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Bernini alla Galleria Borghese

Prosegue l'itinerario berniniano. Il trionfo dell'immaginazione, del sogno, della metamorfosi tecnica
Scrive G. Carlo Argan che, per Gian Lorenzo Bernini, il mondo prodotto dall’immaginazione, attraverso una tecnica artistica raffinatissima, risulta essere l’antidoto, il contraltare, di una realtà che, come ben aveva intuito e rappresentato Caravaggio, è mistero, morte, nulla. Solo l’immaginazione produce la vita e la bellezza, la gioia e il ritmo, il movimento che tutto cambia, capace di trasformare persino il sogno in realtà (cioè in oggetti artistici).
Ma – aggiunge l’Argan – “sotto la frenesia di riempire di immagini concrete tutto lo spazio, di conquistare sempre nuovo spazio per nuove immagini, si sente l’angoscia del vuoto” (G. C. Argan, dal vol. 3 di Storia dell’arte italiana). Ma è proprio questa l’essenza del barocco: di fronte alla vertigine prodotta da una realtà fisica che si dilata a dismisura (per effetto delle scoperte scientifiche e della rivoluzione copernicana-galileiana), l’unica ancora di salvezza è l’immaginazione, il potere che essa possiede di trasformare i sogni in immagini concrete, in opere d’arte che possano riempire l’enorme vuoto in cui l’uomo si ritrova sospeso, simile ad un atomo vagolante negli enormi e infiniti spazi siderali.
Bernini è uno dei più grandi interpreti di questa nuova concezione dell’arte. L’abbiamo constatato nel nostro primo itinerario; anche questa nuova puntata del nostro percorso berniniano (la visita alla Galleria Borghese di questa mattina, con ingresso alle 10,00) non fa altro che confermare questa idea della poetica e della visione del mondo che caratterizzano, in misura del tutto particolare, tanto lo stile barocco quanto, a maggior ragione, il suo massimo rappresentante. Questa nuova puntata si svolge in un interno, un luogo e una costruzione famosi in tutto il mondo, e cioè la Villa Borghese (intesa come Palazzina, o “casino” di campagna, situato all’interno dell’esteso omonimo parco e raggiungibile dalle fermate Spagna e Flaminio della Metro A, aggiungendovi una buona e salutare passeggiata a piedi); quella Palazzina meglio conosciuta come Museo o Galleria Borghese, fortemente voluta e fatta erigere, su progetto degli architetti Flaminio Ponzio e Andrea Vasanzio, dal cardinale Scipione Borghese all’inizio del ‘600 al fine di raccogliervi e esporvi, al pubblico dei numerosissimi amici, la foltissima collezione di dipinti e di statue che, ingrossatasi come un fiume in piena, non poteva più essere contenuta nel Palazzo di città e, pertanto, reclamava un luogo apposito e architettonicamente degno ad ospitare così tanti e mirabili tesori. Tra questi innumerevoli prodotti artistici non potevano mancare le opere di un artista tra i preferiti dalla famiglia Borghese: Gian Lorenzo Bernini, il quale, non ancora ventenne quando entrò nelle grazie del cardinal Scipione, era già uno degli scultori più noti e pagati dell’Urbe.
E fu così che il cardinale divenne, per alcuni anni e finché visse il potente zio papa Paolo V, il principale committente di Gian Lorenzo, il quale ripagò la sua fiducia con alcune tra le più straordinarie statue (o gruppi statuari) che mai siano state realizzate dall’antichità ai giorni nostri. La prima delle sue opere “borghesiane” la troviamo al centro della Sala II (nella quale entriamo dopo essere stati per breve tempo nella Sala I e solo per dare una furtiva occhiata alla “Paolina Borghese” del Canova, opera nella quale è possibile scorgere chiare influenze berniniane nella levigatezza e nel sottile erotismo delle forme) ci si imbatte nel David (1624), un David in torsione, con il corpo teso, lo sguardo accigliato, le labbra strette per lo sforzo, i capelli scarmigliati (qualcuno vi vide, in quel volto, un autoritratto del giovane scultore) colto nell’istante immediatamente precedente il lancio con la fionda che avrebbe abbattuto Golia, e quindi ben diverso dall’immobile e assorto David michelangiolesco. Cambia la concezione del bello: dalla “nobile semplicità e serena grandezza” rinascimentale si passa al dinamismo e alla tensione, tipiche del barocco, di figure che agiscono sotto l’incombere e l’incalzare del tempo.
Concezione che ritroviamo, accentuata e portata al massimo livello, nell’Apollo e Dafne situato nella Sala III. L’opera, iniziata nel 1622, è ispirata dal racconto tratto dalle Metamorfosi di Ovidio: Apollo, innamorato nella ninfa Dafne ma da lei respinto, la insegue dappertutto fino al momento in cui, avendola raggiunta in un bosco, la vede con sua grande delusione trasformarsi in un albero di alloro. E’ proprio questo momento, quello in cui i capelli e le membra di Dafne cominciano a diventare foglie rami e radici, che Bernini coglie e rende con grande maestria: il terrore di Dafne, il desiderio di Apollo che si trasforma in frustrazione, il movimento (quasi una danza convulsa) concitato dei corpi; lo scultore domina la pietra imprimendo su di essa una varietà di emozioni profondamente umane e, nel contempo, riesce a dare l’illusione che il marmo non sia marmo, ma carne e, in Dafne, essenza arborea. Nel basamento che sorregge il gruppo statuario è possibile leggere, da un lato, i versi ovidiani che descrivono la metamorfosi di Dafne e, sul lato opposto, un distico in latino, creazione del cardinale Maffeo Barberini (amico di Scipione Borghese e futuro papa Urbano VIII), che recita: “Quisquis amans sequitur fugitivae gaudia formae/ Fronde manus implet, baccas seu carpita maras” (L’amante che insegue le gioie dell’effimera bellezza, alla fine si trova foglie e amare bacche in mano).
