Categorie: Cronaca
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Un ricordo di Claudia Valerio

Non sa dire chi annota queste note

se mai gli giunse una così perfetta

vertigine…

…Forse una volta, in Cina…

S’era in attesa di un traghetto che riportasse

all’altra riva. Il molo degli imbarchi imitava

una nave: era una nave immobile di marmo. Allora

sorridesti e fingendo di partire con la mano

facesti un cenno di saluto. Il lago e il cielo erano

una lastra uguale attonita d’argento.

(da Archivi dell’occhio, Zone editrice, 2008) 

Il funerale di Claudia Valerio, morta il 15 ottobre 2023, c’è stato il 18 ottobre, davvero solenne, indimenticabile certo per la partecipazione di tutto un gran pubblico di parenti ed amici. Il che giova, sì, ad attenuare in qualche modo il dolore. Ecco: non mi sono sentito tanto solo in questo mondo. Finita la cerimonia religiosa, abbiamo detto due parole, mio figlio Igor ed io: io in verità,  mi sono limitato a leggere uno scritto di Claudia, che ricordava il centenario della Scuola Magistrale “Margherita di Savoia”, dove lei, mia moglie, era stata insegnante per più di vent’anni e sua madre, per uno strano caso della sorte, una generazione prima, vi era stata alunna. All’uscita dalla chiesa pioveva: e anche quello mi sembrò un pianto, ma quasi consolante. Perché ci vidi, in fondo, la partecipazione della Natura.

E qui ancora cercherò di rievocarla in qualche modo, la mia Claudietta: cominciando dai tempi dell’università e del nostro primo incontro. (Naturalmente, detto tra parentesi, mi sarà difficile non parlare anche di me. Cercherò di restare, per quanto possibile, dietro le quinte: ma certo, data la situazione, non posso sparire del tutto e il lettore mi perdonerà).  

Quasi una favola, all’inizio. Eravamo a Trieste, dove io ero nato. Lei veniva dal vicino Friuli. Ci eravamo incontrati, per puro caso, una mattina, uscendo dalla segreteria dell’Università Nuova: quella grande, maestosa, che stava lassù in collina. Niente, certo, di simile alle brutte aule, vecchie e banali della nostra Facoltà di Lettere, che invece stava laggiù in riva al mare: dove il palazzo più bello era, sì, quello della pescheria (prima che trasfigurassero anche quello). Eravamo colleghi di studio: non era certo la prima volta che ci scambiavamo la parola. Ma qui ci fu quel qualcosa di più che determinò il resto della nostra vita.

È chiaro che una certa affinità ci veniva anche dalla scelta di studi che avevamo alle spalle: tutti e due avevamo scelto la tesi in greco e quindi non c’era scampo: dovevamo vedercela con la stessa professoressa. In segreteria eravamo andati a prendere informazioni sulle nostre tesi di laurea. La mia era pronta, per la verità: mancavano solo le citazioni in greco antico, che di solito si scrivevano a mano con l’aiuto di qualche collega. Ci si metteva tutti lungo un tavolo, cinque o sei quanti dovevano essere gli scribi, e si definiva questa faccenda. Il problema principale era certo la insigne professoressa Luigia Achillea Stella, il cui solo nome, di maestosa classicità, metteva già qualche brivido. E chi ve l’aveva fatta fare, quella scelta, penserà qualcuno. Certo anche una questione di tempi. In quella materia lì, ce n’erano pochi che avevano quel coraggio. E poi, a saperle, le cose, si finiva sicuro nell’insegnamento: che probabilmente avevamo già in mente. Insomma io lì quella volta che cosa dissi alla Claudietta? Accennai certo alla seccatura di cercare qualche amico disposto a fare da scrivano per quelle aggiunte in greco. E subito vidi una manina che evidentemente si offriva a quella mansione. E questo certo voleva dire che mi aveva guardato, anche prima di quella mattina, e che non le ero dispiaciuto. Il resto venne da solo, per volontà del destino o della primavera. Chissà. Scendemmo a braccetto la lunga scalinata, presto arrivammo laggiù al Giardino Pubblico, vicino a casa mia, non lontano da dove stava lei, ospite ormai da tempo della famiglia di un’amica. E come negarglielo, un posto, carina com’era? Entrammo nel Giardino e ci sedemmo di fronte a un laghetto. Sulla panchina lei scorse un giornale, forse dimenticato da qualcuno: rapida come un fulmine ne staccò una pagina, piega su piega ne cavò una barchetta, proprio come quelle che si fanno ai bambini, la pose nel laghetto. La vedi come fila? Andiamo. E dove andiamo? Chissà. Uscimmo dal giardino. Probabilmente ci scappò il primo bacetto.

