Gianfranco D’Angelo, un romano Doc
Intervista all’artista impegnato al Teatro Orione fino al 29 aprile con la commedia brillante “Mia figlia si sposa”
L’attore comico Gianfranco D’Angelo sta ottenendo un meritato successo con la commedia brillante “Mia figlia si sposa”, in scena fino al 29 aprile al Teatro Orione, in via Tortona, vicino a piazza dei Re di Roma. L’organizzazione dello spettacolo teatrale è dell’Associazione Saxofone92, con il patrocinio dell’Associazione Italiana Sclerosi Multipla.
Protagonista di innovativi varietà televisivi come La sberla e Drive-In, e di lavori teatrali premiati sia dalla critica che dal pubblico, come Alleluia brava gente e Niente sesso siamo inglesi, D’Angelo è nato al quartiere Esquilino, da genitori romani, ed è, a tutti gli effetti, un romano Doc.
Da sempre innamorato della città eterna, dal suo quartiere di origine si è stabilito, ormai da diversi anni, nel X municipio, come lui stesso ci confida:
«Io sono dell’Esquilino. Da piccolo abitavo a piazza Vittorio, adesso risiedo a Cinecittà. Per tanti anni ho abitato vicino al cinema Quadraro, in via Tuscolana. C’ho visto tanti film, perché a me il cinema piace. Lì vicino c’era anche il ristorante Il Galletto. Poi mi sono trasferito a piazza San Giovanni Bosco e adesso abito di fronte al parco degli Acquedotti dove, fino a poco tempo fa, andavo a correre; l’ho fatto per tanti anni. Sono felice di abitare lì, però mi piace molto il centro di Roma. Questo lavoro mi ha portato ovunque. Sono andato anche in Canada, con il povero Mimmo Modugno, e poi ho girato tutta l’Italia. Però un’altra città come Roma non c’è. Qui l’aria è diversa, nel bene e nel male. Roma è una città difficile; dobbiamo ospitare il Parlamento, i Ministeri, gli onorevoli, il Vaticano; ma quando faccio due passi per Roma io respiro l’aria di casa. Io trasformerei Roma: centro storico chiuso al traffico privato. Ecco! Lascerei Roma a piedi. Vorrei sentire il rumore della città: lo scorrere lento del Tevere, i passi sui sampietrini. Cose ormai dimenticate. Oggi non c’è più atmosfera, una macchina appiccicata all’altra. Come fai a goderti una città così? In altre città europee c’è più rispetto per le cose, per il centro, per i monumenti, per il proprio passato. Roma è una città importante, va rispettata e preservata. Non abolirei tutto, ma non puoi gustarti la storia e l’arte di Roma con il casino che ti circonda. Ti distrai. Senza automobili sarebbe bello. Lo so che è difficile, però nessuno ha mai fatto uno sforzo per migliorare veramente questa città e renderla più vivibile. E questo non dipende neanche dal Sindaco, perché nelle sue decisioni deve tener conto del Governo e del Vaticano. E come se non bastasse, a noi romani ci hanno addirittura fatto fuori. Hanno venduto le case agli stranieri (americani, inglesi, tedeschi) e ai ricchi che sono arrivati».
Gianfranco, in questa commedia tu interpreti un padre possessivo che non si vuole rassegnare al matrimonio di sua figlia; un matrimonio, peraltro, deciso in fretta. Nei panni della futura sposa c’è tua figlia Simona. Che emozione si prova ad averla al tuo fianco sulla scena?
