondo via Isidoro di Carace, svoltare a sinistra e ci si trova di fronte la trattoria in questione.
Marco Lodoli, Isole, Einaudi, Torino 2005
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