Il caso volle che io mi laureassi prima di lei. Ero riuscito a concludere in giugno con la discussione della mia tesi. Con il massimo dei voti e lode. Forse ebbi la fortuna che, essendo il mio lavoro più di storia che di letteratura, la prima parte toccò al professore di storia, più competente e certo più bonario. Claudietta s’impantanò qualche mese in più, perché la Stella aveva messo il becco sulle sue scelte e le impose non so quali cambiamenti. Ad ogni modo, a rileggere oggi il suo lavoro su Luciano di Samosata, comico siriaco del primo secolo dopo Cristo, autore tutt’altro che facile, a me sembrò, e sembra tuttora, un ottimo lavoro. In pratica ci perse un anno e – nonostante gli eccellenti risultati dei suoi esami precedenti – ebbe sì il massimo dei voti, ma non la lode.

Io intanto avevo avuto il tempo e il modo di trovare un impiego. Tra le tante domande che avevo spedito alle varie scuole mi arrivò una risposta: Agordo nel bellunese: Istituto Minerario Follador. Mi sembrava una cosa fuori dal mondo. Quei nomi non li avevo mai sentiti. Mio fratello mi prestò quattro soldi, giusto per la corriera. Arrivato lassù, mi guardai intorno. Il paesaggio non mi parve male. Per dormire trovai l’Albergo Roma. L‘albergo, ora un po’ acciaccato, era stato di lusso. Le cameriere mi guardarono con un occhio di riguardo. L’Istituto Minerario era lassù, su una collinetta, non certo vicinissimo, un bel caseggiato che spiccava sul verde dei prati. Mi presentai in segreteria, mi diedero le istruzioni del caso, col sorriso sulle labbra. Un triestino gli andava bene. Lassù purtroppo erano i meridionali che non gli andavano a genio. E mi parve di capire che il posto che mi davano era stato fino all’anno prima di un meridionale. In quel momento io certo non ci feci caso. Mi incontrai col preside: un tipo piuttosto anziano, di poche parole, ma molto corretto. In pratica a me spettava il triennio delle classi superiori. Non uno scherzo. Mi impegnavano mattina e pomeriggio. Certo non mi restava il tempo neanche di consultare un libro. Le mie materie erano italiano e storia. Cominciai a far lezione con quel che avevo in testa. La memoria, quella volta, ce l’avevo buona. I ragazzi mi guardavano un po’ straniti. Quelli delle ultime classi sembravano uomini fatti, grandi e grossi anche di statura: mi ascoltavano, ma di tutto quel che dicevo, parevano assai poco interessati. Ohibò, quello era un liceo tecnico e minerario. Ci feci il callo. Umanamente, bene o male ci si mise d’accordo. La mattina, quando scendevo dalla mia stanza, al bar chiedevo giusto un caffè e qualcosa da metter sotto i denti. Io tutto incappottato col berretto in testa. Dalla porta entravano figuri mezzi nudi: venivano dalla panetteria lì accanto. Ci si salutava. Ma mi venivano i brividi solo a vederli. Poi, giorno per giorno, incontrai persone, nacquero anche amicizie simpatiche. Con un mantovano per esempio, che studiava oculistica, ma non ho mai capito perché veniva a far pratica lassù. Un altro, ancora un ragazzo, simpatico e chiacchierone, tornava dal collegio, mi fece conoscere la sua famiglia. Era figlio di un medico e di fratelli e sorelle ce n’era un nugolo. All’ora di pranzo andavo alla Pensione Lise. Non era un ristorante ufficiale, ma una casa privata: e ci ritrovavo un sacco di colleghi, di tutte le scuole: ci trattavano bene e a costi decenti. E lì incontrai anche quel Guadagnino, che veniva dalla Sicilia e si era portato dietro anche la sorella: quello di cui avevo ereditato il posto al Minerario. Ma non ce l’aveva con me: anzi mi trattò da amico, e anche la sorella non restava indietro: insegnante anche lei. Una volta mi portò dove abitavano. Anzi