«Nel caso di questa commedia, mi sembra di rivivere quello che ho passato nella vita. Mia figlia Simona si è sposata all’improvviso, come la protagonista. Un giorno è venuta a casa, era luglio, stavamo fuori, e mi ha detto: “Papà mi sono fidanzata”. “Ah! Bene”, gli dico io, e lei: “Si, però mi sposo tra quindici giorni”. Io ho cercato di dissuaderla, proprio come faccio nella commedia, cercando un’alternativa e prendendo tempo: “Oggi si può anche convivere, aspetta un attimo”. Comunque più che l’emozione, avere Simona con me è una cosa affettiva. Tu sai che lavori sul palco con una persona che non ti tradirà mai. E tu sei consapevole di quanto sia importante; è fondamentale per chi fa questo mestiere. Non è che non mi fido degli altri colleghi. Però non vivi con loro, non li frequenti, non li puoi conoscere come una figlia. Io di Simona conosco i pregi e i difetti. E poi mi dà anche un po’ di sicurezza. L’emozione si prova la prima volta, quando tu fai un nuovo lavoro, con gente che è nuova per te. A me succede sempre. Tutte le sere che esco mi emoziono, perché non sai mai chi è seduto qua in platea, non sai come la gente reagirà. Tu stai sul palcoscenico e gli altri stanno di fronte; è come un ring, un combattimento».
Ti ricordi un combattimento, come dici tu, particolare, un episodio curioso legato al pubblico?
«Una volta sono stato in un piccolo paese della Sicilia, una regione che io amo e dove ho molti amici, e per l’intero spettacolo il pubblico non ha fiatato, non ha reagito. Ho fatto lo spettacolo nel silenzio più assoluto: è una cosa che non dimenticherò mai. I meccanismi erano gli stessi che hanno funzionato ovunque. Lì niente. Quando ne parlo con i colleghi mi dicono: “Ahò, non è come a…”. Non cito il posto perché non è il caso, comunque lì è sempre così. Questo è un episodio che è rimasto come un fatto misterioso, e non so ancora spiegarmi».
Sulla solita dicotomia, teatro e televisione, cosa mi puoi dire?
«La Tv mi ha dato tanto. La mia popolarità la devo alla Tv. Televisione e teatro sono due cose completamente diverse. In televisione quando va male ti vedono milioni di persone. A teatro qualche centinaio. Non voglio fare la Tv di oggi perché non mi piace: parlo dei varietà, dei reality. Adesso fanno le trasmissioni e se non vanno bene dopo una puntata le sopprimono (vedi la Ventura). Ci sono buoni prodotti, ma farla tanto per farla non mi interessa, dovrei essere convinto. Non bisogna screditarsi per la voglia di apparire a tutti i costi. Ci sono i giovani, è giusto che facciano le loro esperienze. Io faccio teatro perché mi piace di più. Il pubblico qui paga il biglietto e non ha il telecomando in mano. Se ti applaudono e ti dicono bravo, è perché lo sentono dentro, nessuno glielo suggerisce. Chiaramente non rinnego la Tv, ne ho fatta tanta. Ma in teatro c’è una forma di verità molto appagante».
Tu hai lavorato alla Sip, poi diventata Telecom.
«Erano anni difficili, sai. Ci sono stato più di 10 anni. Sono andato via nel ’70. Stavo al commerciale, poi sono passato al recupero crediti».
Beh, non è che adesso siano anni migliori. Quindi anche alla Sip sei stato in contatto con il pubblico. Era anche divertente allora, come il teatro d’altronde. Infatti, ad un certo punto, quando parlava Frank, il cerimoniere, ti ho visto ridere.
«Si, perché è andato fuori copione. Delle volte capita, però non deve diventare un’abitudine, non sarebbe giusto nei confronti del pubblico. È un divertimento che quando arriva al pubblico funziona; se è per se stessi non va bene. Si deve essere più precisi. E poi come sempre accade quando sai che non devi ridere, è il momento che non ce la fai a trattenere la risata».
È senz’altro difficile soffocare la risata con un grande come Gianfranco D’Angelo. E insieme a lui, oltre la figlia Simona, una bravissima Sandra Milo e gli altri divertenti interpreti: Mario Scaletta (Franck), Rossana Bonafede, Roberto Gammino e Mimmo Manca.
La stagione teatrale volge al termine, ma nella prossima l’appuntamento con l’attore romano è al Teatro Manzoni con “Indovina chi viene a cena”.
«Un argomento tosto – conclude D’Angelo – che purtroppo è sempre attuale».