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Memoria femminile: una storia di donne e di guerra

Un Romanzo la riporta alla luce e ci racconta

“Andiamo, altrimenti quei poveretti muoiono anche di fame”. E’ la frase attribuita alle Portatrici carniche che – durante la Prima guerra mondiale – raccolsero l’invito dei Comandi Militari italiani di portare rifornimenti ai soldati impegnati sulla Fronte delle Alpi Carniche. Le strade impervie rendevano impossibile organizzare efficienti rifornimenti e non si riusciva neppure a portare il cibo, allora dovettero pensarci le donne.

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“C’è un’espressione più felice che racconta la tenacia di questa stella alpina: noi la chiamiamo ‘fiore di roccia’. ” Il capitano Colman annuisce. “È questo che siete. Fiori aggrappati con tenacia a questa montagna. Aggrappati al bisogno, sospetto, di tenerci in vita.” (Ilaria Tuti, “Fiore di Roccia”, 2020)

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Questa è una storia di guerra, e di donne. E come spesso accade alle storie delle donne, è una storia dimenticata. Questa non è una storia qualunque, ma è una storia di fatica e di morte, ma anche di coraggio e abnegazione. Insomma, è una storia di cui vale la pena fare Memoria, magari attraverso un Romanzo.
 Il Romanzo s’intitola “Fiore di Roccia”, lo ha scritto Ilaria Tutti, scrittrice originaria di Gemona del Friuli, e lo ha mandato in Libreria, nel 2020, la Casa Editrice Longanesi.

Ci siamo riunite con il buio, quando gli animali, i campi e gli anziani costretti a letto non avevano più necessità da soddisfare. Ho pensato che da sempre siamo abituate a essere definite attraverso il bisogno di qualcun altro. Anche adesso, siamo uscite dall’oblio solo perché servono le nostre gambe, le braccia, i dorsi irrobustiti dal lavoro. Nel fienile silenzioso, siamo occhi che inseguono altri occhi, in un cerchio di donne d’ogni età. C’è chi ha il figlio attaccato al seno. Qualcuna è poco più di una bambina, se di questi tempi è ancora ammesso esserlo, se in questa terra aspra che non concede mai nulla per nulla sia mai stato possibile esserlo.”. Così inizia il Romanzo della Tuti, ma prima di scriverne, raccontiamo la storia che gli fa da sfondo.

Le protagoniste sono le Portatrici carniche, che durante la Prima guerra mondiale, da Agosto 1915 ad Ottobre 1917 (momento della “rotta” di Caporetto) accettarono di fare parte di un Corpo di Ausiliarie dei due Battaglioni alpini di Tolmezzo e Val Tagliamento, schierati sulle montagne della Carnia (Friuli Venezia Giulia) in una posizione strategica fondamentale per impedire la penetrazione in Italia dell’Esercito austro-ungarico.

Le retrovie e il Fronte (meglio, “La Fronte”) erano in una zona impervia delle Alpi Carnie, senza strade ma con solo sentieri e pietraie per cui neanche i muli – tradizionale complemento animale delle truppe alpine italiane – potevano essere utilizzati per i trasporti del materiale, soprattutto quando c’era la neve alta e poi i magazzini militari erano nel fondovalle. Per questi motivi fu chiesto, dai Comandi militari italiani, alle donne dei paesi della Valle un aiuto per portare vettovaglie, munizioni, medicinali, attrezzi ai circa 12.000 soldati in trincea che non potevano lasciare le postazioni di alta montagna.

Le donne che risponderanno a quell’Appello saranno circa 2mila, dai 18 ai 60 anni. Non furono parte di un Corpo militare e non furono obbligate a fare quello che veniva loro chiesto di fare. Non erano un Corpo Militare, ma tutte adottarono una autodisciplina ferrea, consapevoli dell’importanza e della pericolosità del compito che era stato loro affidato.

Ogni mattina, all’alba, si caricavano sulle spalle, dentro le gerle, un peso tra i trenta e i quaranta chili; portavano al braccio un nastro rosso col numero del Reparto militare a cui dovevano fare riferimento e iniziavano l’avvicinamento alla loro meta in alta montagna.