mi rivendette a metà prezzo una collana di libri: la cosiddetta “carducciana”, una serie di classici italiani da Carducci progettata e messa insieme. Io gliela comprai a rate, con l’intenzione di regalarli proprio alla Claudietta. Che non abbiamo certo perso di vista. Anzi, l’anno dopo la feci venire lassù: le avevo trovato un posto proprio all’Istituto Minerario: io me ne andavo alle Medie e al posto mio, sì, fece ritorno Guadagnino. Pareva tutto risolto. Con Claudia trovammo un appartamentino – in realtà una camera con bagno e cucina. Non male, a parte un cane, dietro qualche parete, che abbaiava sempre e non smetteva mai. E qui saltò fuori anche la mamma di Claudia: che la mandava sì, la figlia, a lavorare, ma ci voleva il matrimonio, perché altrimenti non poteva lasciarla. Pensammo allora di sfruttare la settimana delle ferie natalizie, per non crear fastidi alle rispettive scuole. Scendemmo allora a Osoppo per sposarci: faceva un freddo cane anche lì. La famiglia di lei un po’ in agitazione: ma ognuno fece la sua parte. Certo Claudietta, tutta vestita di bianco, era quella che più soffriva il freddo. Mio padre arrivò da Trieste con un pulmino noleggiato apposta per i numerosi parenti della parte mia. Mio fratello arrivò con la moglie da Milano. Aveva portato la sua macchina fotografica: ma il freddo gli aveva gelato perfino la pellicola. Meno male che c’è un fotografo ufficiale. Peggio che andar di notte. Anche lui senza pellicola. E infatti, di quel matrimonio lì, non c’è una foto. Il parroco ci mise del suo, di buonumore: quando io entrai in chiesa a braccetto con mia mamma – secondo l’usanza la sposa seguiva con suo padre – ci fermò chiedendoci: e voi, che venite a fare? Sarei venuto a sposarmi – io dissi. Forse eravamo un po’ in anticipo, chissà, o lui se n’era proprio dimenticato. Insomma non ci fu neanche un sorriso. Forse, alla fine, una benedizione. Anche i parenti, già infreddoliti per il clima, ché dentro la chiesa faceva forse più freddo che fuori, si consolarono un po’ quando i genitori di Claudia li portarono nel caldo di un ristorante, in un paesetto là vicino. E allora l’allegria prevalse. Comunque i due sposini si fecero un viaggetto rapidissimo tra Bologna e Firenze: e qui le fotografie non mancarono. Io ne ho trovate tante carinissime, ma tutte di lei: perché, qui non c’è dubbio, la macchinetta in mano ce l’avevo io. Di piccolo formato, come usava quella volta. Ma fatte ingrandire, il suo musetto vien fuori bellissimo. E adesso me ne sono proprio consolato. Comunque i due sposini tornarono ben presto ad Agordo, alle loro scuole rispettive. Io alle Medie, perché al Minerario era tornato il Guadagnino. Ma qui scoppiò anche la tragedia. Il Guadagnino aveva fatto denuncia alla Questura: un paio di ingegneri, mariti delle segretarie della Scuola, invece di insegnare si facevano bellamente i fatti loro, in Oriente, chissà dove.  A quel punto, chissà quanto consapevole della cosa, il preside non resistette alla vergogna. Nel magazzino (non si dimentichi che si trattava sempre di una scuola mineraria) raccolse un pugnetto di dinamite e, tornato a casa, si infilò dentro il bagno, e si fece saltare in aria.                                                                                                                 

Dopo quella spaventosa esperienza tornammo a valle prima possibile. Una prima tappa a Pordenone: per me fu un’esperienza simpatica. Ancora oggi mi vengono incontro gli ex alunni di quel liceo scientifico. Mia moglie in altra scuola: all’inizio si adattò a un istituto tecnico, ma un paio d’anni dopo ritrovò una scuola magistrale: che, certamente, le era più consona.

