A vent’anni dal G8 di Genova e dalla tragica morte di Carlo Giuliani
Rincorrere il vento, un romanzo-reportage di Gianluca Peciola per non dimenticare una delle pagine più buie della nostra storia“Questo è dunque lo stato originario, il predominio del più forte, della violenza bruta o sostenuta dall’intelligenza. Sappiamo che questo regime è stato mutato nel corso dell’evoluzione, che una strada condusse dalla violenza al diritto, ma quale? … quella che passava per l’accertamento che la più grande forza dell’uno poteva essere compensata dall’unione di più deboli. La violenza viene spezzata dall’unione di molti, la potenza di coloro che si sono uniti rappresenta ora il diritto in opposizione alla violenza del singolo” (S. Freud, dalla lettera ad A. Einstein del settembre 1932).
“La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa alcuna forma di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi previsti dalla legge … E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà” (Costituzione italiana, art. 13). “I cittadini hanno il diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi” (Costituzione italiana, art. 17).
Bello e utile questo breve romanzo (o lungo racconto) di Gianluca Peciola, dal titolo Rincorrere il vento, edito da una piccolissima e militante casa editrice, L’Incisiva di Roma.
La sua pubblicazione (le pagine sono ancora fresche di stampa, essendo uscite dalla tipografia da pochissimi giorni) giunge a vent’anni di distanza dagli eventi narrati, intendo quelli verificatisi a Genova in occasione di uno di quei summit internazionali (G7, G8, G20) nei quali i Grandi della Terra prendono decisioni, o fanno finta di prenderle, che riguardano il destino dell’umanità.
In quei giorni, 19-22 luglio 2001, accaddero fatti che molti, in seguito, avrebbero preferito abbandonare all’oblio pubblico e privato, fatti che ancora gridano vendetta al cielo, fatti sui quali la strada della verità ha sì registrato grandi passi in avanti, ma sui quali la giustizia (quella dei giudici e dei Tribunali penali) non ha voluto, o potuto, procedere con quel rigore e con quell’imparzialità e severità che da essa ci si attende, soprattutto in un Paese di diritto e democratico quale l’Italia spesso si vanta di essere. In quelle tristissime giornate di un luglio caldissimo e lontano si scrisse (con parole che rimangono macchiate da sangue giovane e innocente, e da mutilazioni e sofferenze incancellabili per chi le ha subite) una delle pagine più oscure della nostra storia repubblicana.
L’assassinio di Carlo Giuliani e la “mattanza notturna” o “macelleria messicana” consumata all’interno della scuola Diaz (in realtà la scuola Pertini, plesso del complesso scolastico Diaz) e della caserma di Bolzaneto, rimangono come immedicabili ferite nel corpo vivo di una nazione che, nonostante si sia dotata di una Costituzione tra le più avanzate del mondo, ha dovuto assistere, a partire dai giorni e dai mesi successivi alla nascita della Repubblica, a inquietanti e pericolosi rigurgiti di fascismo e ad episodi che più volte hanno messo a rischio la tenuta delle Istituzioni democratiche e delle libertà costituzionalmente garantite.
Per i casi accaduti nel 2001 a Genova è sufficiente riportare quanto dichiarato all’unanimità, in una sua sentenza, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo il 7 aprile del 2015; in quella dichiarazione si diceva apertamente che erano stati commessi “atti di tortura e applicati trattamenti inumani e degradanti” ai danni di inermi cittadini; da parte sua Amnesty International, nella sua relazione sugli stessi eventi, affermò che si era trattato “di una violazione dei diritti umani di proporzioni mai viste in Europa nella storia recente”. Ma, in questa sede, non voglio in alcun modo ripercorrere né la storia di quei tragici giorni di una torrida estate genovese di due decenni fa, né fare la sintesi delle conseguenze di quegli eventi a livello politico, sociale e giudiziario.
Non è questo il compito che ci si può aspettare da una rapida recensione libraria; tuttavia se essa contribuirà, sia pur in minima parte, ad una maggiore diffusione del romanzo-reportage di Gianluca Peciola e, attraverso di esso, a riaprire il dibattito sul reale significato e sulle straordinarie e negative conseguenze di quegli accadimenti, ebbene ci si potrà ritenere moderatamente soddisfatti. Ciò per quanto riguarda l’utilità di questo pregevole testo, così come si è detto nell’incipit.
