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Un “vago” ricordo sul Gianicolo

Sul colle del Gianicolo, il civico 2 di via XXI Aprile occupa l’area destinata ad un certo “Villino per un pio americano”, progettato e mai realizzato, secondo gli scritti di Maria Grazia Turco, dall’architetto ungherese, Jozsef Vago (Nagyvarad, 1877-Salies de Bearne, 1947, nella foto tratta dal libro di M.G. Turco).

giusepevagoIl progetto è descritto in toni entusiasmanti dall’urbanista torinese Pietro Betta (1878-1932), nella rivista “L’Architettura Italiana”, del 1926. Con l’ausilio delle illustrazioni riportate nel giornale, si può costatare che l’edificio era costituito da due piani, e che vi erano previsti ambienti organizzati intorno ad un cortile coperto, suddivisi tra zona notte e zona dei servizi, cioè gli ambienti del guardaroba, della camera da letto e del bagno da una parte, e la cucina attigua alla sala da pranzo, dall’altra. Inoltre, trattandosi di una committenza particolare, in quanto “pio”, l’architetto ha inserito nella struttura anche una piccola cappella di famiglia, posta al piano superiore. Infine, il villino, in quanto tale, era contornato dal giardino, per conformarsi alla tipologia edilizia d’oltreoceano o all’inglese, presa a modello nella Variante del Piano Regolatore di Roma del 1926, per i villini residenziali nel quartiere di Monteverde e non solo.

Ad una attenta osservazione, l’attuale edificio ricorda il progetto dell’architetto ungherese,  almeno nella facciata principale, nonostante esso si sviluppi su più piani rispetto al “Villino per un pio americano”, ma non lo è.

Josef Vago, dopo alcune committenze per la sua terra e soprattutto per la città di Budapest, si sposa nel 1906 con la cantante lirica, soprano o mezzosoprano, Ghita Lenart, madre di suo figlio Pierre (1910-2002), nato quattro anni dopo. Con l’avvento della Grande Guerra, nel 1919 Josef Vago si trasferiva a Roma fino al 1926, e qui italianizzava il suo nome in Giuseppe Vago. Si trasferì poi definitivamente in Francia, dove suo figlio, naturalizzato francese nel 1933, seguirà le orme paterne con successo in Germania, in particolare a Berlino e Bonn, e pubblicherà un’autobiografia nel 2000.

Secondo la testimonianza di Pierre, sua madre conobbe il pianista Alfredo Casella (Torino, 1883-roma, 1947) e con lui visse una stagione di successo, confermata dal The Times New York del 3/12/1922, per una tournèe in Germania con la orchestra diretta dal pianista, e che continuerà anche in Italia almeno fino al 1924. I loro rapporti sono testimoniati, ancora tra l’altro, non solo dalla dedica di Casella alla Lenart in occasione delle due liriche composte per lei, nel 1924, ma anche da una lettera di lei scritta al pianista nel tardo 1942. La famiglia Vago subì quindi una rottura dolorosa per gli affetti famigliari, che, probabilmente, favorirono le cause del trasferimento in Francia.

Giuseppe Vago, nella sua breve permanenza romana, ricevette numerose committenze, ma nessuna di esse fu realizzata. Il suo collaboratore, l’architetto Armando Melis (Iglesias, 1889-Torino, 1961), dedicò ampio spazio alla genialità di Giuseppe Vago, nella rivista citata, in occasione del progetto per una scuola elementare. Anche il noto Marcello Piacentini, architetto eclettico, elogiò la creatività stilistica dell’ungherese nella rivista “Architetture e Arti decorative”, fondata e diretta personalmente nel 1921, e ne fu perfino un affiliatissimo sostenitore se, nel concorso per il grattacelo di Chicago Tribune del 1922, in cui entrambi parteciparono, il Piacentini ne emula lo stile. Nonostante ciò, Vago ricevette non poche acerrime critiche dal proprio ambiente di lavoro, soprattutto dall’architetto Le Corbusier e dal critico d’arte de Il Giornale d’Italia, Diego Angeli.

Gli fu commissionato e realizzò, il restauro e l’ampliamento dell’Hotel De La Ville, in Via Sistina, ma fu necessario rimaneggiarlo più volte o modificarlo per assecondare una serie di ripensamenti, da parte non solo del proprietario dell’Hotel, ma anche della Commissione dell’edilizia urbana, e che vanno dal più banale nome dell’albergo per esempio, all’uso del colore nella facciata, perché il progetto era ritenuto troppo “straniero” rispetto alla “romanità” fascista del periodo.

Insomma, la sua arte, la sua creatività e la sua originalità emerge soltanto dai progetti, ma  sapere che a Monteverde,  in quel lembo di terra di Via XXI Aprile al civico 2, ci sarebbe stata una testimonianza di questo architetto versatile, in grado di spaziare tra tipologie edilizie così diverse tra loro, come un grattacielo, un albergo, o una casa privata con cappella interna, impreziosisce la storia del quartiere.


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