E qui ci fu anche la prima gravidanza. L’avevamo portata qualche chilometro più a nord, nell’Ospedale dove lavorava un bravo ginecologo, marito appunto di una sua collega. Al momento del parto io ero lassù con una delle sue sorelle, venuta apposta da Osoppo. Qualche problema c’era: e anche qualche difficoltà. Ma le infermiere di turno volevano far da sole per non disturbare il medico e si perdette del tempo. Quando il medico intervenne, con un taglietto risolse il problema: ma madre e bambino ne avevano un po’ risentito. Era un maschietto bellissimo, ma lo trattennero in ospedale più di una settimana. Quando lo portammo a casa, la madre era stanchissima: si mise a letto e vi si addormentò. E io rimasi con quella creaturina in braccio: era tutto nudo. Io lo guardavo e me lo stringevo addosso, lo avvolsi in un fagottino, ma non sapevo che fare. Alla fine lo misi nel lettino. Ma non so se riuscii a dormire  quella notte.

La madre ritrovò d’istinto nella sua femminilità il proprio mestiere. Al bambino accudiva lei con sufficiente abilità. E anche dopo io guardavo come intimidito l’energia con cui lei lo maneggiava, lo lavava nel bagnetto, magari riusciva a fargli anche un’iniezione propinata dal medico su quel sederino. Poi ci fu qualche problema quando andammo a Osoppo: la madre di Claudia, diciamo la nonna, perché questo era (e aveva avuto tre figlie per cui io mi fidavo ciecamente) tutta contenta portò in casa un latte freschissimo, appena munto in una stalla lì vicina. Ma il latte era sì buono, ma troppo grasso per un bambino così. E dovemmo andare dal medico: che ci fece sospendere l’allattamento. Dategli un’altra cosa, magari un po’ di tè. Ma non ci disse per quanto tempo. Sicché noi, nella nostra ignoranza, lo tenemmo a dieta così, almeno per un mese. In estate lo portammo anche al mare: per fortuna lì incontrammo un’amica di Claudia, sposata con un francese. Che era medico. Quando seppe di quella faccenda si mise a ridere ma anche ci rimproverò. Ma dategli il latte, adesso è più cresciuto e può prenderlo tranquillamente. E almeno quel problema lì fu superato. Ma quanti altri ne restavano? Dovevamo tornare a scuola, a Pordenone. Il preside della mia scuola, che era zaratino come mio padre, ci venne a trovare a casa con la moglie, portandoci un regalino. E qui, dopo qualche mese, ci venne a trovare anche mia madre da Trieste. Ma non stava bene. La feci visitare dallo stesso medico amico che aveva fatto nascere il bambino. Ma qui la sentenza fu piuttosto amara: un brutto tumore. Mia madre, in fondo ancora giovane, dopo la guerra e tre figli che aveva messi al mondo, ci stava lasciando. All’ospedale di Trieste resistette ancora un paio d’anni. Noi ci eravamo appena trasferiti a Udine, ma solo per la scuola. Almeno per un mese dovevamo lasciare il bambino da un’amica e poi fare l’andirivieni giorno per giorno. Io ero a scuola una mattina quando mi giunse il messaggio di mio padre: la mamma ci sta lasciando. Fu come fare il giro del mondo con la nostra Cinquecento – appena comprata a rate, si capisce – : andammo a riprendere il bambino, che ogni mattina a Pordenone dovevamo affidare ad una amica, portarlo a Osoppo per affidarlo ai genitori di Claudia, e poi discendere fino a Trieste. Ci arrivammo col buio della sera. Ma all’ospedale mia madre non ce la trovavamo: l’avevano messa in un orribile sotterraneo, invisibile per il momento. Anche per Claudia fu un colpo durissimo: mia mamma la trattava davvero come una figlia e lei come una madre la sentiva. E di Claudia noi dobbiamo parlare.

