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Pensieri sulla Chiesa e su un vescovo amico

Il 19 febbraio 2025 nella Basilica di San Pietro per l’ordinazione episcopale di mons. Filippo Ciampanelli

«Quasi quasi prendo una scopa e do una spazzata» ho sussurrato al sacerdote che mi stava affianco. È il 19 febbraio 2025 e sediamo su una panca della sacrestia della Basilica di S. Pietro, dove vescovi e cardinali si preparano per l’ordinazione episcopale di mons. Filippo Ciampanelli.

Il nostro don Filippo Ciampanelli diventa vescovo e lo avrebbe potuto ordinare papa Francesco, se non fosse stato ricoverato al Gemelli. A me e allo zio sacerdote di Novara don Filippo ha chiesto di fargli da “presbiteri assistenti”, ovvero, di stare al suo fianco durante la celebrazione e leggere il mandato del papa con cui si approva la sua elevazione all’episcopato. Ci siamo così ritrovati in mezzo a un’ottantina tra vescovi e cardinali, tutti affabili e allegri, che sembrano conoscersi come vecchi soci di uno stesso club e si scambiano complimenti con tono di scherzo.

È divertente seguire le citazioni in latino e i sottintesi teologici e biblici di cui è condito il loro umorismo un po’ caciarone, incomprensibile a chi non fa parte del giro di questi allegri cospiratori. Mi sento uno spettatore nel loggione, nonostante il loro tono accogliente: sarà per le vesti che indossano o i loro modi oltremodo gentili, frutto di una lunga esperienza nella diplomazia vaticana, oppure perché proprio la loro gentilezza mi disorienta e sono combattuto tra un deferente Eccellenza (o Eminenza) condito con complimenti in ebraico – per non essere da meno – oppure ridere assestando loro una vigorosa pacca sulla spalla. Pur di muovermi sicuro, prenderei volentieri però la ramazza e spazzerei l’intera Basilica Vaticana: saprei almeno se sto andando bene.

Don Filippo è impegnato intanto a ricevere i loro saluti e si nota la sua quotidiana familiarità con ciascuno di loro. Io invece mi chiedo cosa abbiamo mai in comune, io parroco di periferia e loro principi della Chiesa. Sono solo io però a farmi problemi, perché tutti sembrano a loro agio a parlare con me. Mi sembra di essere io l’unico snob, che percepisce una distanza tra noi.

Ci mettiamo in fila per due nella processione d’ingresso. È impressionante: statue enormi di marmo ci circondano, esempi di un’arte sublime, quando fissa il suo sguardo su Dio; tanta gente, ben vestita e in gioiosa attesa, ci saluta ai lati del corridoio centrale, mentre il coro intona un canto solenne e i preti orientali brillano di luce dorata per quelle vesti di foggia millenaria così riccamente adornate; e noi procediamo sotto cupole altissime che ricoprono l’enorme Basilica come a proteggere la nostra commozione da sguardi maligni che potrebbero sottrarci questa gioia.

L’incenso ha il profumo delle feste nel Seminario romano, mi ricordo mentre arriviamo all’altezza dell’ampia zona riservata ai confratelli preti, un centinaio, giunti qui persino da quei lontani paesi in cui don Filippo è stato in missione. Alle loro spalle tanta gente presente con i loro bambini, a testimonianza del bene che ha saputo elargire in questi ultimi anni ai giovani sposi.

Mi sento minuscolo. In qualche modo ne sono anch’io parte, di questo rito solenne, ma è enorme il contesto ai miei occhi: è enorme la Basilica, è enorme ciò che sta per succedere. Anche cardinali e vescovi sembrano piccoli ora: le nostre differenze sono annullate dalla rasserenante presenza di Dio nei cuori di tutti e dalla grandezza dei santi di marmo davanti ai quali sfiliamo. Io avrò, durante la Messa, san Domenico a guardarmi le spalle e davanti a me san Francesco che fissa il crocifisso che ha in mano. È arrivato ora il tempo di celebrare la Messa.

Tutto procede secondo copione e persino io, mentre leggo il mandato, sembro essermi elevato allo standard degli altri. È tutto molto bello, fino a quando prende la parola il celebrante, il cardinal Gugerotti. Allora tutto diventa stupendo: legge infatti un’omelia di straordinaria bellezza, di grande perizia oratoria e con contenuti che sanno di umana esperienza e divina sapienza. Ne resto ammirato.

