Dante e il XXX del Purgatorio: il Canto del rimpianto e del pentimento

È l’unico della Divina Commedia in cui appare il nome Dante
“FEDONE: In verità io non so che strani sentimenti ebbi a provare trovandomi allora con Socrate. Ché non già, sebbene fossi presente alla morte di tale amico, mi entrò nell’anima senso alcuno di commiserazione: felice egli era, o Echecrate, e nei modi e nelle parole, tanto intrepidamente e nobilmente morì; e mi dava immagine come di uno che, pur andando all’Ade, non vi andasse senza un divino fato, e che, anche colà giunto, egli sarebbe stato felice come nessuno altro mai … ECHECRATE: e chi c’era di presenti, o Fedone? FEDONE: Del luogo c’era, come s’è detto, questo Apollodoro, e c’erano Critobulo e suo padre, e c’erano anche Ermogene ed Epigene ed Eschine e Antistene; c’era poi anche Ctesippo di Peania e Menesseno e alcuni altri del luogo; Platone, credo, era ammalato” (Platone, dal dialogo FEDONE, 58,59).

Credo non vi sia niente di più sorprendente, per non dire “spaesante”, per un lettore appassionato amante di un determinato scrittore (soprattutto quando si tratta di un grandissimo e celebre autore), che imbattersi in un passo della sua opera e trovare, per la prima e unica volta, citato il nome proprio dell’autore medesimo. Prendiamo, ad esempio, un fecondissimo e prolificissimo scrittore come Platone: la sua opera è talmente vasta e importante che, attratti (come del resto è naturale che sia) tanto dai profondi contenuti filosofici quanto dal brillante stile letterario, a nessuno viene in mente di chiedersi il motivo per cui, nei molti dialoghi da lui partoriti, tra i numerosi personaggi che li popolano, sia assente proprio lui; anche perché sappiamo che la voce di Platone, e il suo pensiero, sono espressi mirabilmente, quasi ovunque, dal personaggio Socrate. Ma, nel dialogo Fedone, dedicato al racconto delle ultime ore della vita di Socrate, dove dunque Socrate è Socrate e non il portavoce ufficiale delle concezioni platoniche, ci aspetteremmo che, per la prima volta, tra gli astanti ascoltatori e interlocutori delle ultime riflessioni del Maestro, fosse elencato anche Platone. Invece non è così: Platone viene sì citato (l’unica volta e nell’unico passo nel quale appare il suo nome), ma solo per registrarne l’assenza. Il personaggio che lo cita, vale a dire Fedone, aggiunge, in maniera dubitativa ma quasi fosse cosa priva d’importanza, che “era ammalato”. Ne deduciamo – anche se vorremmo distogliere dalla nostra mente questa spiacevole sensazione – che si tratti di una misera scusa, abborracciata sull’istante, buttata lì in maniera tale che il lettore medio, generalmente frettoloso, non presti ad essa l’attenzione che merita. Per gli ammiratori della filosofia platonica non c’è niente di più spiacevole, infatti, che dover constatare, a proposito di questo passaggio volutamente “casuale”, l’umana debolezza del loro idolo: emerge, dalla breve frase “Platone, credo, era ammalato”, tutto il rimpianto e l’acre pentimento dai quali, nel corso degli anni che vanno dal 399 a. Cr. (anno della morte di Socrate) al 347 a. Cr. (anno della morte di Platone), il filosofo ateniese, teorico del mondo delle idee ed inventore del mito della caverna, dovette essere tormentato. Nel momento della morte del Maestro tanto amato, proprio lui, il discepolo prediletto e destinato ad eternarne il ricordo, era inspiegabilmente e ingiustificatamente assente!