Eravamo a Udine da almeno cinque anni: io al Liceo Stellini, lei in una scuola magistrale, il bambino era all’asilo. Ma a casa avevamo trovato una brava ragazza, che dormiva da noi e di giorno sorvegliava il piccolo con buona grazia. Ormai il bambino – Luca l’avevamo chiamato (lassù quella volta pareva un nome originale!) aveva cominciato la scuola elementare: ci aveva fatto il primo anno. Ma a noi, quella vita di Udine ci pareva troppo monotona. Anche se ormai, vicini al ’69, il mondo tutto pareva in ebollizione: erano gli anni drammatici delle brigate rosse, poi culminati nel rapimento e nell’assassinio di Moro. Mia moglie insisteva per Roma: lì c’erano ancora i suoi parenti materni: la nonna più una famigliona di zie e un maschio solo, marito di una zia, e comunque se le teneva in casa tutte quante. Mio padre, rimasto vedovo, si era sistemato a Udine per stare con noi, ma in realtà, dato il suo carattere d’artista (era un buon pittore e almeno a Trieste cominciavano a stimarlo) andava su giù col treno continuamente. Ritornato a Trieste vi trovò la compagnia di una vecchia amica, che anche mia mamma conosceva e stimava, vedova anche lei e con un solo figlio. Rimase con lei e infine la sposò. Ma anche quella storia si concluse troppo presto. Perché mio padre dopo qualche anno anche lui ci lasciò. Noi a Roma c’eravamo andati.  Ci avevamo trovato un caos allucinante: per fortuna ci abitava già da tempo il mio fratello maggiore. Già sposato con figli, ingegnere, stava lì da qualche anno: disegnava di suo bellissime case, ma, come nuovo venuto, doveva badare suo malgrado a quelle costruite da altri. Comunque fu lui a trovarci l’appartamento in cui abbiamo abitato per il resto della nostra vita. Prima in affitto, poi, quando le Assicurazioni Generali se ne andarono e vendevano tutto, comprammo a rate, ma, considerati i nostri stipendi, con grande fatica. A Roma ricominciammo la nostra carriera di insegnanti: io al Liceo Manara, che era nel quartiere, ma, come nuovo venuto, fui mandato in una succursale almeno per un paio d’anni. Era un periodo di grande pressione demografica e anche le scuole si riempivano assai rapidamente. Poi fui ammesso alla centrale, e a dire il vero, sempre colleghi e alunni mi accolsero, bontà loro, con generosità. Col tempo diventai vicepreside e anche per qualche tempo preside facente funzione. Tentammo anche, mia moglie ed io, il concorso da preside. Io la spuntai. Però, per trovare un posto, sarei dovuto andare chissà dove: avevo anche pensato alla Sardegna. Ma chissà per quanto tempo avrei dovuto lasciare la famiglia. Così rinunciai.

