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“L’Italia l’è malada…”

Se l’Italia fosse una persona che legge i risultati delle sue analisi del sangue, scoprirebbe con allarme di avere tutti i valori sballati. Le frecce all’insù e all’ingiù del referto sarebbero così numerose da riempire una faretra. I globuli bianchi, diventati grigio-neri, sarebbero in grande eccesso, mentre quelli rossi sprofondati all’ingiù segnalerebbero una netta diminuzione delle difese immunitarie tale da esporre il corpo a ogni patologia.

Fuor di metafora, la lettura dei dati delle elezioni europee di domenica scorsa ci dice in termini nudi e crudi che “l’Italia l’è malada”, come diceva un’antica canzone proletaria. Non è una novità, né una sorpresa. Anzi, il cancro nazionalista e, per così dire, “reazionario di massa” che l’aveva già attaccata da qualche tempo, ovvero il leghismo salviniano, è diventato metastasi diffusa nei dieci mesi di governo gialloverde. Lo si sapeva e lo si vedeva,

i sondaggi ne rilevavano la progressione geometrica ma guardarlo fissato al 34,4% fa un certo effetto, così come fa un certo effetto, soprattutto fra gli interessati “grillini”, vedere il loro quasi dimezzamento. Un qualche sollievo c’è stato nel PD nel vedere un recupero in percentuale che ha fatto dire al segretario del PD Zingaretti, come al Papillon in fuga dall’isola del diavolo nella Guyana francese, “siamo ancora vivi”.

 

I risultati elettorali sono noti, tuttavia si prestano a qualche considerazione.

La prima è che sul piano europeo il nostro paese è in controtendenza con la maggior parte degli altri Stati in fatto di partecipazione. Non sono andati a votare 4,5 elettori su 10. Di ciò non importa un fico a nessuno del circo politico-mediatico, tuttavia ci dice che le percentuali di ogni partito, a cominciare da quella vertiginosa della Lega, vanno rapportate all’astensionismo crescente, sebbene temperato dalla tornata amministrativa che ha interessato una Regione, il Piemonte, e diversi paesi, cittadine e città capoluogo.

La seconda è la constatazione che le elezioni europee si sono giocate esclusivamente sui temi nazionali. L’agenda era già stata imposta da Salvini che è partito, anzi ha proseguito senza soluzione di continuità rispetto alle elezioni politiche nazionali, il tour elettorale fin dal suo insediamento al Viminale. Ha toccato in questi dieci mesi tutti i temi, in primis quello dell’immigrazione, che solleticavano le paure degli italiani e gli istinti primordiali dell’egoismo sociale e dell’anti solidarismo. Dal tema securitario (legittima difesa e campi rom), ai temi di un certo cattolicesimo integralista ossessionato dal femminismo, dai comportamenti omosessuali, dalla famiglia aperta e non tradizionale (family day), fino ai grembiuli nelle scuole e alla chiusura dei negozi che vendono cannabis terapeutica ecc.. Il tutto condito con il repêchage di memorie e pose fascistoidi. La persistente questione sociale è stata da Salvini, complice l’inanità del M5s e della sinistra, indirizzata verso temi e tasti securitari tipicamente xenofobi e di destra  Salvini ha stravinto anche in luoghi, come Riace, dove sembrava che la politica d’integrazione degli immigrati di Mimmo Lucano avesse funzionato ottenendo il consenso dei residenti. La sinistra non è riuscita a imporre né la propria agenda né le proprie proposte, piuttosto vaghe, a cominciare da quelle sul lavoro, né la giustificata paura sullo stato dell’economia e delle sue prospettive. La paura del “baratro” non ha inciso. Hanno continuato a fare effetto, invece, le altre paure, quelle propinate dalla Lega e da Fratelli d’Italia della Meloni.

Terza osservazione. Il M5s ottiene non una sconfitta ma una disfatta. Dimezza in un anno il suo consenso, paga soprattutto l’astensionismo degli elettori specie al sud e cede elettorato alla Lega. I “grillini” sembrano aver fatto in questi mesi non da argine ma da ponte nello spostamento a destra del paese. In circa un anno di governo i rapporti di forza interni al governo gialloverde sono ribaltati a favore di Salvini. Tuttavia il M5s rimane ancora il primo partito nel Mezzogiorno e nelle isole. Non gli rimane che prendere atto di una situazione irrecuperabile a livello di governo e darsi un’exit strategy. E poi aprire subito una riflessione sui limiti di fondo della sua costituzione sociale e culturale che non può più basarsi sulla trasversalità politica; sulla pagliacciata della democrazia diretta fondata sul clic; sulla selezione di una classe dirigente con il metodo roussoiano della pesca a strascico sia al centro che nei comuni e nelle Regioni; sulle proclamazioni epocali quanto ridicole del superamento delle categorie di destra e sinistra, della nascita di una terza Repubblica, quella  “ dei cittadini”, dell’ “abolizione della povertà” ecc. Anche perché chi era di sentimenti e orientamenti di destra se n’è già andato di corsa incontro alla Lega.