Il ricordo di questo passo del Fedone, che ben poco ha a che vedere, almeno in apparenza, con il titolo del presente articolo dedicato allo struggente e decisivo Canto XXX del Purgatorio, quello nel quale Dante incontra Beatrice nel Paradiso terrestre e dice definitivamente addio a Virgilio, è stato evocato da una circostanza del tutto banale: la presenza, all’inizio del verso 55, della parola “Dante” (“Dante, perché Virgilio se ne vada,/ non pianger anco, non piangere ancora;/ ché pianger ti conven per altra spada” (vv. 55-57); per la prima e unica volta, in tutta la Divina Commedia, il poeta Dante Alighieri, dopo aver fatto di se stesso il protagonista onirico dell’incredibile viaggio nei tre regni dell’oltretomba, scrive il proprio nome, così come, ben 1600 anni prima di lui, Platone aveva scritto il proprio nome in quel passo citato e famigerato del Fedone. Un’altra piccola ma significativa analogia, che avvicina il filosofo ateniese al nostro Sommo Poeta, è costituita dallo speciale rapporto che lega i due autori agli autentici protagonisti e del dialogo platonico e del Canto XXX del Purgatorio: da una parte l’amore e l’ammirazione del discepolo Platone nei confronti di Socrate, e il senso di colpa (che, sebbene celato, traspare evidentissimo dalle parole “Platone, credo, era malato”) causato dalla propria ingiustificata assenza nel momento della morte del Maestro; dall’altra l’amore, impossibile perché non corrisposto ma giammai obliato, di Dante per Beatrice la cui morte ha rappresentato, almeno secondo l’interpretazione di Jorge Luis Borges, il profondo e sottaciuto motivo che lo indusse a scrivere il suo immortale poema. “Innamorarsi – scrive Borges in uno dei suoi saggi danteschi dal titolo L’incontro in un sogno – significa creare una religione il cui dio è fallibile. Che Dante abbia professato per Beatrice un’adorazione idolatrica è una verità che non è possibile contraddire; che essa una volta si burlò di lui e un’altra lo disprezzò sono fatti che registra la Vita Nuova. … Dante, morta Beatrice, persa per sempre Beatrice, giocò con la finzione di incontrarla, di mitigare la propria tristezza; io ritengo che edificò la triplice architettura del suo poema per interpolarvi quell’incontro. … Rifiutato per sempre da Beatrice, sognò di Beatrice, ma la sognò severissima, ma la sognò inaccessibile, ma la sognò su un carro tirato da un leone che era un uccello e che era tutto uccello o tutto leone quando gli occhi di Beatrice lo aspettavano”. Anche per Dante, dunque, l’incontro con Beatrice, una Beatrice puramente immaginaria, elemento fondamentale del contenuto “manifesto” (Vedi Freud e la sua Interpretazione dei sogni) del grande sogno che Dante sta, in quel momento, sognando ad occhi aperti, si svolge sotto il segno del rimpianto e del pentimento. Quel rimpianto e quel pentimento già espresso, in versi, nel XXXI capitolo della Vita Nuova, in quella lunghissima canzone che inizia con “Li occhi dolenti per pietà del core/ hanno di lagrimar sofferta pena,/ sì che vinti son remasi omai” (vv. 1-3), per poi proseguire “Partissi de la sua bella persona/ piena di grazia l’anima gentile/ ed èssi gloriosa in loco degno./ chi non la piange, quando ne ragiona,/ core ha di pietra sì malvagio e vile,/ ch’entrar no i puote spirito benegno” (vv. 29-34), e infine concludere così: “Pianger di doglia e sospirar d’angoscia/ mi strugge ‘l core ovunque sol mi trovo,/ sì che ne ‘ncrescerebbe a chi m’audesse:/ e quale è stata la mia vita, poscia/ che la mia donna andò nel secol novo,/ lingua non è che dicer lo sapesse” (vv. 57-62).

I capitoli finali dell’opera giovanile dantesca potrebbero essere globalmente definiti, per usare un linguaggio musicale, come “variazioni sul tema del dolore e del rimpianto” oppure, prendendo a prestito termini e temi tipici della storia dell’arte, come “compianto sulla morte della donna amata”, così come, per l’ennesima volta, ribadiscono i seguenti versi del sonetto che chiude il cap. XXXVII: “L’amaro lagrimar che voi faceste,/ oi occhi miei, così lunga stagione,/ facea lagrimar l’altre persone/ de la pietate, come voi vedeste” (vv. 1-4).

La Vita Nuova, quindi, rappresenta la premessa, l’antefatto, il retroterra dell’incontro tra Dante e Beatrice descritto nel Canto XXX del Purgatorio, ambientato sulla sommità del monte del Paradiso terrestre; qui scorre il fiume Lete, sulle cui rive si estende una fitta foresta,  dalla quale, avvolta da una luce intensissima e da un dolcissimo suono melodioso (luce e musica, due elementi basilari delle vicende e degli incontri che Dante vivrà nel corso dei trenta tre Canti del Paradiso), appare all’improvviso (questo già nel precedente Canto XXIX) una misteriosa e allegoricamente ricca processione: sette candelabri le cui fiamme disegnano sette lunghissime luminose scie, ventiquattro vegliardi coronati di giglio, quattro differenti animali muniti ciascuno di sei ali occhiute, un carro trionfale tirato da un grifone, sette donne danzanti, e poi ancora altre figure simboliche. Giunta la processione davanti a Dante e ai suoi accompagnatori (Matelda e Stazio, perché Virgilio nel frattempo è sparito), dal carro si leva una moltitudine di angeli che inneggiano e lanciano fiori, mentre uno dei ventiquattro vegliardi pronuncia un versetto tratto dal Cantico dei Cantici: “Veni, sponsa, de Libano”.