Feci altri esami che ricordo appena. Vinsi anche il “merito distinto”, così si chiamava. Ma lo stipendio, più o meno, restava sempre quello, e comunque io preferivo fare l’insegnante e stare con gli alunni: che in genere mi volevano bene e, quando si avvicinavano alla maturità, sempre di più. Addirittura una volta, verso la fine della mia attività, ebbi ospite tutta una classe in quel di Gavorrano, la campagna che appunto, quella volta, avevo comprato. Arrivarono lassù alla spicciolata, qualcuno in macchina, altri col treno. Quella volta, a darmi una mano, c’era anche il mio collega di storia e filosofia, che, visto il mio esempio, si era comprato anche lui, con non poca fatica, un casolare da quelle parti: e ancora oggi, salute permettendo, ci si ritrova insieme tutti quanti: insomma, almeno i sopravvissuti. Claudietta, come sappiamo, aveva ritrovato persino la scuola di sua madre: e lì rimase, da tutti benvoluta, sino alla fine della carriera, al Margherita di Savoia. Ma a quel punto, libera dai problemi scolastici, il suo mondo diventava sempre più quello dei cenacoli e dei circoli culturali. Dopo aver fatto di tutto per aiutarmi a comperare quel pezzo di campagna che avevamo conosciuto proprio grazie all’amica che lassù ci abitava e dove ci aveva invitati tante volte, quando i figli erano ancora giovani o addirittura bambini, appena possibile preferì rimanere a Roma; ormai nota e addirittura contesa nell’ambiente letterario, e spesso richiesta di tenere presentazioni di questa o quella delle tante amiche scrittrici e poetesse. Lei non diceva mai di no e poi ci lavorava con pazienza e fervore. Questa era diventata ormai la sua vita, e non ci poteva rinunciare. Peccato per me, che presenziavo spesso alle sue conferenze, ma poi ritornavo alla mia campagna: dove non facevo solo il contadino, ma scrivevo tanto, per me e per gli altri, ma tutto nella mia solitudine e nel mio silenzio. Fortuna che almeno riuscivo a coinvolgerla, almeno nella stagione buona, in qualche viaggetto che riuscivamo a fare: trascinando magari la roulotte che avevo comprato con fatica e non poche spese. Erano sempre cose di seconda mano, neanche a dire, e, per la verità, non era troppo facile guidare la macchina trascinando dietro quel cassone. Alla fine, la migliore che avevo trovato, me la rubarono qui intorno, dove abito ancora: posteggiata insieme con parecchie altre, perché quella volta doveva essere di moda. Mi agitai, feci denuncia alla Questura. Figurarsi, L’idea migliore venne alla fine dal mio amico Balzano. Lui era riuscito a comprare un furgoncino. In pratica, ormai con figli grandi che si arrangiavano da soli, alla fine eravamo ridotti a quattro adulti: in un paio di viaggi, ci facemmo più o meno tutta l’Europa, cosa in sé non tanto seria – perché a conoscere le cose con più criterio ce ne sarebbe voluto, di tempo, molto e molto di più. Questo era solo un assaggio. E in qualche caso tale rimase. Ma ecco che le differenze tra di noi venivano fuori: il mio amico guidava, perché la moglie solo di lui aveva fiducia, Io stavo accanto al guidatore. Noretta, l’amica, metteva a posto le sue cose, anche in preparazione dei pasti, mia moglie leggeva vicino al finestrino, E ogni tanto chiedeva: qui dove siamo?  E avuta una risposta, si rimetteva a leggere.  