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L’aria che tira all’Alberone

Come un albero racconta il quartiere che cambia

In quella piazza che oggi ospita un traffico costante ad ogni ora del giorno – con le carreggiate che a tratti diventano più di quelle autostradali e il via vai di persone che entrano ed escono da negozi e bar – una volta c’era un leccio grosso e maestoso. Così grosso e maestoso da diventare il punto di riferimento di un intero quartiere.
Oggi quella piazza si chiama Piazza dell’Alberone, come se quel leccio fosse diventato col tempo uno di quei templi laici intorno ai quali le società si raccolgono e sviluppano la propria identità.
“Io abito all’Alberone”, dicono gli anziani, mentre i più giovani preferiscono chiamarlo Furio Camillo, oppure Pontelungo: sono la toponomastica e il senso di appartenenza che cambiano col cambiare della città.

Lo straniero che oggi dovesse passare per Piazza dell’Alberone non avrebbe la sensazione di trovarsi di fronte ad un simbolo della città. Avrebbe forse ragione anche a riderne: “Alberone”, e invece lì in mezzo c’è un ramoscello vergine e fragile che dà l’idea di piegarsi anche davanti a un soffio di vento.
Dell’originaria maestosità dell’Alberone non è rimasto niente se non un vago ricordo.

Quel primo grande leccio – quello secolare che vide le truppe alleate marciare sull’Appia per cacciare gli ultimi nazifascisti dell’Appio Latino, quello che resistette all’inondazione del 1937, quello all’ombra del quale il 28 settembre 1978 morì Ivo Zini colpito dai proiettili dei NAR – morì nel 1986.
Dopo di lui venne il leccio che i ventenni di oggi credono essere il vero Alberone, ma che dell’Alberone è solo un vicino parente.

Alberone 1986 piantato

Da quel 1986 a Roma ne sono cambiate di cose: la speculazione edilizia – e in primis quella legata a Italia ’90 – si è mangiata la città. Nuovi quartieri sono nati a ritmi impensabili, mentre i trasporti restavano immobili a guardare. E poi è stata la volta di Tangentopoli, di Berlusconi, del cambio di millennio. Tutto all’ombra di un albero che cresceva e imperterrito continuava a proteggere la propria gente come figli acquisiti da accudire e tutelare.

All’ombra dell’Alberone ’86 noi ci siamo cresciuti. Ci abbiamo giocato a pallone, ci siamo arrampicati e nascosti, ci abbiamo guardato le prime ragazze e ci siamo scambiati i primi baci, mentre i primi peli ci spuntavano sul viso.
Alberone caduto 2014Poi un giorno ci siamo alzati e abbiamo scoperto che quel leccio non c’era più. È crollato il 7 novembre 2014 col maltempo: un fulmine lo ha colpito e lui è caduto per terra.
Tutto il quartiere lo pianse come deve piangersi un simbolo, a testimonianza del senso di appartenenza che da quell’albero promanava.
Venne a sostituirlo un leccio più piccolo, che fu piantato in pompa magna, alla presenza del Sindaco e dei giornali. Quel giorno sembrava di stare dentro a un film di Tornatore: tutta quella modernità delle telecamere e dei fotografi sembrava incontrare per la prima volta un quartiere che appare sempre tradizionale, genuino e fieramente antimoderno.
alberoneIl tempo di qualche dichiarazione e poi via: telecamere sparite, e al centro della piazza un alberino poco più che anonimo.

In meno di un anno quell’alberino è morto. Forse non è mai riuscito ad adattarsi al suo nuovo posto di responsabilità, o forse non ha gradito il quartiere.
La notizia è che la sua morte non è stata una notizia.

Foto di Piero Tucci
Foto di Piero Tucci

Giusto qualche articolino ha raccontato della piantumazione di un nuovo leccio, più giovane e per questo più disposto al trauma del trasferimento: niente titoloni, niente Sindaco, niente telecamere. Ci sono abitanti del quartiere che si sono accorti dell’accaduto con settimane di ritardo, e che hanno riso di quell’albero che davvero è poco più di un ramoscello. Eppure, nella freddezza con cui ha rifiutato quell’angolo di Capitale, il terzo leccio ha raccontato bene le relazioni che esistono tra la città e i propri abitanti. Quel leccio piccolo e secco ha dimostrato che se a una comunità si sottrae il proprio simbolo essa si sfalda. Perché un simbolo unisce, crea coesione sociale e umana, e trasporta le interazioni tra esseri umani su di un livello più intimo e profondo.

I bambini che oggi hanno dieci anni non si arrampicano sull’Alberone, non ci giocano a pallone né a nascondino, e perciò un domani non daranno lì i loro primi baci. Andranno altrove, magari vicino, ma in posti più anonimi e nascosti. Ricorderanno luoghi che non hanno condiviso coi coetanei, e per questo saranno un po’ più poveri. E un po’ più povero sarà il quartiere intero, non più capace di offrire un luogo dove poter riunire tutti i propri figli, come fanno le famiglie alla sera quando ci si riunisce intorno alla tavola. Una tavola calda e apparecchiata: questo è stato l’Alberone, e così dovremo raccontarlo ai nostri figli per preservare almeno il ricordo di quel simbolo che fu.


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Un commento su “L’aria che tira all’Alberone

  1. Mi sono trasferita a Roma solo tre e anni e mezzo fa e il caso quella volta ha voluto che capitassi proprio qui, a vivere in questo quartiere stupendo che i più nostalgici (i miei amici e me compresi) chiamano ancora ‘Alberone’. Ho avuto il piacere di passarci due anni lì intorno. Quell’area, che nella mia mente è sempre arancione date le luci di discutibile utilità che la illuminano, ne ha viste davvero tante. Un punto di riferimento, quel momento in cui ‘sono all’Alberone, un minuto e salgo a casa’, luogo di ricordi, un miraggio nei miei occhi. Non c’è più il grande leccio che ho trovato quando sono arrivata, appena diplomata, nella Capitale nel 2012 ma resterà sempre il simbolo del quartiere che mi ha accolta e mi ha fatto sentire poco la nostalgia del mio paesino del sud, che mi ha fatto conoscere gli amici più cari e sa sempre farmi sentire a casa.
    Complimenti, bellissimo articolo.

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