È il segnale per l’apparizione, in mezzo alla nuvola fiorita e come sole sorgente in un velo di nebbie, di Beatrice: “sotto candido vel cinta d’uliva/ donna m’apparve, sotto verde manto/ vestita di color di fiamma viva” (vv. 31-33). Dante, a questo punto, intuisce, più che vedere, la presenza di Beatrice, e la sua anima è percossa da grande turbamento; egli, affranto, “d’antico amor sentì la gran potenza” (v. 39), la stessa che già l’aveva trafitto da bambino, nel primo incontro ch’ebbe con il grande amore della sua vita, “prima ch’io fuor di puerizia fosse” (v. 42). D’un tratto si volge alla sua sinistra, cercando Virgilio, quasi come un bimbo che, spaurito, cerchi la protezione della mamma: “volsimi alla sinistra col respitto/ col quale il fantolin corre alla mamma/ quando ha paura o quando elli è afflitto” (vv. 43-45). Tenerissima questa scena e, se ci pensiamo bene, paradossale: Dante pre-sente, all’improvviso, gli aspri rimbrotti di Beatrice (in questo caso in veste di giudice paterno ma severo e inflessibile) e, quasi a impetrarne materna protezione e consolazione, si rivolge a Virgilio, che non c’è, è spirito, perché conclusa la sua missione di guida nei cerchi infernali e nei gironi del Purgatorio. Accortosi con sgomento dell’assenza del “dolcissimo patre” (v. 50), il poeta, in preda ad un doloroso smarrimento, si abbandona al pianto. E qui, da una voce tutt’altro che amorevole, ode qualcosa che mai avrebbe pensato di ascoltare: “Dante”, il suo nome, forse per la prima volta pronunciato (in sua presenza, ma ahi-lui soltanto in sogno) da Beatrice: i succitati versi 55-57 introducono un discorso della donna, da lui così amata, pieno di rimbrotti e di aspre accuse, tanto da indurlo ad usare il termine “proterva” (“regalmente nell’atto ancor proterva”, v. 70) per definire un atteggiamento – con ogni probabilità – inaspettatamente duro e autoritario. E, mentre Dante non riesce a sostenerne lo sguardo, così prosegue Beatrice: “Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice./ Come degnasti d’accedere al monte?/ non sapei tu che qui è l’uom felice?” (vv. 72-75).

Dopo questa invettiva, che giustifica ad abudantiam la definizione di “proterva”, non poteva il poeta rinunciare all’uso del termine “superba” e, con una perifrasi, anche del termine “spietata”: “Così la madre al figlio par superba,/ com’ella parve a me; perché d’amaro/ sente il sapor della pietade acerba” (vv. 79-81). Ad un certo punto non è soltanto Dante ad essere sbigottito e stupefatto per le parole di Beatrice ma, almeno così interpreta il poeta, perfino gli angeli che si trovano sul carro trionfale, i quali, in coro, rivolgono a Beatrice la domanda: “Donna, perché sì lo stempre?” (v. 96), Donna, perché lo mortifichi in modo così aspro? E, a questa irrefutabile richiesta, Beatrice non può fare a meno di spiegare la ragione dei suoi rimproveri: la colpa di Dante è stata quella di un uomo che, dotato dal Creatore di attitudini e di disposizioni singolarmente felici e fortunate, e inoltre favorito dalla presenza e dal conforto di una donna miracolosa, che con gli occhi lo guidava per la retta via, si è tuttavia, dopo la morte di costei, smarrito, lasciandosi traviare dietro false immagini di bene, fino a precipitare sull’orlo della perdizione: “Quando di carne a spirto era salita/ e bellezza e virtù cresciuta m’era,/ fu’io a lui men cara e men gradita;/ e volse i passi suoi per via non vera,/ imagini di ben seguendo false,/ che nulla promession rendono intera./ Né l’impetrare ispirazion mi valse,/ con le quali ed in sogno e altrimenti/ lo rivocai; sì poco a lui né calse!” (vv. 127-135). Così, con questi versi, intrisi di amarezza e di rimpianto ma anche di sincero pentimento, Dante, per bocca di Beatrice, confessa al lettore della sua opera, come, per un periodo piuttosto lungo della sua vita (dieci anni circa, essendo Beatrice morta giovanissima nel 1290), la sua condotta non sia stata moralmente irreprensibile, traviata com’era da false immagini di bene e impermeabile a tutti i richiami che, anche in sogno, di volta in volta a lui inviava quella che era stata il grande e impossibile amore della sua vita.

Un Dante così umano e così consapevole dei suoi difetti e dei suoi “erramenti” e, insieme, così smarrito e in cerca di materna comprensione e d’indulgente protezione, non lo si era ancora incontrato; né nell’Inferno, dove prevale, salvo rare eccezioni, il Dante che si erge a giudice e “punitore” delle colpe altrui, né lo si incontrerà nel Paradiso, dove la teologia celebrerà i suoi eccelsi trionfi, riducendo la filosofia e la poesia ad un ruolo di semplici e, a volte, servizievoli “ancillae”, pur in un contesto di eccezionale bellezza e armonia.


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