Domicilio sconosciuto di Luciano Funetta
Un romanzo-saggio sulla letteratura latino-americana. Percorsi e smarrimenti in un labirinto fatto di sogni dentro altri sogni dentro altri sogni“ … Allora il Banto gridò; qui si entra nell’indicibile perché l’orrore può essere solo circumnavigato, alluso attraverso i suoi sintomi esterni, il Banto gridava e gridava, ciò che avevo appena fatto mi gettava nel vortice dell’incubo, della colpa irredimibile, mi rendeva uomo in sogno, mi annunciava Auschwitz e Nagasaki e My Lai; credo che quella notte venni espulso definitivamente dal vert paradis des amours enfantines, e che tutto ciò che sarebbe poi accaduto in quella dimensione del sogno era già scritto nelle grida di uno scarabeo decapitato … “ (J. Cortàzar, Passeggiata tra le gabbie, da Animalia).
“ … Da sveglio, sono sempre immerso in una vaga foschia luminosa color grigio o azzurro; nei sogni vedo e converso con i morti, senza che l’una o l’altra cosa mi meravigli. Non sogno mai il presente, ma una Buenos Aires del passato e i corridoi e i lucernari della Biblioteca Nazionale …” (J. L. Borges, I sogni, da Atlante).
Di Luciano Funetta, giovane scrittore pugliese ma residente da molti anni a Roma, nel quartiere Pigneto, recensii, alcuni anni fa (nel 2016) il romanzo d’esordio, il cui enigmatico titolo “Dalle rovine” (Tunué editore, 2015) tradiva già (mediante vari indizi sparsi con disinvoltura nell’allucinato testo) un sottile, ma ben nascosto sotto dissimulati travestimenti, innamoramento nei confronti della vasta e perturbante letteratura latino-americana; un innamoramento che oggi, con la pubblicazione di Domicilio sconosciuto (Editrice UTET/De Agostini, Milano ottobre 2023), viene esposto senza infingimenti e alla luce del sole e reso ancora più lampante dal sottotitolo: “Perdersi nella letteratura latinoamericana”.
Una letteratura che, “sub specie allegoriae”, viene rappresentata, fin dall’inizio di questo intrigante e stimolante romanzo-saggio (perché tale è la natura ibrida del testo), mediante la metaforica denominazione di ISTITUTO. Tale termine, però, possiede una duplice valenza: da una parte rinvia al vasto continente latino-americano, comprensivo, geograficamente, tanto del Centro quanto del Sud America (per intenderci: dal confine del Messico con gli USA fino alla Terra del Fuoco); dall’altra indica l’impressionante ed esuberante ed imponente gruppo di letterati, frequentatori abituali dell’ISTITUTO, che, attraverso le loro opere, dall’inizio del XIX secolo fino ai giorni nostri, hanno imposto la letteratura di quelle terre e nazioni (a prescindere dallo strumento linguistico utilizzato, spagnolo o portoghese che sia) come una delle più vivaci e “produttive” che mai si siano viste nell’epoca dello sconfinato “villaggio globale” contemporaneo.
A dire il vero, e a voler essere pignoli, credo che nella mente di Funetta sia balenata anche un’opzione alternativa a quella di ISTITUTO, vale a dire quella di BIBLIOTECA, ma troppo scoperta e immediata sarebbe stata l’evocazione di quella borgesiana e labirintica “Biblioteca di Babele”, coincidente simbolicamente con l’intero universo fisico, che costituisce l’oggetto e il titolo di uno dei racconti più noti e sconcertanti della raccolta Finzioni, pubblicata dal grande scrittore argentino nel 1944.
D’altra parte, tanto Borges (nel testo è il Direttore, cieco, dell’ISTITUTO che chiede, immaginiamo ex auctoritate, a Guerra, alter ego di Luciano Funetta, di scrivere un saggio sulla letteratura dell’ISTITUTO), quanto le sue numerose opere e personaggi e ricorrenti borgesiani “topoi” (oltre a biblioteca: sogno, insonnia, labirinto, memoria, cecità, eternità, tempo, infinito, oblio) sono citati e tematizzati nel testo con frequenza quasi compulsiva.