Per quanto concerne, invece, la bellezza, debbo confessare, dopo aver letto in una sola mattinata il frutto (probabilmente molto sofferto, essendo l’autore uno dei reduci delle manifestazioni organizzate dal Global Forum dei numerosissimi movimenti e sigle che, in quel lontano 2001, si schierarono contro l’effettuazione del G8 nella città capoluogo della Liguria) dell’ottimo lavoro di Gianluca Peciola, di aver molto apprezzato la scelta dell’autore di non limitarsi ad una sia pur corretta e professionale ricostruzione giornalistica (il reportage), ma di aver voluto innestarla in un intreccio (il romanzo) e in un tessuto costituito da storie di giovani e di ragazze, di uomini e di donne, che hanno vissuto quelle tragiche giornate nelle loro anime e sui loro fragili corpi. Anime e corpi che, ancora oggi, nonostante l’inesorabile trascorrere del tempo e delle stagioni, rimangono profondamente segnati (se non “marchiati”) dalla cieca e insieme lucida e programmata violenza percepita, respirata, subita, e forse solo in parte “rielaborata”.
I protagonisti, a prima vista del tutto atipici e marginali, rispetto ad una convenzionale immagine di “normalità”, risultano invece individui in possesso di caratteristiche profondamente “umane” (nel senso migliore del termine): sono senz’altro spinti, nel loro “agire comunicativo”, da ideali e da valori universali (l’amore e la solidarietà nei confronti dei più deboli e bisognosi, la pace tra i popoli, l’attenzione e la cura verso tutti gli aspetti e gli elementi della natura, la capacità di resilienza e di opposizione nei confronti dei disegni scellerati e disumanizzanti posti in essere dalle super potenze economiche che, dopo il crollo del sistema sovietico, hanno decretato la vittoria definitiva del turbo-capitalismo e la conseguente fine della storia); ma, nella loro vita quotidiana, non possono fare a meno di occuparsi e di pre-occuparsi per cose che rappresentano fini e stimoli per i quali si muovono e si intrecciano i fili e le reti della “normalità”: il lavoro, lo studio, la casa, i rapporti con i familiari, le iniziative e le attività che ci legano alla comunità di quartiere, un futuro da costruire, le speranze per una vita migliore, i modi e le forme di una lotta che preservi e trasmetta una sembianza di umanità in una società che sembra invece organizzata in vista di un unico obiettivo: la trasformazione dell’individuo in una macchina produttiva e consumatrice.
E tra questi fragili ma “eroici” ed angosciati protagonisti (Giuliano, Luca, Mauro, Sergio, Tiziana, Marzia), un ruolo speciale lo assumono le donne, le ragazze come Paola, così coraggiosa, lucida e, insieme, amaramente consapevole – di fronte allo scatenarsi di una brutale e imprevista violenza proveniente da ambienti “istituzionali” – della illimitata disparità dei mezzi a disposizione; Paola che, per aver voluto “parlamentare” con un funzionario di polizia, viene proditoriamente colpita ed è costretta a rifugiarsi in uno scantinato. E qui, in questa situazione imprevista e che spazza via ogni pur ragionevole speranza di cambiare (con i valori e con la lotta) il “corso del mondo”, si misura lo sgomento, l’incertezza, il dubbio, l’angoscia e la paura della solitudine, di una giovane donna apparentemente forte e sicura di sé.
“Rimaniamo stretti l’uno all’altra, le chiedo come sta, la sua risposta mi arriva umida all’orecchio, è tutto più grande di noi, mi dice con voce di pianto” (p. 76). Paola, la ragazza che sognava, a margine e alla fine delle manifestazioni anti-G8, di far da guida ai suoi compagni sui luoghi genovesi resi celebri dalle canzoni di De André e che, al contrario, si è trovata a “rincorrere il vento” per sfuggire alla sorte toccata a centinaia di manifestanti vittime degli scontri e alla selvaggia “mattanza” consumata nella Diaz e nella caserma di Bolzaneto.
Un’ultima annotazione sullo stile: incalzante, secco, periodi brevi e incisivi, caratterizzato da rapidi passaggi temporali e da una dialettica incessante tra i giorni e le emozioni che precedono gli eventi e le giornate drammatiche e violente che si dispiegano implacabilmente tra il 19 e il 22 luglio 2001; uno stile che coinvolge il lettore quanto basta per far nascere in lui la sensazione di una narrazione “partecipata”, l’inconfessata consapevolezza di un “c’ero anch’io, in quei giorni, lì, a Genova, a rincorrere il vento”.
Gianluca PECIOLA, Rincorrere il vento, Genova 2001, L’incisiva edizioni, Roma 2021.
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