Poi se c’era da camminare, camminava pure, e guardava tutto con attenzione. Naturalmente, come al solito, si fidava degli altri, non domandava niente per sé, non litigava mai per nessun motivo. Nella stagione buona, l’avevo portata da tante parti in macchina. Armati di una tendina, come i boy-scouts, ci dormiva benissimo e non si lamentava nemmeno se veniva un acquazzone. Ma il suo regno restavano certo i circoli e i cenacoli di Roma. Lì la conoscevano tutti, ormai. Per tutti si prodigava. Quando gli amici, più spesso le amiche, le chiedevano una presentazione in pubblico, in una sala qualunque, lei non diceva mai di no, E si preparava con tenacia, magari si leggeva anche, se c’erano, le opere precedenti, di questo e di quella. E poi scriveva di suo pugno quel che doveva leggere. Di solito aveva calcolato il tempo giusto in dieci foglietti. Leggeva lei, con voce giusta, nei tempi giusti, né troppo lenta né troppo veloce. Purtroppo – e questa per me è stata una dolorosa scoperta – siccome non usava la macchina da scrivere e tanto meno, poi, il computer, tutto quello che mi resta è una montagna di foglietti, e tutti scritti a mano, quasi nulla è stampato. Ma, per continuare nella rassegna, c’erano altri particolari che non riuscivo a tollerare e mi mandavano in bestia. Nei direttivi di centri e associazioni, ce la mettevano pure, ma mai tra i dirigenti scansafatiche, piuttosto tra quelli che dovevano credere e combattere. Per esempio andare con la sua cinquecento in giro per Roma ad accogliere conferenzieri di rango. Non ci mandavano un taxi di piazza, più comodo certo e più accogliente. Ci mandavano lei, naturalmente gratis et amore. Persino la benzina se la pagava lei. Ma per queste cose non protestava mai. E il tempo intanto passava e correva. Nel ’74 morì mio suocero, il padre di Claudia. Era stato in guerra e ne aveva viste di tutti i colori: alla fine era caduto in mano ai degollisti che l’avevano tenuto prigioniero. Quando tornò a casa era assai amareggiato. Eppure non era finita. Dovette subire due processi: una da parte dei tedeschi, più tardi da parte dei partigiani: accusato due volte per la stessa colpa: aveva cercato di sottrarre a mali peggiori alcuni paesani che erano accusati di essersi imboscati dal sevizio militare per salvare la pelle. E due volte fu assolto. Ma della guerra poi non ne voleva nemmeno sentir parlare. Girava per il paese naturalmente sempre ossequiato dai suoi paesani. Il guaio è che ogni incontro finiva poi per un eccesso di cordialità nell’osteria più vicina: e una ce n’era proprio di fronte a casa sua. E lì dipendeva dal numero dei paesani incontrati. Se c’erano sei o sette e ognuno pagava un bicchiere per tutti, l’allegria era ben presto assicurata. Lui, Giovanni Valerio era davvero una bella persona. In gioventù aveva fatto anche un po’ di teatro, e Claudia aveva certo preso qualcosa da lui anche in quel campo. Giovanni morì nel ’74: almeno in tempo per scansare il terremoto di due anni dopo. Fu una strage per tutto il Friuli: e Osoppo un disastro infinito: con molti morti e feriti. Claudietta ci andò di corsa per vedere la sua famiglia. Il suo paese era praticamente scomparso. Era rimasta in piedi giusto la chiesa, e qualche casa qua e là: ma tutto danneggiato. Da casa sua vigili e pompieri avevano tirato fuori sua madre quasi per miracolo. Poi la casa fu in qualche modo ricuperata. Ma la famiglia si ricostituì a Udine, lì vicino. E la madre ebbe il buon senso di comprarsi, anche a buon prezzo data la situazione, un bell’appartamento in una casa moderna, affacciata alla vista, lassù, delle montagne. E lì si trasferì, con l’unica figlia nubile che poi le restò sempre accanto.      