E, subito dopo Borges, il secondo grande nume tutelare dell’ISTITUTO è da individuarsi, senza tema di smentita, nell’altro immenso e immaginifico argentino Julio Cortàzar (nel testo costui appare, quasi deutero-agonista del Direttore, sotto le mentite spoglie dell’Esule, almeno secondo l’opinione in me formatasi mettendo insieme oscuri accenni e incerte piste), autore di fantastici racconti popolati da animali e altri esseri immaginari, nonché del labirintico, scomponibile e ricomponibile, frantumabile e ri-assemblabile romanzo (vera e propria “opera aperta”, secondo la teoria di Umberto Eco, formulata nel 1962) Rayuela, pubblicato nel 1963.
Che questi autori siano, nello stimolante libro di Funetta, i due poli attorno ai quali convergano le molteplici esperienze narrative, e letterarie in genere, sviluppatesi nell’amplissima area latinoamericana, ce lo confessa lo stesso “io narrante” del saggio-romanzo di cui trattasi, precisamente a p. 49, laddove si afferma che il rapporto del protagonista con i libri e con la letteratura cambiò, all’età di 23 anni, quando un suo amico gli regalò una copia di Finzioni di Borges e, un anno più tardi, di Rayuela di Cortàzar: “E’ stato grazie a quei due libri, a quei due regali, se il mio rapporto con la letteratura è cambiato e si è trasformato, da semplice frequentazione, in persecuzione, un sogno ricorrente, un sogno dentro un altro sogno dentro un altro sogno e così all’infinito, una febbre incurabile”. E – continua nella stessa pagina l’autore-protagonista – furono proprio quei due regali a condurlo alla ricerca di quella “ … piccola sfera cangiante, di quasi intollerabile fulgore”, “piena di tenerezze e di terrori”, coincidente con il borgesiano Aleph, così come descritto nell’omonimo racconto, quella sfera nella quale si rispecchia, svelandosi misteriosamente all’occhio dello scrittore-sognatore, tutto l’infinito universo, quello rappresentato dalle innumerevoli cose sensibili unitamente a quello costituito dalle immagini riflesse dagli infiniti specchi sparsi tra il cielo e la terra, tra l’alba e il tramonto, nello spazio e nel tempo, tra l’infinitamente piccolo e l’enormità e la smisuratezza delle galassie; e, sempre quei due regali, lo spinsero a compiere quella metaforica passeggiata, immaginata da Cortàzar, “… su una passerella tirata tra due finestre che si fronteggiano, il desiderio del vuoto (la “vertigine” secondo Borges) e la necessità di defenestrare tutto, anche se stessi e la finestra: la morte o il volo, delle due l’una”.
Il viaggio che il protagonista di Domicilio sconosciuto intraprende è, di conseguenza, un percorso nell’ignoto (appunto: un domicilio sconosciuto), in quella dimensione onirica che ci si svela con la scoperta della piccola sfera dell’Aleph, ma fatto come lo farebbe un equilibrista, in precario bilico su una passerella tirata tra due finestre con sotto il vuoto, l’abisso.
Ora, se c’è una cosa che, sul piano stilistico, accomuna Borges a Cortàzar, e che – aggiungiamo noi – avvicina ai due Numi tutelari l’inclita e nutrita schiera di autori che vengono abbondantemente rivhiamati nel testo di Funetta (ne rammento alcuni: Roberto Arlt, Adolfo Bioy Casares, Roberto Bolano, Silvina Ocampo, Osvaldo Lamborghini, Alberto Manguel, Juan Carlos Onetti, Oracio Quiroga, Juan Rulfo e molti altri), è la loro condivisa predilezione per il racconto piuttosto che per il romanzo (Anche Rayuela, in fondo, più che un romanzo, è un’originale silloge combinatoria di racconti).
