

Se si vuole avere contezza dell’accordo su Aspi raggiunto dal governo Conte all’alba di ieri, 15 luglio 2020, occorre per prima cosa, naturalmente, esaminarne i punti.
Alla luce di questa disamina vedere le reazioni dei contrari e dei contrariati è un vero spasso.
Le reazioni dei giornali ed esponenti della destra (Salvini e Meloni) sono esilaranti. Ma altrettanto lo sono quelle dei giornali (Stampa, Corriere della sera e Repubblica) organi della cosiddetta “razza padrona”.
I tasti principali su cui i vedovi dei Benetton obiettano, insinuano, stravolgono e mistificano sono principalmente due: quanto costerà l’operazione al contribuente e il riapparire dello spettro statalista nell’economia italiana.
Sul primo punto fanno e tirano cifre piuttosto strampalate, passano sotto silenzio la riduzione dei pedaggi autostradali, tanta o poca che sia, ma, soprattutto, tacciono degli introiti che incamererà la futura società a maggioranza di Cdp che è dello Stato. Introiti che, in gran parte, andranno in mano pubblica per gli investimenti in nuove arterie e nelle manutenzioni per garantire, sempre che la gestione sia efficiente, di non avere qualche ponte che all’improvviso ti manca sotto le ruote o qualche galleria che ti crolla in testa.
Sul secondo punto, cioè che a gestire non sarà il solito carrozzone statale pubblico ma una public company, quotata in borsa, aperta all’ingresso di altri azionisti, piccoli o grandi, come i fondi d’investimento o i fondi pensione, si tace oppure si fanno brevi e criptici cenni o ci si passa sopra fischiettando. Salvo parlare a vanvera di ritorno allo statalismo, come si diceva.
Quella fatta dal governo Conte è un’operazione di “socializzazione” nel mercato che la destra italiana e la sinistra subalterna al neoliberismo non riuscirono a fare al tempo delle privatizzazioni, quando regalarono ai privati e ai “capitani coraggiosi” senza capitali, non il superfluo o il ridicolo dello statalismo economico (per esempio la produzione dei panettoni) ma interi pezzi pregiati di economia nazionale. Come, appunto, la gestione delle Autostrade.
Luciano Benetton, ovviamente, non è contento.
Oggi affida i suoi sentimenti di protesta, sconforto e indignazione a “Repubblica”. Quello stesso giornale che all’indomani della tragedia del Morandi non riuscì a nominare i maggiori azionisti di Atlantia e di Aspi che gestiva il ponte sotto le cui macerie giacevano 43 povere vittime.
“Mai mi sarei aspettato – dice Benetton – certi termini e certi toni pubblici dal premier Conte e da alcuni suoi ministri. Ci stanno trattando peggio di una cameriera. Chi caccia una domestica da casa è obbligato a darle quindici giorni di preavviso. A noi, che per mezzo secolo abbiamo contribuito al boom economico dell’Italia, intimano di cedere i nostri beni entro una settimana.
Non possiamo accettare di essere trattati come ladri, dopo aver distribuito tanta ricchezza e tanta cultura, non solo economica”.
Eh! Si vede che erano abituati a trattare con altri governi e altri politici, più proni ai loro desiderata.
A “paron” Luciano non viene in mente altro paragone, per tanto avvilimento subìto, che quello con le cameriere. Inoltre, come sono soliti fare i predatori dello Stato, gente ben diversa dagli imprenditori, richiama il “contributo” della famiglia “al boom economico”, come se i Benetton l’avessero dato gratis e non facendosi ricchi e famosi.
Non si rende conto di quel che è successo e di quel che hanno fatto. Sono rimasti come “razza padrona” quelli del 15 agosto 2018, quando, all’indomani della strage per il crollo del “loro” ponte, non ebbero nemmeno la sensibilità di disdire la grigliata di famiglia nella loro villa di Cortina o quelli che prima di dire pubblicamente una parola di condoglianze per le vittime, ci misero 23 giorni.
Qualsiasi cameriera avrebbe dimostrato più dignità, sensibilità e consapevolezza di loro.
Aldo Pirone
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