“Suite francese” e “Ritorno alla vita”: dalla tragicità della storia al dramma intimo e familiare

Due bei film a confronto: uno sulla Francia occupata dai tedeschi nel 1940, tratto da un romanzo incompiuto; l’altro è l’ultimo film dell’autore de “Il cielo sopra Berlino”: l’ennesimo capolavoro

Due film che sento il dovere di consigliare, soprattutto ai giovani che vogliono riflettere sui grandi temi della storia e della vita delle persone comuni alle prese con le conseguenze drammatiche determinate dal caso.

suite_francese.jg_Mi riferisco in primo luogo a “Suite francese” del quasi ignoto britannico Saul Dibb, affermatosi in una lunga e onesta carriera di sceneggiatore di film altrui e di serie televisive e che, con quest’opera tratta dal capolavoro letterario della scrittrice franco-ucraina Irène Némirovsky (1903-1942, deportata e uccisa ad Auschwitz), mostra la sua raggiunta maturità di regista di ottimo livello e di squisita sensibilità. A fare da sfondo alla vicenda narrata è la grande e insanguinata storia del XX secolo, in particolare la seconda guerra mondiale subito dopo il blitz-krieg e il rovinoso il crollo della Francia del giugno 1940, seguiti dall’occupazione militare e dalla spartizione del Paese in due zone distinte: la zona nord e atlantica amministrata dai tedeschi; la zona centro-meridionale affidata al governo collaborazionista di Vichy. Si trova nella zona nord il paesino nel quale è ambientato il racconto; un reggimento della Wehrmacht vi si è acquartierato, ovviamente a spese e nelle case dei francesi residenti, molti dei quali contadini anziani e (a causa della forzata assenza dei giovani richiamati alle armi, la maggior parte dei quali prigionieri nei campi germanici) donne e bambini. Apparentemente la situazione è tranquilla, i rapporti tra vincitori e vinti si muovono sulla base della correttezza e dell’educazione. Ma, come tutte le situazioni di forzata convivenza, una sorda reciproca ostilità cova sotto la cenere; un’ostilità e un rancore alimentati da certe ambigue relazioni e da oscuri legami che, qui e là, si vanno ad instaurare tra alcune giovani donne del villaggio e aitanti rappresentanti dell’esercito invasore, il cui animo è diviso e tormentato da due opposti sentimenti: l’orgoglio del vincitore da una parte, la malinconica nostalgia e della patria e della famiglia lontana dall’altra. La più emblematica di queste relazioni è quella tra la giovane signora Lucille Angellier, una giovane e istruita borghese il cui marito è prigioniero in Germania, e il tenente Bruno von Falck, di estrazione aristocratica, colto e ben educato, amante della musica e dell’arte. E’ bene non anticipare alcunché sullo sviluppo di questo intricato rapporto, che costituisce il tema centrale e la cifra del film: i sentimenti contrastanti, l’amore e l’odio, l’attrazione e la repulsione, la fedeltà coniugale e la pulsione sensuale, nonché l’inevitabile incontro-scontro di due solitudini, compongono quell’angoscioso groviglio dal quale non è possibile né lecito attendersi soluzioni di tipo consolatorio. Infine, a coloro che amano la ricerca dei sottili legami tra la parola scritta e le immagini cinematografiche, consiglio la lettura dell’incompiuto e omonimo romanzo da cui è tratto il film di Saul Dibb, romanzo rimasto inedito per più di sessanta anni e poi pubblicato nel 2004, ottenendo un enorme e planetario successo di critica e di pubblico: Irène Némirovsky, Suite francese, Ed. Feltrinelli, Milano 2014.

WIM-WENDERS-RITORNO-ALLA-VITA-dal-24-settembre-al-cinema-995x1024Il secondo film da non mancare assolutamente è l’ultimo di un grande regista, a me molto caro: il tedesco Wim Wenders, autore di numerosi capolavori quali “Paris, Texas” (1984), “Il cielo sopra Berlino” (1987), “Così lontano, così vicino” (1993), “Lisbon Story” (1994), “Buena Vista Social Club”(1999), e tanti altri. Questo “Ritorno alla vita”, del 2015, rappresenta un vero e proprio “ritorno” all’arte cinematografica, anzi alla grande Arte del racconto; un’arte che non tiene conto affatto dei mezzi, padroneggiandoli tutti con grande maestria. Non a caso protagonista del film è un giovane e promettente scrittore di romanzi che, respingendo ogni tipo di condizionamento esterno (familiare, sociale, economico, ecc.) vuole dedicare l’intera sua esistenza alla scrittura. Seguiamo la vicenda umana e professionale di Thomas lungo dodici anni della sua carriera, profondamente segnati, nel bene e nel male, dall’iniziale incidente automobilistico con il quale provoca, involontariamente, la morte di un bambino di tre anni (Nicolas). Dall’incidente si salva il fratellino, Christopher, di cinque anni. Quel tragico evento giocherà un ruolo fondamentale tanto nella vita e nell’arte di Thomas, quanto nella crescita e nell’educazione di Christopher, anch’egli inesorabilmente attratto dalla letteratura. I due non potranno fare a meno di re-incontrarsi e di prendere atto del forte reciproco legame “generato” dalla precoce morte di Nicolas. Dalla morte nasce la vita, quella in fieri di Christopher, alla ricerca di solidi punti (estetici e morali) di riferimento, e quella artistica di Thomas che, dopo un tentativo di suicidio successivo all’incidente, riesce a comprendere pienamente il senso profondo del rapporto arte-vita e a riversarlo nei suoi libri. Non è soltanto l’insolita storia narrata, in questo film, ad attrarre lo spettatore, ma anche le straordinarie immagini di un paesaggio non situabile nello spazio, la voluta dilatazione dei tempi, le pause i silenzi e gli sguardi che, più delle parole (scarse in verità), si rivelano quali autentici strumenti di comunicazione e di conoscenza. Con “Ritorno alla vita” l’ormai ultrasettantenne Wenders torna a stupirci e a fare amare, ancora una volta, il grande cinema d’autore.


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