Tale preferenza venne teorizzata e giustificata dall’autore di Ottaedro e di Rayuela in una conferenza che, nel 1980, Cortàzar tenne nell’università di Berkeley: alle pp. 100 e 101 Funetta ne sintetizza i punti essenziali: “la narrazione romanzesca è … la promessa di un ordine, una guida che, in condizioni disperate, chiede al lettore di accordarle la massima fiducia. Il lettore di romanzi vive nel sogno dell’ultima pagina e spera che colui che scrive … abbia tutto sotto controllo e possa condurlo, se non sano e salvo, almeno vivo, dall’altra parte. La scrittura di racconti, invece, non contempla l’approdo, non conosce ultime pagine, ma solo frasi ultime. Non promette niente, a malapena mantiene se stessa”. E, prosegue Cortàzar nella citata conferenza, facendo riferimento ad Eco: “… Il romanzo … è l’opera aperta che lascia entrare tutto, mentre il racconto è una forma chiusa … Un racconto ben riuscito … è una meraviglia di perfezione e per questo può essere paragonato ad una sfera (un sottinteso riferimento all’ Aleph?, ci chiediamo noi)”.
Più o meno simile la risposta che, ad una precisa domanda di Alberto Arbasino in una ormai dimenticata intervista per una trasmissione RAI del 1977, diede Borges di passaggio a Roma: “Non ho mai voluto scrivere romanzi, ma soltanto racconti e poesie – disse il celebre Direttore della Biblioteca nazionale di Buenos Aires – perché il romanzo è troppo artificiale, mentre il racconto è sempre una vera storia, una storia compiuta, che chiunque saprebbe raccontare. L’unico romanziere che mi piace leggere e rileggere è Joseph Conrad, il più grande narratore in lingua inglese, con un solo difetto: era polacco, perciò in Inghilterra è stato dimenticato”.
Ora, per ritornare a Domicilio sconosciuto di Luciano Funetta, ho osservato che questa comune, dai due Numi tutelari, idiosincrasia nei confronti del romanzo, ha pesato molto sulla stesura e sulle scelte, compiute dall’autore, relative agli incontri (o ai mancati incontri) con i più (o meno) grandi romanzieri nel viaggio, notturno e onirico, che l’alter ego di Funetta, cioè Guerra, compie nel vastissimo Istituto della letteratura latino-americana: in sole cinque pagine compare il nome del colombiano Gabriel Garcia Marquez (Nobel 1982); in appena tre pagine quelli del peruviano Mario Vargas Llosa (Nobel 2010) e del messicano Octavio Paz (Nobel 1990); in appena due pagine quello del guatemalteco Miguel Angel Asturias (Nobel 1967); del tutto assenti il peruviano José Maria Argùedas, il cileno Luis Sepulveda, l’argentino Osvaldo Soriano, il messicano Paco Ignacio Taibo II, l’uruguaiano Eduardo Galeano, il messicano Carlos Fuentes, per non parlare del brasiliano Jorge Amado.
Sicuramente, essendo incommensurabile la sede dell’ISTITUTO – seconda forse alla celebre e già nominata Biblioteca di Babele (la quale si estende per tutto l’universo e con questo coincide) – è anch’essa provvista di una struttura labirintica, raggiungibile attraverso un percorso che si dipana lungo accidentati sentieri che si biforcano, ed è visitabile solo di notte e nei sogni/incubi che affliggono gli insonni appassionati instancabili lettori; era di conseguenza umanamente impossibile, in un romanzo-saggio di appena 200 pagine, descrivere e resocontare al lettore tutte le meraviglie (i sogni che racchiudono altri sogni che, a loro volta, racchiudono altri sogni ecc.) ch’egli, se intenzionato ad intraprendere il medesimo viaggio, avrà la fortuna d’incontrare leggendo anche soltanto una piccola parte della letteratura latino-americana.
Domicilio sconosciuto potrebbe, a questo proposito, rappresentare, a vantaggio dei volenterosi aspiranti lettori, una chiave di accesso all’ISTITUTO e una sorta di agile baedeker per orientarsi nelle sue molteplici stanze, senza perdersi in oscuri e umidi sottoscala e lungo interminabili polverosi corridoi.
E, in ogni caso, la lettura del libro di Funetta – notevole sul piano stilistico, apprezzabile per la scelta della formula del saggio romanzato, molto documentato dal punto di vista della mole della letteratura consultata e personalmente rielaborata – risulta avvincente quasi quanto quella di un romanzo poliziesco e pertanto godibilissima (ce lo auguriamo vivamente, dopo averne fatto personale esperienza) anche da tutti coloro che, di letteratura latino-americana, posseggono poche o punto cognizioni.
Luciano FUNETTA, Domicilio sconosciuto, UTET-De Agostini editrice, Milano 2023.
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