La distanza che sentivo con vescovi e nunzi oramai si è già sciolta e neanche una traccia è rimasta. Riconosco la miopia che mi portava a guardare solo quel «piccolo frammento di terra» che il Signore mi ha sinora affidato e che è per me tutto il mondo; don Filippo, e tanti altri con lui, nascosti sotto chili di carta, vivono invece «orizzonti splendidi di una mondialità che spesso è ignota ai più», mi ripeto in mente più volte per non dimenticare: non c’è mai una penna quando ti serve!

Sono loro, quelli che pensavo lontani, a proteggere il mio dolce orticello, perché dediti a «difendere la gloria di Dio dagli attacchi dei tiranni che vogliono togliere alla persona umana la dignità, frutto dell’amore speciale che per essa prova il Dio Creatore e Redentore»; sono loro, gli alti burocrati, la voce della mia Chiesa, per «difendere i piccoli, gli ultimi, i malati, i perseguitati, gli addolorati, in una parola quelli che chiamiamo le vittime della società». Non mi sento più tanto piccolo, ma ora sento solo di dover esser grato. Come è bello vivere in questa mia Chiesa!

La Chiesa è un frattale

Il cardinale parla di matrioske, le bamboline russe dipinte, contenute una nell’altra. Da lì la mia fantasia decolla e arriva fino ai frattali. Li ho visti da poco su una rivista di scienze. Ecco cosa io sono, ecco la Chiesa cos’è: la Chiesa è un frattale!

Il frattale è una figura geometrica che ripete la sua forma su scale diverse: ingrandendo una qualunque sua parte si ritrova sempre la stessa figura geometrica. Ciò che sembra caotico e casuale si rivela al contrario ben strutturato. E così penso che ciò che come prete io sono, ciò che ogni giorno affronto e mi stanca, non è poi così unico e originale come tendo a pensare.

Ogni persona nella Chiesa vive ciò che io vivo e l’insieme di tutti, su più ampia scala, riproduce fedele lo stesso schema di vita. In fondo ognuno di noi vive nell’unica volontà di un unico Dio, sia che il suo mondo si limiti a un quartiere in città, sia che si estenda all’intero pianeta.

Faccio questi pensieri mentre il mio amico viene elevato da Dio a suo socio in affari: socio nel difendere e diffondere la verità dell’amore di Dio, socio nel gioire e soffrire per questa nostra umanità. Sono questi gli affari di Dio. Don Filippo ora è vescovo! Mi risveglio infine che siamo già alla Preghiera Eucaristica.

È la comunione a quell’unico pane, che per noi è Cristo in persona, a donarci quell’unico nostro sentire, quell’unica fede, quell’unico amore. Ero miope e rinchiuso nel mio piccolo mondo per non vedere ciò che mi unisce a quel cardinale a me sconosciuto, quale fraternità ci sia tra noi, più che tra fratelli di sangue, in quanto figli di un unico Padre, entrambi destinati alla gloria nei cieli, entrambi disprezzati nel mondo, entrambi immersi in quell’umana fragilità che seduce il cuore di Dio e lo spinge a farci suoi per proteggerci.

Mentre seguivo la fila per la comunione all’altare, mi è stato lampante ciò che prima non riuscivo a vedere, ovvero da dove spuntasse nei vescovi quella confidenza che avevano avuto verso di me già in sacrestia: non è altro che la santa allegria che sorge spontanea quando sai di essere Chiesa, una sola cosa con Cristo, vescovo o prete, ma sempre solo una piccola cellula del suo Corpo infinito.

Avrei dovuto esserne parte più attiva. Sono stato superbo. Piccolo lo sono di certo, ma non isolato; potrei dire pure che sono minuscolo, ma non abbandonato. Anch’io vivo, in quel frammento in cui sono, quello che ogni giorno don Filippo vive a un livello più alto; anch’io conosco e amo tutto ciò che conosce e ama il papa, pur se lui in modo più vasto e profondo.

In me, in fondo, c’è tutto, niente manca di ciò che vivono tutti quelli che seguono Dio; chi sta sopra di me vive anch’egli ciò che io vivo, mi è davvero fratello, mi protegge e capisce, e ora son certo anche che vede, da un livello più in alto, molto più lontano di me. Devo solo far bene ciò che mi è stato affidato, perché la Chiesa in ogni suo frammento sia santa e vitale, e di nient’altro mi devo occupare. Il capire questo, mi accorgo alla fine, è passato attraverso un cardinale a me sconosciuto e un vescovo che considero amico. Sia ringraziato quel Dio così umile da parlare, sotto vesti magnifiche, un linguaggio che penetra anche i cuori più poveri.

Auguri don Filippo! Quand’anche non ti dovessi vedere in parrocchia mai più, ora so che il tuo impegno quotidiano in ufficio è anche per me.

Grazie.


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