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Memoria disabile: troppo intelligente per fare sport!

Lui si chiama Luca, Luca Venturelli, ha 18 anni, è un atleta disabile, perché autistico. Nonostante sia primatista italiano paralimpico degli 800 e dei 1.500 metri su pista – è notizia recente – non potrà correre per l’Italia, né agli Europei di Atletica Paralimpica, né alle Paralimpiadi. Perché? Perché è troppo intelligente.

Certo, sembra un controsenso e ha del grottesco, ma purtroppo così è. E’ la regola. Infatti, per evitare di avvantaggiare qualche atleta, considerato che la Categoria in cui gareggia Venturelli raggruppa disabilità diverse, è stato stabilito dal Comitato Paralimpico internazionale, un limite al QI, il Quoziente Intellettivo dell’atleta non deve essere superiore a 75, così Luca, che quel limite lo supera, è stato escluso dalle gare.

Molto spesso le persone autistiche – meglio, che presentano Disturbi dello Spettro Autistico (DSA) – hanno quozienti intellettivi molto alti, ma ciò non vuol dire che non abbiano difficoltà in diversi ambiti; sociali, verbali, sensoriali e dal punto di vista delle autonomie. Se astrattamente la regola si può capire, praticamente andrebbe eliminata perché dà corpo ad una discriminazione in un settore dello Sport in cui le discriminazioni non dovrebbero assolutamente trovare spazio.

Quello paralimpico è (meglio, dovrebbe essere) uno sport senza limiti. Il motto degli atleti paralimpici recita infatti: “Dove non arriva il corpo, arriva la mente, dove non arriva la mente, arriva lo spirito”. Dunque, un’azione sportiva che si confronta – e deve continuare a confrontarsi – solo ed esclusivamente con i limiti posti agli atleti dalla loro disabilità. Una regola, quella che ha causato l’esclusione di Venturelli, che rende chi l’ha proposta ed accettata, cieco davanti alla realtà di un atleta autisticoì, intellettualmente sopra la media di quelli come lui … e non solo di quelli. Già, la cecità. Mentre leggevo l’articolo che raccontava questa storia incredibile, mi è tornato in mente il Romanzo dello scrittore portoghese Josè Saramago, Premio Nobel per la Letteratura 1988, intitolato appunto Cecità (Feltrinelli, 2013), di cui consiglio la lettura o la ri-lettura, e, in particolare, alcune righe fulminanti, eccole: “Secondo me non siamo diventati ciechi. Secondo me lo siamo. Ciechi che vedono, ciechi che, pur vedendo, non vedono.”

Il riferimento al Romanzo di Saramago che, con una storia inventata, porta alla luce la cecità degli uomini di fronte ai fatti importanti della vita, mi lancia (per rimanere nell’ambito sportivo) un perfetto assist per scrivere del libro che voglio consigliarvi oggi. Si tratta di “Il Domo Oscuro”, scritto dall’australiano John M. Hull (1935-2015), che è stato Professore di Teologia e Scienze Religiose a Birmingham e pubblicato in Italia da Adelphi. nel 2019. Già dalla copertina, di un nero profondo, il libro ci introduce nel mondo delle persone prive della vista. Avete letto “scritto da”, in realtà il libro Hull non l’ha evidentemente scritto, ma l’ha dettato al registratore in momenti diversi della sua “seconda esistenza”, quella di persona cieca. La sua cecità infatti, lo scrittore australiano, l’ha acquisita verso i quarant’anni: prima è arrivata una nebbia sempre più fitta, poi c’è stato il buio, assoluto e profondo. Quando scrive (meglio, detta): “Ora non vedo davvero più niente. Non distinguo il giorno dalla notte. Posso guardare fisso il sole senza avvertire il minimo bagliore»”, John M. Hull è ormai cieco da tre anni. Dunque, da cieco, lo scrittore ricordava luoghi, persone e situazioni che aveva visto, ma lentamente quei ricordi si erano sbiaditi e poi scomparsi del tutto. Così Hull ha dovuto, per così dire, resettarsi, ovvero resettare il proprio cervello reinventandoli, immaginandoseli ex novo facendosi, in questa operazione, aiutare dagli altri sensi.

