Alberto Manzi, non solo maestro di “Non è mai troppo tardi” 

A cento anni dalla sua nascita, per capire cosa abbiamo perso con la sua scomparsa (ormai 27 anni fa)
La premiazione del Premio Vincenzo Scarpellino 2024

Andare sempre “in direzione ostinata e contraria” (Fabrizio De Andrè)

 “Non si può parlare di Educazione Civica se prima non si comprende appieno il significato della parola libertà” (Alberto Manzi)

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Il “mio” Alberto Manzi 

Di fronte alla massima di Fabrizio De Andrè che avete letto all’inizio (che poi è il titolo di una sua Raccolta, pubblicata nel Novembre del 2005) ho sempre pensato di essere uno dei pochi a praticarla, o almeno a provarci. Ma mi sbagliavo. Ci sono sicuramente molte persone che cercano di praticarla e nella mia vita ne ho conosciuta una che quella massima l’ha praticata, certamente da prima che il grande Faber la inventasse e la facesse sua. Quella persona si chiamava Alberto Manzi (Roma, 3 Novembre 1924 – Pitigliano, 4 Dicembre 1997). 

Al Maestro di “Non E’ Mai Troppo Tardi” devo molte delle cose che so, ma soprattutto gli devo il fatto di essere stato “salvato” – al mio Secondo Anno di Elementari (nel lontano 1957) – dal finire in una “Classe Differenziale”, bollato come un “caratteriale” (i governanti di adesso non hanno inventato niente, solo copiano, avventurandosi maldestramente in un passato assai remoto, invece di lavorare per il futuro dei governati).

Non che fossi stato un suo alunno – alla Scuola romana “Fratelli Bandiera”, di Piazza Ruggero Di Sicilia, dove lui ha insegnato per molti anni – ma egualmente “salvato” proprio perché non mi volle nella sua Classe (ne aveva già troppi “strani”, disse praticamente alla mia Mamma – che si raccomandava mi prendesse con lui – con parole gentili che solo lui poteva trovare e di cui io non avevo, allora, capito il senso vero) così, di fatto, costringendomi a “farmi valere” in una Classe normale, come nella vita.

Una volta cresciuto, l’ho incontrato di nuovo (abitavamo nello stesso Quartiere) e per me è cominciata un’altra storia di vita. La storia della mia crescita come persona, grazie alle opportunità di sperimentare che Alberto mi ha, nel tempo, scodellato davanti, perché ne approfittassi. Ogni tanto mi diceva: ”Mi accompagni a…, che mi hanno chiamato per una Conferenza? Non mi va di andare da solo”. E io via, in ferie dal lavoro vero, al seguito del Maestro di “Non è mai troppo tardi” (una celebrità che molti fermavano per strada per ringraziarlo di aver cambiato loro la vita, avendoli resi padroni delle parole e del modo di capirle e usarle per bene) cosa che era, senza dubbio, meglio che andare a lavorare in Ufficio.

Solo più tardi ho capito che quello in cui Alberto mi coinvolgeva era un altro genere di “lavoro” in apparenza per niente faticoso, anzi anche divertente, ma molto importante per diventare una persona attiva e responsabile: guardarsi intorno, sempre, ascoltare lui e gli altri da me – quando ne valeva la pena, s’intende – e crescere, giorno dopo giorno, immagazzinando esperienze valide di cui fare non solo Memoria, ma tesoro per la vita.

Dunque, ora che – nel centenario della sua nascita – si parla e si scrive di lui, voglio anch’io lasciare una mia traccia in sua Memoria, a mo’ di ulteriore ringraziamento (sono riuscito a ringraziarlo di persona, prima che se ne andasse per sempre) per quanto, da Maestro di vita, ha fatto per me.

