I poeti sono preti mancati

Riflessioni osservandoli declamare le loro poesie al Premio “Vincenzo Scarpellino” domenica 20 ottobre 2024

I poeti sono preti mancati, pensavo osservandoli declamare le loro poesie al Premio “Vincenzo Scarpellino” domenica 20 ottobre 2024. Al Centro Culturale Lepetit di Tor Tre Teste ho assistito con vera gioia alla premiazione dei poeti dialettali del Lazio e, mentre ascoltavo, pensavo.

Lavoratori della parola, artigiani del ritmo e del suono, cesellatori di pensieri e sentimenti, illustratori di verità umane e divine, i poeti condividono con i preti ciò che hanno di più caratteristico: riuscire a trasformare la lingua atemporale dell’emisfero destro nel linguaggio analitico dell’emisfero sinistro.

Il nostro cervello vive due vite all’unisono. Un emisfero non conosce il tempo, vive di sensazioni e desideri, sovrappone persone e luoghi, crea collegamenti inusuali per l’altro emisfero. È religioso e poetico, ma anche confuso e fantasioso; vive di amici immaginari e allucinazioni improvvise, come se un demone ne possedesse la chiave.

L’altro è preciso, analitico, ancorato alla realtà e al linguaggio scientifico, giudica infantile e passatempo inutile ciò di cui l’altro emisfero gode. La verità se l’arroga l’emisfero sinistro, ma contro la sua fredda sicurezza l’altro emisfero si ribella, presentando le sue esigenze in quel malessere che vive chi non è più capace di gioco e fantasia. 

Il poeta è un mediatore culturale, un interprete dei suoi stessi pensieri tra uno e l’altro emisfero: è colui che attinge al confuso marasma dell’uno mettendovi ordine; è colui che fa luce con l’altro emisfero rendendo definiti i contorni di ciascun elemento che la fantasia continuamente gli propone. Il poeta traduce in linguaggio preciso, analitico, segnato dal tempo del ritmo, ciò che ogni persona porta confuso e oscuro dentro di sé.

Se diamo uno sguardo alla Bibbia, ci stupiremo di trovare lo stesso fenomeno nella creazione del mondo. Nel suo primo racconto Dio non crea dal nulla, ma contempla, volandoci sopra, un abisso confuso ed oscuro. Poi improvvisamente parla, e la parola, con quella precisione che dà significato a ogni frase, crea subito la luce. Anche nell’uomo è il linguaggio a mettere ordine nei suoi pensieri, a dominare sensazioni e sentimenti, dandovi un nome con cui riconoscerli e gestirli; Dio dona identità alle cose con la parola e mette ordine dov’è il caos, assegna a ciascuno il suo posto e il suo ruolo.

È rappresentata qui la fondazione della nostra scienza – che crede in un mondo ordinato che segue leggi immutabili – e dell’etica – l’uomo creatura come le altre creature, ma con una responsabilità più grande, e gli uomini tutti fratelli e sorelle tra loro perché figli di unico padre e unica madre.

Qui Dio dà anche inizio all’arte: essa è scelta e assemblaggio di ciò che già esiste per dare nuova forma e nuovi significati, inventare nuovi usi e far scaturire la bellezza nascosta in ogni cosa.

E qui infine leggiamo il primo trattato di estetica: Dio crea e ogni sera contempla e gusta la bellezza di ciò che ha fatto e poi chiede agli uomini di contemplare e gustare anch’essi con Lui, almeno l’ultimo giorno di ogni settimana, il frutto del proprio lavoro. L’ultima sua creatura, che è chiamata a rappresentarlo nel mondo, avrà quindi il linguaggio come sua prerogativa, per poter cantare l’autore di ogni bellezza.

Così il prete è chiamato, prima di tutto, a dare un senso alle cose, una direzione alla vita di tutti e spessore alle scelte che ciascuno si trova a discernere.

È annunciatore della parola di Dio sopra ogni altro impegno e aspirazione personale, perché la parola che annuncia fa conoscere all’emisfero creativo che il suo non è un mondo psicotico fuori della realtà, ma che in esso son conservati i frammenti di ciò che ogni essere umano sarebbe stato, se non lo avesse preceduto una catastrofe cosmica – i cristiani lo chiamano «peccato originale». Il prete fa intravedere, con parole umane, un futuro riconciliato, in cui ogni personalità sarà risanata e perfettamente integrata.

La parola che ogni cristiano ha accolto e dovrebbe annunciare illumina, ordina, fa conoscere ruoli e destini, è il fondamento su cui si fonda la nostra fiducia nell’esistenza di un mondo fuori di noi, conoscibile, sperimentabile e amabile. La parola di Dio dà forza a entrambi gli emisferi, li rende amici tra loro e capaci di arte e genialità.

Il prete conosce queste cose e le vive, se vive davvero della parola che annuncia; a volte, per indole o poco studio e impegno, è poco avvezzo alla poesia come arte, ma ne vive le stesse dinamiche. Se disprezza l’arte, se disprezza i poeti, non sa di disprezzare sé stesso. 

Il poeta, d’altronde, si perde a volte in sciocchi giochetti retorici e spreca l’arte che venera, fallendo il suo vero obiettivo: mostrare la propria umanità con umile orgoglio, per essere specchio di ogni persona, consapevole della propria e comune, fragile dignità.

A volte confida in ciò che pensa più che in ciò che sente, non sapendo di rifiutare così la profondità di sguardo che Dio gli aveva donato, e si adegua alle idee che l’ambiente in cui vive gli ha lentamente inculcato; invece che vita e novità, offre quel nulla che il mondo si attende e di cui ha costante terrore.

È stato il dramma degli artisti che hanno ceduto allo slogan «l’arte per l’arte» contro una tradizione che cercava, con sforzo e fatica, di ricreare l’armonia, la bellezza e la pregnanza di ogni creatura, rendendo così omaggio – molto spesso senza accorgersene – all’artista che tutto ha creato. Senza Dio si canta solo il vuoto che rimane in noi.

È stato bello vedere la ricerca di verità nello sguardo di questi poeti, ma triste costatare che quasi nessuno sembra conoscere la strada che vi ci porta; è stato commovente ascoltare il loro anelito di fraternità universale, ma raggelante la sicurezza che hanno ch’essa non possa avverarsi; è stato consolante ammirare la giocondità con cui è decantato l’amore umano, ma deprimente notare che quell’amore non li abbia spinti a chiedersi da dove esso provenga, in un mondo che credono composto di vibrazioni, onde e atomi immersi nel vuoto. 

L’essere umano è più grande di quello che crede, è più grande di quanto egli stesso osi sperare, ma la sua grandezza è nel saper riconoscere il senso dell’esistenza di ogni creatura, è nel dar voce a quell’amore che porta nel cuore e lo spinge a creare: assemblare parole per dare un senso alle cose è il modo con cui Dio fa completare a noi la sua opera creatrice. Il poeta ne è il più alto artefice, di questo assemblaggio, ma solo dopo il più semplice dei preti che, forse anche senz’arte, conosce la fonte da cui trarre verità e amore.

I poeti che hanno attinto a quella stessa fonte hanno superato i millenni e ancora oggi sono i maestri più eccelsi, perché hanno cantato davanti agli uomini la verità nascosta nel cuore di ciascuno: che quell’amore che dico esser mio, quell’amore che sento e che spargo nel mondo mi è stato donato, ed è la firma che mi ha lasciato nel cuore Colui che mi ama di quell’Amor «che move il sole e l’altre stelle» (Dante, Divina Commedia, Paradiso, XXXIII, v. 145).


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