Per quel “lavoro”, ricevevanoo l’equivalente di 3,5 Euro al giorno, per una marcia che durava per ore e che iniziava alle cinque del mattino con un dislivello da superare tra i 600 e i 1200 metri. Al ritorno, a volte, riportavano a valle i morti in barella e si occupavano anche della loro sepoltura. La strada da percorrere era sempre la stessa e i cecchini austriaci lo sapevano e le aspettavano al varco, come si dice. Così tre di loro vennero ferite: si chiamavano Maria Muser Olivotto e Maria Silverio Matiz entrambe di Timau e Rosalia Primus, di Cleuli e una Maria Plozner Mentil – 32 anni, quattro figli e un marito in prima linea sul Carso – venne uccisa, il 15 Febbraio del 1916. Il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro molti anni dopo, nel 1997, volle andare, di persona, a consegnare la Medaglia d’Oro al Valore Militare alla Memoria, concessa a Maria e le Croci di Cavaliere  della Repubblica Italiana alle poche superstiti, ormai ultranovantenni.

Maria Plozner Mentil (1884-1916) è il simbolo delle Portatrici.  E’ l’unica donna a cui sia stata intitolata una Caserma militare, oltre che la prima a ricevere, anche se solo nel 1997, la Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria. Il non essere state militarizzate ha fatto sì che quelle donne, non solo non ricevessero il sostegno economico spettato, invece, ai soldati che avevano combattuto nel conflitto, ma soprattutto le ha fatte dimenticare molto in fretta e molto a lungo. Eppure, per chi in quelle trincee si trovava davvero, le Portatrici carniche erano considerate al pari di un Reparto militare, e veniva loro rispettosamente rivolto il saluto militare. Maria Plozner Mentil – colpita da un cecchino austriaco mentre saliva a consegnare i rifornimenti – fu sepolta con gli onori militari sotto i bombardamenti, in presenza di tutte le sue compagne e di un picchetto militare. I suoi resti si trovano nel Tempio Ossario di Timau, insieme a quelli di 1626 alpini, fanti e bersaglieri. All’ingresso del Tempio Ossario, una scritta recita: «Ricordati che quelli che qui riposano si sono sacrificati anche per te».

Il monumento in bronzo dedicato alla memoria della Portatrice Carnica Maria Plozner Mentil, a Timau, in Provincia di Udine

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Si ritrova molto di Maria Plozner Mentil nei personaggi del libro della Tuti. Ma perché intitolarlo Fiore di roccia? I soldati, in una situazione particolare, avrebbero desiderato donare delle rose a queste donne, fiori che però, chiaramente, erano irreperibili. Scelsero, quindi, le resilienti stelle alpine: «È questo che siete. Fiori aggrappati con tenacia a questa montagna. Aggrappati al bisogno, sospetto, di tenerci in vita.», dirà uno dei soldati nel Romanzo

Ilaria Tuti con il suo Romanzo – vincitore del Premio letterario nazionale per la donna scrittrice 2021 e del Premio Internazionale di letteratura città di Como VIII Edizione – Sezione Narrativa Edita – riporta in superficie una storia dimenticata da molti, soprattutto al di fuori del Friuli. In molti, infatti, abbiamo dimenticato in fretta che fu anche grazie allo sforzo di queste donne se la Fronte italiana della Zona Carnia non cedette mai, almeno finché i soldati non dovettero abbandonare le posizioni mantenute con così grandi sforzi e sacrificio di vite e ripiegare sul Piave, dopo la sconfitta di Caporetto dell’Ottobre del 1917. Gran parte degli eventi descritti nel Romanzo della Tuti sono realmente accaduti, o hanno ispirato le parole della scrittrice, seppure in tempi più dilatati rispetto a quelli che troviamo nelle pagine.

Di solito, guardiamo al passato con l’occhio benevolo che si riserva a quanto ormai viene considerato arretrato e superato, specie per la condizione femminile, eppure queste donne ci stupiscono per la loro intraprendenza. I sacrifici che, tutte insieme, hanno fatto per portarci fin dove siamo sono stati qualcosa di cui tener conto, e di cui essere loro grati. Che abbiano, dunque, nella Memoria collettiva il posto d’onore che si sono conquistate.


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