Chi era Alberto Manzi   

Dunque, Alberto Manzi. Maestro (primo nella Graduatoria di un Concorso Nazionale per Insegnanti Elementari, svolto appena terminata la guerra), Scrittore, Intellettuale, Pedagogista, Filosofo, Psicologo, Scienziato (nel senso di sperimentatore) Naturalista e molto altro. Da dove cominciare? Beh, dall’inizio.

Alberto Manzi si diploma nel 1942 alla Scuola Magistrale e contemporaneamente all’Istituto Nautico. Sempre dirà che questa doppia formazione ha condizionato indelebilmente il suo modo di interpretare la vita e il mestiere di Insegnante. Di lauree, uno così, ne avrebbe potute prendere quante ne voleva, ma, tra la guerra e gli sconvolgimenti che ne seguirono, ne scelse due: Scienze Naturali e Pedagogia e Filosofia. Qualche anno dopo, specializzatosi anche in Psicologia, diresse la Scuola Sperimentale dell’Istituto di Pedagogia della Facoltà di Magistero dell’Università La Sapienza, di Roma.

Chiunque, al suo posto, si sarebbe sentito arrivato, ma lui no, perché dentro aveva il “demone dell’istruzione” e dunque, a trent’anni lascia le Aule Universitarie e, nel 1954, prende servizio come Insegnante Elementare presso la Scuola “Fratelli Bandiera” di Roma, per effettuare direttamente ricerche di Psicologia didattica (Studi che proseguirà ininterrottamente per tutta la vita).

Le parole e il loro giusto significato

”Insegnare”, dal latino in e signum, lasciare il segno, certamente sempre guardando più alle opportunità che agli ostacoli.

Educare”  dal latino “ex ducere”, “trarre fuori”, certamente sempre mettendo in luce, quanto c’è di buono nelle persone, portandolo allo scoperto e mai ‘mettere dentro’ le teste dei ragazzi nozioni e pensieri altrui.

E di alcuni di quei suoi anni di scuola alla “Fratelli Bandiera” sono stato testimone diretto, avendo lavorato insieme a lui; avendolo visto all’opera con i ragazzi dentro l’Aula, ma maggiormente fuori, nel mondo; osservandolo in una modalità di “fare scuola” che non a tutti piaceva (troppe responsabilità da sopportare, gli dicevano) e per la quale spesso lo ostacolavano e lo criticavano. E allora – per tornare alla massima di De Andrè – sempre con i ragazzi e sempre contro Presidi, Colleghi e Ministri che non lo capivano, anzi che forse lo avevano capito molto bene ed erano “spaventati” da quello che il Maestro Manzi riusciva a fare con i ragazzi, dimostrando come un’altra scuola da quella data fosse possibile, solo a volerlo.

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La Bibbia ci ricorda che “C’è un tempo per ogni cosa”. E per lui venne il tempo di “Non è mai troppo tardi, Corso per adulti analfabeti” e della TV. Alberto superò brillantemente il provino (a quel tempo, se volevi [o dovevi] andare in TV, ti facevano il provino e se non lo superavi, che voleva dire almeno essere telegenico, la televisione te la potevi scordare, ‘nunc et semper’).

Lui, il provino lo superò a modo suo, cioè strappando il copione che gli era stato consegnato e inventando, lì per lì, una Lezione vera e propria, armato di carboncino davanti ad un blocco di fogli bianchi su cui tracciava velocemente lettere, parole e disegni (poi i telespettatori scopriranno anche i “lucidi” e la lavagna luminosa). Il che significava: niente recita a soggetto, ma tutto a braccio che non voleva dire improvvisare, tutt’altro, ma solo utilizzare una modalità di comunicazione in cui si ritrovava, padroneggiandola alla grande.  E così vinse quella prova, come ne aveva vinte tante altre nella sua vita prima di soldato in guerra (dopo il Settembre ’43, dalla parte giusta della Storia) e poi di Maestro in un Correzionale maschile della Capitale l’”Aristide Gabelli”, Lui, solo, con 94 alunni (dentro anche per reati di sangue) a fare scuola senza penne, quaderni e libri, ma solo con la voce ed un Racconto.