Nella Sala successiva, sempre in posizione centrale, ritroviamo un altro celebre gruppo, di qualche anno più giovane (fu completato nel 1622): il Ratto di Proserpina da parte di Plutone; in realtà è presente una terza figura, seminascosta dietro le gambe di Plutone: è il cane Cerbero, guardiano degli Inferi, il mostro dalle tre spaventevoli teste, rappresentato in tutta la sua terribilità. Nella Proserpina che, sollevata dalle possenti braccia del dio, urla e recalcitra, ritroviamo lo stesso terrore provato da Dafne nonché il medesimo disperato tentativo di sfuggire allo stupro, ma nello sguardo di Plutone (bello pur nella sua bruttezza), non appare l’amara delusione che abbiamo visto prima in Apollo, bensì la beffarda ironia e il perverso godimento per l’imminente, non più procrastinabile, realizzazione del suo desiderio di possesso. Plutone sembra quasi divertirsi di fronte alla paura e alle grida della giovane donna, da lui perversamente interpretate quali “preliminari” in vista dell’inevitabile amplesso.
Nella V Sala non troviamo opere di Bernini, ma non possiamo fare a meno di sostare e di ammirare il bellissimo Ermafrodito dormiente, copia romana di originale greco del II secolo d. Cr.; di quest’opera il giovanissimo Bernini, su richiesta del cardinal Scipione, fece una copia che, a detta degli esperti, risulta essere migliore dell’originale, tant’è che Napoleone, nel 1807, la volle acquistare dal cognato Camillo Borghese e trasferirla al Louvre, dove è tutt’ora possibile ammirarla. Questo ermafrodito, un bellissimo corpo femminile dormiente ripreso di schiena, è il massimo monumento all’ambiguità, elemento molto amato dagli artisti del periodo barocco.
Nella Sala VI sono due le opere berniniane: in posizione centrale il gruppo (colpisce per la sua verticalità) costituito da Enea che porta, in un difficile equilibrio, il padre Anchise (che, a sua volta, reca in mano le statuette dei lari protettori di Troia) sulla sua spalla sinistra mentre, dietro di sé, procede un piccolo e molto riccioluto Ascanio che regge, nella sua mano sinistra, il sacro fuoco di Vesta, simbolo della città che nascerà. E’ un’opera che sappiamo, dai documenti, essere stata finita nel 1619 e, pertanto, il suo inizio è situabile nel 1617; un’opera dal forte contenuto simbolico: l’imperium non muore con la distruzione di Troia ma, grazie ad Enea, si trasferisce a Roma, prima repubblicana, poi imperiale, infine sacra e pontificia.
Ciò che Bernini voleva rappresentare con questo gruppo è la continuità di un potere, voluto da Dio, nel tempo e nelle epoche. Il tema del tempo, una costante dell’arte e del pensiero in epoca barocca, che Bernini tornò più volte a fare oggetto di riflessione e di produzione artistica; un tema che si rivela in un’altra statua, incompiuta, che troviamo nella stessa sala: la Verità svelata dal tempo, un’opera del 1647 (non rientra quindi nel gruppo di opere commissionate dal cardinale, all’epoca già defunto) ma entrata a far parte della Galleria nel 1924; una giovane donna nuda semi-dormiente, sul punto di svegliarsi da un lungo sonno, che reca nella mano destra una specie di piccolo sole irradiante, mentre sulle sue spalle si innalza un velario che, evidentemente, fino a poco prima la copriva interamente. Anche questo un tema di squisita natura allegorica.
Al secondo piano, infine, nella sala XIV, troviamo altre opere berniniane: un bozzetto per il monumento equestre dedicato a Luigi XIV, due busti del cardinal Scipione Borghese, un busto (anzi: una testa) di Papa Paolo V, il piccolo gruppo intitolato “La capra Amaltea” (eseguito all’età di nove anni), e ben tre dipinti. Accanto ad un ritratto di bambino troviamo un autoritratto in età giovanile e un autoritratto in età matura.
Le numerose foto che accompagnano questo articolo documentano visivamente, sebbene in misura parziale, un aspetto importante della complessiva opera di Bernini, senza però pretendere l’esaustività. Vi rimando perciò ad una nuova prossima puntata di questo itinerario berniniano nella nostra città.
Un consiglio bibliografico: ricco, documentato, di agevole lettura il libro di Jake Morrissey, GENI RIVALI, Bernini, Borromini e la creazione di Roma barocca, Laterza editori.

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