Il libro che – come spiega lo stesso autore – non ha una struttura precisa e ordinata, ma raccoglie, senza soluzione di continuità, le registrazioni, all’inizio quasi quotidiane, così come sono uscite dalla voce – a volte ferma, a volte meno, a volte calma e a volte no.

Sprofondare nell’oscurità significa vivere altrove, occupare non-luoghi in cui lo spazio e il tempo sono continuamente ridefiniti. Nella vita di Hull – ma con certezza nella vita di ogni cieco acquisito – esiste un prima, fatto di cose perdute e ritrovate con un gesto, ma esiste però anche un dopo, oscuro e inimmaginabile, in cui (ci spiega sempre l’autore) – “il vento ha preso il posto del sole” Non vedere significa non avere riferimenti o direzioni, ma non è detto che questa condizione non acquisti per qualcuno un valore positivo (da qui il dono del titolo); non permetta di avere riferimenti o direzioni, per così dire, nuovi e diversi dai primi. Dunque il libro è il racconto di come sia possibile ritrovare riferimenti e direzioni.

E’ stato per Hull – e credo lo sia per ogni persona che non nasce cieca, ma ci diventa – un cammino difficile da fare, a volte disperato e disperante. “Oggi non riuscivo a ricordarmi da che parte è rivolto il tre, scritto in numeri arabi. Ho dovuto tracciarlo nell’aria con il dito”: Basterebbero queste parole a far capire quanto sia stato appunto difficile e disperante quel cammino … Eppure in Il Dono Oscuro, non c’è nessuna vittima, perché lo scopo di Hull non è raccontare il dolore (che pure arriva con una chiarezza e un controllo disarmanti), ma comprendere cosa sia la cecità, trovare un senso a ciò che è accaduto, osservare la perdita e trovare gli strumenti per continuare a vivere.

Ancora un piccolo consiglio. Se siete amanti delle Fiction e del crime e siete iscritti a Rai Play vi consiglio, nella Sezione Fiction Crime, di cliccare sulla foto di “Blanca” e di guardare le sei puntate della Serie. La Fiction è liberamente tratta dai Romanzi di Patrizia Rinaldi e racconta la storia di una ragazza cieca (e del suo cane-guida, Linneo) che – da stagista in Polizia (anche se cieca) riesce, grazie alle abilità sviluppate proprio perché priva della vista (è stata impegnata presso la Procura di Genova nel decodage dei file audio) a risolvere diversi casi, nonostante che tutti la guardino, all’inizio, con molta diffidenza e con lo scetticismo che spesso, i normodotati, sfoderano di fronte ai disabili.

Ad interpretare Blanca Ferrando è Maria Chiara Giannetta, attrice vedente, che ha raccontato di essere riuscita nella parte grazie alla consulenza di Andrea Bocelli – ipovedente dall’età di sei anni e cieco da quella di dodici per una pallonata in faccia, rimediata durante una partita di calcio – anche grazie alla lettura del libro di John M. Hull di cui sopra. La Serie TV è girata, per la prima volta in Italia (ma credo nel mondo), in Olofonia, una particolare tecnica di registrazione e riproduzione del suono che permette di essere al posto della protagonista.

Ultima annotazione: l’Olofonia, che utilizza un particolare microfono detto olofono, è stata inventata in Italia da Umberto Maggi (ex bassista dei Nomadi, quelli di Augusto Daolio), Maurizio Maggi e Hugo Zuccarelli ed è stata utilizzata, negli anni ’80 del ‘900, anche da artisti del calibro dei Pink Floyd e di Roger Waters.


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