E’ il 1954 ed è lì che nasce il suo Grogh, storia di un castoro”che gli frutterà anche un premio letterario. Racconto poi scritto con la macchina da scrivere (una vecchia Olivetti) dello zio Filippo Manzi, che era stato tipografo all’Ordine Nuovo di Antonio Gramsci: non un cimelio, ma un pezzo di Storia sul quale anch’io ho battuto qualche riga.

E così – mandato in RAI per “toglierselo dalle scatole” (eufemismo) – la mattina andava a scuola a fare lezione e il pomeriggio registrava la puntata della Trasmissione. Dunque, “sempre in direzione ostinata e contraria” e sempre e comunque sul pezzo!

Quella televisiva non fu però un’esperienza che condusse solo a far sì che in otto anni di puntate (per la Storia in totale 484), dal 1960 al 1968, oltre un milione e mezzo di italiani analfabeti imparassero a “leggere, scrivere e far di conto”, conquistando (e proprio il caso di scrivere così) la Licenza Elementare, ma ebbe un paio di altre ricadute.

La prima: avere dimostrato che si poteva fare un uso didattico (leggi positivo per la comunità) del mezzo televisivo. La seconda: avere fatto sì che quelle puntate scolastiche servissero anche ad altro.

Alberto mi raccontava, infatti, che, per esempio, quando il Programma andava in onda, al Santa Maria della Pietà (il Manicomio romano) mettevano tutti i “matti” problematici in una stanza e accendevano la TV (quella enorme, con le valvole, che sembrava più un mobile da arredamento che una televisione e che, piazzata su di una base d’appoggio altissima, spesso “incombeva”  sugli spettatori come un “Grande Fratello” ante litteram), il tutto perché avevano scoperto che il timbro di voce caldo del Maestro Manzi riusciva a calmare i “mattarelli”  più  irrequieti che lo ascoltavano.

Quando me lo raccontava, io ripensavo al Film del 1975 di Milos Forman “Qualcuno Volò sul Nido del Cuculo” ed esattamente alla scena in cui i “mattarelli” dell’Ospedale Psichiatrico di Stato di Salem (USA)  tornano da una battuta di pesca, diremmo così non programmata né dunque autorizzata, e uno di loro, rivolto a chi li aspetta in Porto molto preoccupato, dice giulivo: “Ci siamo divertiti da matti!”.

Dunque, la scuola e la televisione, ma anche i libri. I Racconti per i ragazzi che Alberto trovava il tempo di scrivere e che pareva parlassero soltanto di storie inventate, ma invece ti portavano, leggendole, a capire quanto la vita fosse, per alcuni (tanti, forse troppi) al mondo assai complicata e quanto bisognasse riflettere, capire e ragionare, ma a volte anche lottare con forza, perché il mondo fosse – come avrebbe dovuto essere – privo della violenza di pochi sui tanti. Questo raccontavano ad esempio i Romanzi della sua “Trilogia Sudamericana”: “La luna nelle Baracche” (Salani, 1974) “El Loco” (Salani, 1979) “E Venne il Sabato” (Gorèe, 2005, pubblicato postumo).

Alcuni suoi Racconti presero dei PremiAlberto Manzi divenne ancora più famoso, anche se restava attaccato ai suoi principi per i quali era sempre pronto a lottare, a sacrificarsi e a rischiare in proprio.