Claudietta tornò a Roma. I figli cresciuti: Luca, il bambino che abbiamo visto nascere, era all’università, a studiare legge, ma intanto aveva fatto il militare, ne era uscito col grado di tenente e prima ancora era stato in Africa, in un’azienda che costruiva strade: laggiù ne ebbe parecchie d’avventure. Ma io ero preoccupato soprattutto per il fatto che, mese per mese, doveva andare in giro in jeep, lui con un compagno, a portare gli stipendi a quanti erano gli impiegati della ditta, più o meno sparpagliati qua e là per quel deserto. L’altro figlio, Igor, più giovane di dieci anni, era arrivato anche lui al servizio militare. Io e Claudietta, un po’ schiavi delle nostre abitudini, eravamo uno di qua e l’altra di là: prevalentemente lei a Roma nella sua vita di società, io in Toscana, a Gavorrano, praticamente solo, che facevo un poco il contadino e un po’, diciamo, l’intellettuale, scrivevo come un matto e qualcosa anche pubblicavo. 

E qui, più o meno in quegli anni, io non so dire adesso una data precisa, ci fu il malaugurato incontro con quella ragazza – non farò certo il nome – che fu per mia moglie la causa remota del suo tramonto e della sua lunga, lunghissima malattia.

Io non so dire come e quando esattamente quella ragazza si presentò da lei la prima volta: non so chi l’aveva mandata, come sapeva l’indirizzo e la professione. Si descrisse come una ex alunna di quella famosa scuola, il Margherita di Savoia appunto. Io ancora voglio credere che molto fosse vero (né so dire ancora oggi – né altri, pare, abbiano veramente saputo – quando nacque in lei l’idea, il proposito di approfittare della generosa accoglienza che mia moglie le regalò). Il tragico sta appunto nella malvagità con cui quella ragazza trasformò un’amicizia in un pretesto per ingannarla. Era una persona che non parlava male e sembrava sveglia e intelligente. Anch’io, quando la conobbi, non ebbi assolutamente una cattiva impressione. Più dubbio era il suo mestiere: non so se fosse davvero un’esperta di cose bancarie. Certo lei propose alla professoressa di aiutarla a guadagnare un gruzzoletto puntando qualcosa in borsa. Più per curiosità probabilmente che per sete di denaro – mettiamoci anche qualcosa di friulano: l’idea che andava sempre bene qualche soldino in più per metterlo da parte – mia moglie ci cascò. Le prime puntate non andarono male. Ma la ragazza insisteva, e di volta in volta le faceva rimettere in gioco il gruzzoletto guadagnato. Mia moglie, evidentemente non sapeva come reagire. Io l’invitai alla prudenza. Le dissi che i nostri stipendi erano in conti separati e lei poteva decidere liberamente del suo: ma la pregai di stare attenta, di essere prudente. Ma lì per lì non intervenni e fu certo un errore. In realtà quella ragazza non mi dispiaceva per niente: dopo che aveva preso accordi con mia moglie, io mi intrattenevo con lei chiacchierando del più e del meno. E, a dire il vero, mi sembrava sveglia e piuttosto preparata su varie cose e non solo in faccende bancarie.

 Ma poi cominciai a dubitare e sospettai il peggio quando vidi che quella mirava ad altro: agenzie straniere, cose internazionali, nomi per me assolutamente ignoti. Ma mia moglie pareva totalmente succube. A un certo punto, con la scusa che si era sposata e che le era nato un bambino (e quella si, era cosa vera), cercò di sparire dalla scena. Io chiamai in aiuto i figli: che infatti capirono la situazione e non le dettero più requie. Con l’aiuto di un impiegato di banca, ricuperammo almeno la traccia degli assegni persi o intascati dalla stessa ragazza, che ci aveva messo il suo nome. Insomma un disastro, che denunciammo alla questura. Ma passarono anni perché la questura facesse qualcosa. E altri anni perché si arrivasse a un processo. Ci si mise anche un caso sinistro. La giudice che stava istruendo il processo ebbe un incidente grave in un ascensore staccatosi dalle funi. Il processo, finito a brandelli, consegnato negli anni a giudici diversi non è ancora finito, l’ultima sentenza non è stata ancora pronunciata. L’imputata non s’è mai presentata in tribunale e ha mandato avanti solo il suo avvocato. E la cosa, per quel che mi consta, è stata tollerata. Mentre mia moglie, prima per la malattia e poi per la morte non è mai stata chiamata in causa. In tribunale c’erano solo i figli, che il Cielo li rimeriti. E questa sarebbe la giustizia nella Repubblica italiana?  

Purtroppo la malattia si aggravò e fu necessario portare Claudia presso la RSA di Santa Marinella, dove ha trascorso un ultimo anno un po’ più sereno, nonostante le sue condizioni mentali peggiorassero giorno per giorno: fino alle complicazioni intervenute nell’ultimo periodo che l’hanno condotta al  ricovero nell’Ospedale di Civitavecchia. Dove si è spenta dopo una lunga degenza ormai priva di parola.

E io qui resto, vicinissimo ai miei novant’anni con il vuoto incolmabile che lei mi ha lasciato: perché proprio la sua malattia me l’aveva resa ancora più cara, ancora più vicina, ancora più insostituibile. Da una parte, certo, la pietas di assistere giorno per giorno a quel declino, ma forse anche il rimorso di non aver saputo stare con lei anche in quei salotti, che lei amava svisceratamente e io non potevo sopportare.


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