Quarta osservazione. Il PD, come si è detto, si è scoperto vivo anche per luce riflessa di un sorpasso all’indietro dei “grillini”. Le vittorie ottenute in alcune grandi città e i buoni risultati nella Capitale, non devono, però, oscurare il disastro cui si è di fronte: la perdita del Piemonte, la Lega primo partito nelle regioni ex rosse come l’Emilia e l’Umbria, il dilagare di Salvini al centro e la crescita al sud. Zone tradizionalmente rosse che prima sono diventate giallo-grilline e poi rapidamente verde-leghiste. Non ha fatto un bell’effetto vedere, dopo il primo exit poll, una foto del vertice dem, Zingaretti e Gentiloni, sorridenti e soddisfatti – evidentemente del sorpasso sui grillini e del 4% in più – mentre complessivamente la destra xenofoba e fascistoide di Salvini e Meloni conquistava vette mai raggiunte in Italia dalla Liberazione in poi. Salutare il 22,7% come un ritorno al bipolarismo fra destra e sinistra è ancora presto, visto che ultimamente i poli nascono e declinano con una certa facilità. Anche se, sotto il profilo puramente numerico, l’area del vecchio centrosinistra oggi raggiunge una percentuale tra il 28 e il 30%. Ma non sempre in politica due più due fa quattro se la somma non è fondata su un idem sentire e, soprattutto, su un solido rapporto con i ceti e le classi popolari. Tuttavia, a parte questo, le prime dichiarazioni di Zingaretti e la sua relazione alla direzione di giovedì scorso concernente la prospettiva politica del partito, hanno teso alla prudenza e, soprattutto, a sottolineare il grande cammino che il PD “revenant” ha davanti a sé per riconquistare un consenso popolare ridottosi fortemente negli ultimi anni renziani.

Le montagne da scalare sono almeno tre.  La prima, una linea politica che metta da parte l’arroccamento dettato finora da Renzi e si dispieghi a tutto campo. Il senso comico del rignanese l’ha portato a rivendicare a sé, da una parte, il risultato conseguito dai dem, subito definito, però, dall’altra parte, con malcelata invidia, un “pareggio”. Avendo sempre considerato il M5s il nemico principale, è giusto che consideri il risultato complessivo un suo successo. Che poi a stravincere sia una destra xenofoba, evidentemente, la cosa per lui è del tutto secondaria.

La seconda montagna da superare è una politica economica e sociale che sappia parlare al mondo variegato dei lavoratori e del ceto medio impoverito e che ponga con forza il tema redistributivo della ricchezza nel quadro di una politica neo keynesiana. D’Alema ha esplicitato il problema con una battuta delle sue: farsi spiegare da Landini come si parla agli operai. Una politica, inoltre, che non rifugga con sufficienza le paure dei più deboli, che di esse sappia farsene carico smontandole attraverso risposte concrete diverse da quelle puramente strumentali e xenofobe di Salvini. Il buonismo delle prediche in questi casi è del tutto inadatto alla bisogna.

La terza vetta, quella più alta e difficile, è la trasformazione del PD in un partito dal profilo pienamente di sinistra e socialista in grado di eliminare la “questione morale” che ha infettato larga parte dei suoi gruppi amministrativi nei Comuni e nelle Regioni. Ciò sarà possibile solo se la struttura del PD viene riformata aprendola all’apporto delle energie vive e vitali del vasto associazionismo della società civile progressista. In sostanza Zingaretti dovrebbe dare celermente quei segni di discontinuità che speranzosamente si aspettano coloro, non moltissimi stando al dato dei voti assoluti in leggero calo, che hanno rivotato PD dopo i nefasti renziani. Segni corposi in grado di avviare la riconquista di milioni di voti rifugiatisi nell’astensione o nel voto ai “grillini”; e che lì ancora stanno. Nell’immediato, due sembrano essere le cose su cui si aprirà il dibattito tra i dem. La prima, come si è detto, quali proposte e iniziative politiche concrete sulla questione sociale tali da dare il senso di una svolta popolare a sinistra  del PD; e la seconda come atteggiarsi nei confronti dei “grillini”. Su quest’ultima gli esponenti della corrente di Franceschini (ex Margherita-popolari) e quelli di una parte degli ex DS sembrano essere i più propensi ad aprire un confronto con il M5s.

La sinistra, complessivamente intesa anche nel suo associazionismo presente nella società civile, sbaglierebbe, però, se si ponesse solo il problema del M5s. Ve n’è uno ben più grande segnalato dai risultati elettorali: come aggredire il voto popolare per Salvini. Dice il proverbio: “Se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto”. Qui è vero il contrario, è Maometto che deve muoversi celermente perché sulla montagna si è assiso il capo leghista. La dimensione del problema l’ha delineata, qualche mese fa, un’indagine Ipsos sulla composizione sociale del voto salviniano: “L’elettore leghista è tipicamente una donna, intorno ai 40 anni e con una bassa istruzione. Dal punto di vista lavorativo, gli operai che votano il partito di Matteo Salvini superano il 40%, mentre tra chi si ferma alla licenza elementare la Lega ottiene il 37,3% dei consensi, solo il 21% tra i laureati. Nonostante l’aumento del voto al Sud, l’elettore tipico leghista vive nel nordest d’Italia ed è credente”.

Alla sinistra urge armarsi di piccozza e scarponi chiodati.

 

Aldo Pirone


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