“Imprevisti, amori e misteri in una lunga e calda estate romana”: potrebbe esser questo, a mio avviso, l’espressivo titolo di una ipotetica recensione a questa ennesima prova letteraria dell’instancabile Rita D’Andrea. Mi riferisco, ovviamente, a Il braccialetto con la farfalla dorata, un’intricata indagine poliziesca su una serie di violenze e su un tentato omicidio a danno di ragazze diciottenni; indagine che si dipana, sul piano temporale, tra l’inizio della primavera e la fine dell’estate di un anno che potrebbe essere benissimo il corrente 2022 e, dal punto di vista spaziale, tra Roma (in particolare i quartieri borghesi e medio-borghesi che gravitano intorno alla stazione Termini), l’impervio ma affascinante litorale ligure e le assolate e tranquille spiagge della Tuscia viterbese.
Il breve ma avvincente romanzo di Rita D’Andrea è esposto in una scrittura che risulta essere la più adatta ad un “giallo” che vuole ripercorrere classici e moderni modelli di grande successo (da Conan Doyle ad Agatha Christie, da George Simenon a Friedrich Duerrenmatt, da M. Vasquez Montalban al Borges dei “Sei problemi di don Isidro Parodi”, da Gilbert K. Chesterton a Raymond Chandler, per concludere con i nostri Leonardo Sciascia, Giorgio Scerbanenco, il duo Fruttero e Lucentini e, last but not least, il prolificissimo Andrea Camilleri); una scrittura piana e semplice (con uso prevalente della paratassi in luogo dell’ipotassi), che riproduce forme e costrutti del “parlato” quotidiano (la “Umgangsprache” dei tedeschi), che rifugge da quegli “orpelli” e da tutti quei fronzoli che possano richiamare anche il semplice sospetto di influenze barocche; una scrittura, in definitiva, comprensibile e gradita alla grande platea dei milioni di lettori che si dilettano del genere poliziesco e che, da esso, ricavano con la massima frequenza quel “piacere del testo” teorizzato da autorevoli e voracissimi lettori quali furono (tanto per citare alcuni tra i più celebri) Roland Barthes, Jorge Luis Borges e il nostro Umberto Eco (quest’ultimo non solo in veste di super lettore, ma anche come ineguagliabile autore di gialli: si veda, tra tutti, l’indimenticabile Il nome della Rosa).
Ma, dicevamo, non solo mistero e delitti; in questo breve romanzo della valorosa Rita D’Andrea c’imbattiamo anche in altri immancabili “ingredienti” che rendono più sapido quel piacere del testo al quale si accennava poc’anzi: imprevisti incontri che, pur casuali, costituiscono la causa occasionale per la nascita (a volte anche la ri-nascita) di amori i quali, per fortuna del genere umano, risultano necessari, anzi indispensabili, al fine di contenere e opporsi a quel fiume di odio, di avversione, di ostilità che, covato nelle profondità della psiche, rappresenta l’humus “colturale” all’ideazione e alla commissione di reati, di violenze contro le persone (soprattutto contro le donne), di efferati delitti.
Nel testo escogitato così egregiamente dalla D’Andrea, ciò che emerge con forza non è soltanto la sua capacità di “costruzione dell’intreccio” (il “plot” degli anglosassoni), ma anche la sua volontà di contribuire a combattere, con gli strumenti della scrittura, contro quel doloroso e crescente fenomeno sociale costituito da tutte le violenze e i delitti perpetrati quotidianamente contro l’universo femminile.
Non è la prima volta che l’autrice affronta questo tema: lo ha trattato in passato e, credo fermamente, continuerà a farlo anche in avvenire, in future e imminenti e intriganti storie che, le auguriamo, possano sortire con facilità dalla sua fertile inventiva letteraria.
Grazie Francesco, bell’articolo e grazie per la bellissima recensione sul mio romanzo.