Rischiare il lavoro, come quando si rifiutava di bollare i suoi ragazzi con dei giudizi, fossero numerici o meno; rischiare la pelle come quando, in America Latina, insegnava a leggere e scrivere ai contadini poveri e analfabeti, che per questo non potevano nemmeno iscriversi al Sindacato, e, nello stesso momento, li aiutava a costituire le Cooperative agricole che li avrebbero resi padroni di loro stessi e del loro destino e dove ognuno, uomo o donna che fosse, aveva la stessa voce in capitolo e doveva essere ascoltato poiché lavorava per il bene comune. Anche di quella esperienza – iniziata in Bolivia nel 1955, quando chi scrive era ancora un bambino e continuata poi, ogni estate, fino al 1977 – una volta cresciuto sono stato in parte diretto testimone.

Alberto Manzi, il Maestro itinerante latino-americano

Molti dei libri che Alberto ha scritto raccontano storie che riguardano l’America Latina, che lui conosceva benissimo. Nel 1955, era arrivato nella Bolivia di Victor Paz Estenssoro per studiare, grazie ad una Borsa di Studio dell’Università di Ginevra, le formiche rosse andine. “Ero andato li per studiare le formiche rosse” – dichiarerà – “ma avevo trovato altro”. E così c’era tornato, l’estate successiva e li era stato arrestato, mentre difendeva una ragazza dalle violenze di alcune guardie private e aveva passato in carcere un mese, che non era stato di villeggiatura ed era stato liberato grazie ai suoi amici latino-americani.

Poi era andato in Ecuador, sempre armato solo della sua capacità di essere un Maestro delle parole e della scrittura.  “Insegnavo l’alfabeto, a leggere e scrivere in spagnolo” – dichiarerà – “arrangiandomi come potevo, poi loro [i suoi primi alunni andini] insegnavano agli altri”. Poi va in Venezuela, come “inviato speciale” del Settimanale “Il Vittorioso”, firma, alcuni reportage sul Paese e intanto anche lì, insegna a leggere e scrivere a chi non poteva andare a scuola.

Poi va in Perù, anche lì per insegnare lo spagnolo ai campesinos che, padroni della lingua, potevano così combattere ad armi pari (almeno nel campo delle parole) contro i padroni e il Governo, che usavano la violenza sistematica per non concedere ai campesinos i loro diritti e le loro terre. Una battaglia per la Giustizia con la G maiuscola, visto che di entrambi, diritti e terre, quei lavoratori poveri erano stati derubati.

E in Perù aveva conosciuto lo scrittore Manuel Scorza che, in uno dei suoi Romanzi del “Ciclo Andino” (“Rulli di Tamburi per Rancas”, Feltrinelli, in Italia 1972) aveva descritto la rivolta di quei campesinos contro i soldati che li avevano, alla fine, massacrati. Rivolta che c’era stata per davvero, negli anni ‘60, concludendosi proprio come Scorza la descrive nel suo Romanzo.

Quella parte della vita di Alberto Manzi è rimasta per molto tempo sconosciuta perché era assai rischioso – come si diceva una volta – “coscientizzare” le masse che voleva dire dare a queste gli strumenti per “essere e fare” a cominciare dalla padronanza dell’Alfabeto, perché la conoscenza della parola (e della scrittura) era fondamentale per diventare persone indipendenti, padrone del proprio destino. Lavoro educativo rischioso, dato che, in certi Paesi dell’America Latina, in quegli anni, chi lo praticava finiva per essere etichettato dal Governo come “papista”, parola che non compariva sul passaporto, ma in certi elenchi di diverso tipo, assai più pericolosi perché, se entravi nel Paese come “papista” conosciuto, rischiavi di rimanerci per un lungo periodo di tempo o di finire peggio.

Dunque, un Alberto Manzi “terzomondista” che riusciva ad andare in America Latina anche se diversi Paesi non gli concedevano più il visto perché “papista”. Una pedagogia la sua che mi ricordava la Pedagogia del brasiliano Paulo Freire (1921-1997) per il quale, l’espressione “coscientizzazione” esplicava un processo educativo che aveva come obiettivo fondamentale quello di ridare la parola a tutte quelle persone oppresse e deboli all’interno delle società, per renderle consapevoli della loro situazione sociale e per permettere loro di evolversi dalla situazione di disagio, attraverso l’utilizzo della parola e del pensiero critico. Il concetto di “coscientizzazione” – ci dice quella corrente pedagogica – è complementare a quello di “alfabetizzazione” e si esplica in un’educazione particolare detta “problematizzante”.

