

Non ti aspetti tanta fede in coloro che sono considerati ai margini. Un ritiro di coppie “irregolari” a S. Giovanni Rotondo, l’uno e due marzo scorso, mi ha davvero sorpreso; andato per predicare, mi sono ritrovato dentro un percorso cominciato lo scorso anno da due coppie sposate. Vi partecipano una ventina di giovani e meno giovani che per qualche ragione, o anche senza ragione, non si sono (ancora) sposati in chiesa. È stato bello.
In queste occasioni ci si trova a conoscere chi convive senza un particolare perché, o anche solo perché c’è una fede più di tradizione che sentita, oppure si crede che convivenza e matrimonio siano uguali, tranne che per la festa, quasi che promettersi il futuro sia lo stesso che stare insieme finché non passa la voglia e se ne insegue una nuova. È l’inganno in cui molti oggi cadono: voler provare il matrimonio attraverso ciò che matrimonio non è. C’è anche chi si era sposato davanti al Signore con la persona con cui aveva diviso il letto e null’altro, pensando così di essere a posto, e si ritrova bloccato quando finalmente è arrivato l’amore. Ci può anche essere chi s’è sposato davvero, ma disperato per una voglia che sente svanire, senza guardarsi né avanti né indietro si getta a gustare, forse per l’ultima volta, le sensazioni della sua gioventù: lascia casa e figli per l’ebbrezza di una libertà giovanile e si riscopre di colpo invecchiato.
Non parlo loro di morale e di doveri, perché non è per morale o dovere che ci si assume il peso d’amare con tutto sé stessi. In un mondo che cerca un benessere facile, ottenuto con la scheda del bancomat, prendere una decisione forte e definitiva ha bisogno di tempo e coraggio, di un solido amore e di sostegno reciproco tra i due innamorati, non certo di appelli a una moralità generica e sentita lontana. Hanno bisogno di innamorarsi dell’amore di Dio, partendo dalla loro concreta, sentita esperienza d’amore reciproco.
Ti aspetti una generazione triste, ridotta a non avere altro obiettivo che il 28 del mese, sfruttati come precari con davanti nemmeno l’approdo di una pensione di anzianità. È una generazione che già porta il peso delle illusioni dei sessantottini che hanno avuto per genitori e non sentono l’urgenza di nuove rivoluzioni. Loro però non mostrano alcuna tristezza.
La liberazione della donna si è trasformata nella schiavitù di un lavoro accettato per necessità, precario ma ben tassato, che basta appena a pagarsi la babysitter con cui crescere i figli (e i figli della babysitter sono invece dai nonni). La libertà sessuale di un tempo è per loro ora precarietà in ogni affetto, con figli diventati pacchi da consegnare, come forse hanno vissuto anche loro. Nessuno ha più voglia di rivoluzioni. Loro non perdono tempo dietro a queste chimere.
È anche per questo che mi sono trovato così bene con loro. La fabbrica delle illusioni si è inceppata e loro vanno ora alla ricerca di ciò che è essenziale e null’altro: un amore gratuito, dei figli da crescere, un lavoro con un minimo almeno di dignità, con orari che permettano di incontrarsi almeno a cena e nei weekend, e il tempo per vivere un po’ di gioia con gli amici e per riscoprire il gusto della gratuità in qualche associazione di volontariato. Che abbiano sbagliato o il loro sbaglio continui, hanno il sapore dell’umanità, con una fragilità che accetta di essere condivisa dai vicini e qualche rete sociale, senza aspettarsi alcun aiuto da politici di qualsiasi partito e neppure dalla società in cui ora viviamo.
Parlano, si aprono, domandano e ascoltano, ed io parlo loro dell’amore di Dio, della fonte di quell’amore che stanno ora vivendo, della bellezza di far fronte con coraggio alla verità su sé stessi, della necessità di farsi affiancare, perché nessuno può vivere solo, e neanche nella più amorevole coppia si può esaurire il nostro bisogno di socialità.
E loro sono limpidi, a volte con cicatrici, ma gioiosi di cominciare una nuova vita, che sa promettere il proprio futuro a chi gratuitamente ti ha accolto nel cuore, con un amore reale, tra persone anche fragili, ma che si sforzano di volersi bene, a conto bancario in crescita o in rosso, a pelle giovane o raggrinzita, senza botulino né sedute di lifting. È la libertà di essere sé stessi che li rende gioiosi, perché non tengono conto della narrazione dei social o di altre amenità passeggere.
Ha fatto bene il papa Francesco a interessarsi di loro e a chiedere a noi preti di farcene carico. A volte è sufficiente sedersi e parlare per ritrovare il bandolo in tanta matassa, perché tanto desiderio di amore non rimanga sprecato, a volte è facile, ma non ci si riusciva perché il cuore era in agitazione.
A volte è proprio difficile, ma la Chiesa offre percorsi, persone e uffici dedicati a loro per dare speranza, per trovare una via che non li allontani da Dio, ma che li sostenga, perché vivano limpidi nella verità. Ad alcuni basta un po’ di coraggio per fissare le nozze; ad altri ci vuole più tempo, per sottoporre alla Chiesa il matrimonio fallito e verificarne la solidità delle basi. A volte non è cosa così complicata scoprirne la falsità e rimediare.
Ringrazio il Santo Padre Francesco, perché a noi preti ha insegnato a non giudicare, a perdere tempo con loro, a dare speranza e conforto. Ringrazio il Signore che ha aperto i miei occhi e mi ha fatto vedere la vita nascosta sotto le ceneri di una fede che sembrava definitivamente bruciata.
È rinfrescante la loro gioia di amarsi, perché non hanno pretese, ma sogni e bisogni comuni, ma soprattutto perché, pur irregolari che siano nella vita di coppia, testimoniano, amandosi, una del tutto regolare e tenera umanità.
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