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I funerali a Don Bosco di Antonio Calabrò il “medico dei poveri”

Grande e commossa partecipazione di popolo. Il rito officiato dal missionario comboniano Alex Zanotelli

Le cerimonie funebri sono sempre qualcosa di triste. Stamane nella Chiesa di Don Bosco alle esequie di Calabrò, il “medico dei poveri”, c’era un cielo un po’ plumbeo che sembrava rispecchiare l’animo addolorato della folla presente.
Amici, parenti, gente, tanta, che da lui aveva ricevuto assistenza e soccorso, giovani e meno giovani dei centri sociali, credenti e non credenti. Il suo popolo, il popolo di Antonio.

I riti di addio, a volte, possono essere freddi e formali. Quello di Antonio non poteva esserlo, e non lo è stato.
A officiare il rito è stato il suo vecchio amico padre Alex Zanotelli, circondato da uno stuolo di sacerdoti. Il prete comboniano, il missionario delle periferie della disperazione umana dell’Africa nera, ha rappresentato nella sua omelia celebrativa non la Chiesa delle certezze, ma quella del dubbio, non quella trionfante dei templi ma quella che si attenda nell’accampamento umano per dare conforto e soccorrere gli ultimi e i sofferenti. La Chiesa che in questa società “impazzita” – ha detto – percossa dalle guerre e modellata sul consumismo edonistico dell’avere e dell’apparire, vuole, seguendo le parole e l’esempio umano di Gesù di Nazareth, dare dignità  agli ultimi, agli “scarti” sociali e umani di questa società malata, come li ha chiamati con dolore Papa Francesco.

La Chiesa che non solo accoglie i migranti nelle parrocchie, ma esce a cercare i suoi figli nei tuguri della sofferenza; che lotta per dare loro non solo una coperta o un piatto di minestra ma una speranza di dignità e di vita migliore. La Chiesa del “beati i poveri….”. L’ “altra Chiesa”, quella che tenta di rimettere in campo, tra tante resistenze e pericoli ma anche tra tanti consensi e speranze, Papa Bergoglio.

Antonio CalabròAntonio ha testimoniato con la sua vita il messaggio cristiano di questa Chiesa della carità e della misericordia. Quando di notte, come ha testimoniato un rappresentante di Sant’Egidio, usciva a cercare i “barboni” per dare loro soccorso; o quando andava a ricercare qualche migrante malato che era sparito alla sua vista ma che lui sapeva essere bisognoso di assistenza.

Il rito celebrativo, come dicevo, può essere formale ma quando ha per oggetto la vita, più che la morte, di una persona come Antonio, allora la sua formalità scompare. Le forme corrispondono pienamente al contenuto di una vita straordinaria, la preghiera del “Padre nostro” rivolta a Dio, papà come l’ha invocato più familiarmente Zanotelli, risuona potente tra le colonne del tempio cristiano e s’innalza come un’invocazione potente di persone che non solo chiedono perdono per i loro peccati nei confronti dell’umanità, cioè di se stessi, e promettono di non peccare più, ma promettono un impegno di redenzione e di riscatto. E quel “Beati i poveri… gli afflitti… i miti… gli operatori di pace… i perseguitati…” diventa un inno rivoluzionario che sprona a operare perché sulla terra cresca la città buona, la Gerusalemme della giustizia e della pace – come ha detto padre Alex – e si abbassi quella cattiva oggi prevalente: la Babilonia della guerra e dell’ingiustizia.

Antonio seguendo questo cammino d’impegno per la redenzione e il riscatto degli ultimi ha incontrato tanta gente, l’ha incontrata anche nell’azione politica. Gente, magari non credente, ma che voleva le sue stesse cose: la giustizia e l’eguaglianza innanzitutto. Ma lui, da credente, aveva una marcia in più: la forza di testimoniare con la sua personale opera di soccorso e assistenza la fede cristiana in cui credeva e sperava e di cui il povero container di piazza dei Decemviri è testimonianza concreta.

Molti ricordi di amici e conoscenti si sono succeduti durante la celebrazione. Particolarmente toccanti quelli del fratello. Tutti hanno ricordato l’umanità di Antonio, la sua generosità e disponibilità, il suo sorriso. Un sorriso che, durante la malattia paralizzante, era rimasto la sua ultima arma per incoraggiare gli amici che lo andavano a trovare. Un sorriso che certamente rimarrà nella memoria di chi l’ha conosciuto e apprezzato e di chi gli ha voluto bene.

Al termine del mesto rito mi sono accorto che non si era celebrata una morte ma una vita, una grande anima che non si è spenta, perché il suo ricordo sarà lievito alla lotta per la giustizia e di sprone per molti di quelli che l’hanno conosciuto e amato a testimoniare concretamente il bene.

Il funerale di Antonio, così partecipato da tanta gente semplice, ha avuto anche l’effetto di riscattare con umiltà – come ha detto l’amico della Comunità di Sant’Egidio – un sagrato e una piazza antistante che qualche settimana fa sono stati teatro di un’esibizione sgradevole di clan violenti.

E anche di aprire le porte della carità e della misericordia di quella medesima Chiesa Don Bosco che qualche anno fa, il 24 dicembre del 2006, erano state serrate al popolo che piangeva in piazza la scomparsa di Pier Giorgio Welby. Oggi ho visto che a dare l’addio ad Antonio c’era anche Mina, la moglie di Welby. Mentre ricordo che quel 24 dicembre in piazza c’era anche Antonio.

All’uscita dalla Chiesa il cielo non era più plumbeo. Era spuntato il sole.


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