Ecco quella pedagogia diremmo così “della liberazione”, che rendeva chi la viveva e imparava a leggere e scrivere (ma non solo) protagonista di un cambiamento, il proprio, Alberto l’aveva sperimentata sul campo, prima a Campagnano (Roma) e poi alla “Fratelli Bandiera” e l’aveva applicata anche nella sua esperienza di ‘Maestro itinerante’ in America Latina.

Oltre trenta anni dopo “Non è mai troppo tardi”, nel 1992, la Rai lo ripropose ne: “L’italiano per gli extracomunitari”, 60 puntate televisive, in onda su Rai 3  per insegnare la lingua italiana agli stranieri, Programma del quale si lamenterà perché insufficiente e ostacolato.

Alberto Manzi se n’è andato il 3 Dicembre del 1997, a 73 anni. Gli ultimi anni di vita li ha trascorsi a Pitigliano, in Provincia di Grosseto (dove è sepolto) cittadina di cui è stato Sindaco fino a due mesi prima di morire, eletto nelle liste del Partito Democratico della Sinistra (PDS).

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Ecco, credo di avere detto di Alberto Manzi quello che c’era da dire (non tutto certamente) per focalizzare una figura di intellettuale completo, spesso sottovalutata o addirittura ignorata perché troppo “ingombrante”. Faccio, per chiudere, un ultimo paragone tra la figura del Maestro Manzi e un’altra figura di Educatore (anche se il suo “mestiere” era un altro) che è stata importante per la mia crescita umana, sociale e politica, quella di Lorenzo Milani, il Prete di Barbiana.

Esattamente come Don MilaniAlberto criticherà ferocemente il modello della scuola pubblica italiana, in particolare quello della scuola riformata, che nel 1981 prevedeva di redigere le cosiddette schede di valutazione. Per quella critica, Alberto, ci rimise lo stipendio e venne sospeso dall’insegnamento, ma restò fermo nella sua idea, che così esplicitava a chi gliene chiedeva ragione:

Non posso bollare un ragazzo con un giudizio, perché il ragazzo cambia, è in movimento; se il prossimo anno uno legge il giudizio che ho dato quest’anno, l’abbiamo bollato per i prossimi anni”.

Qualche anno prima i ragazzi della Scuola di Barbiana, nella loro “Lettera a una Professoressa” (1968) avevano sostenuto una tesi pressoché identica sull’ingiustizia dei giudizi degli Insegnati, che pretendevano di usare lo stesso metro di valutazione per alunni che provenivano da realtà culturali e familiari completamente diverse.

Dunque, con Alberto Manzi, e gli altri come lui, in pista c’è stata la diversità che ha percorso strade apparentemente differenti per arrivare, spesso, alla stessa conclusione: Alberto Manzi in Italia, ma anche John Dewey, in America, Paulo Freire in Brasile e Don Lorenzo Milani, in un piccolissimo Borgo della nostra Toscana, ma l’elenco non è esaustivo.

Persone diverse, sempre in viaggio verso la conoscenza, da apprendere e trasmettere agli altri da loro, mai essendo stanchi del loro viaggio, a volte anche complicato e difficile. Mai stanchi, perché coscienti che “anche un lungo viaggio inizia con un piccolo passo” e certamente essendo disposti a farlo quel piccolo passo, come tutti loro hanno dimostrato, facendolo nella pratica quotidiana e così aprendo la strada della conoscenza a milioni e milioni di uomini, donne e ragazzi in tutto il mondo.

Dunque, grazie Maestro e cerca di stare bene, se puoi, lassù.


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