Villa Certosa
Piccola storia di un quartiere “storico” nella periferia romanaSe si guarda una pianta topografica del V Municipio, la zona denominata Villa Certosa (posta sulla destra di via Casilina, in posizione leggermente decentrata rispetto al cuore del territorio municipale) ci appare nella forma di un triangolo alquanto irregolare, i cui tre lati possono essere identificati con via Galeazzo Alessi, via Filarete e la ferrovia Roma Napoli, al di là della quale, nella direzione che guarda verso il Tuscolano, si estende la piccola stazione ferroviaria Casilina. Villa Certosa, che alle origini rappresentava un vero e proprio quartiere, è tagliata da un asse viario, via dei Savorgnan, che congiunge via Galeazzo Alessi con via degli Angeli; lungo tale asse, interrotto a metà da un piccolo slargo che rappresenta il cuore stesso del quartiere (Largo dei Savorgnan), si snodano, come tanti rami di un albero, alcune traversette: via Buratti, via Trebonio, via da Gozo, via Centogatti).
A giudicare dalle tipologie edilizie, si direbbe che il tempo si sia fermato agli anni Cinquanta, all’epoca in cui, per andare al centro della città, si diceva ancora “devo andare a Roma“. Le casette, piccole e basse, circondate da giardinetti gradevoli ma non pretenziosi, sono state edificate, in massima parte, tra gli anni Venti e i Cinquanta. I loro costruttori furono, soprattutto, contadini provenienti dalla campagna romana e dalla Ciociaria che, sul finire dell’Ottocento e all’inizio del Novecento, lavoravano come braccianti o come stagionali nei terreni della nobiltà romana disseminati oltre le mura aureliane. Nella zona dove sorge Villa Certosa esisteva una tenuta della contessa Ojetti, i cui amministratori, agli inizi degli anni Venti, suddivisero in tanti piccolissimi lotti che vendettero proprio a quei contadini, i quali vi costruirono le loro povere case, con le loro mani e facendosi aiutare da familiari e conoscenti che praticavano l’arte della muratura. A quei contadini si aggiunsero, dopo alcuni anni, operai e artigiani che, per motivi politici o a causa della politica degli sventramenti decisi dal fascismo in alcuni quartieri del centro storico, si rifugiarono qui prendendo in affitto stanze o piccoli appartamentini, oppure comprando essi stessi dei lotti e costruendo altre piccole casette. La terza componente della popolazione di Villa Certosa affluì negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale: si trattava essenzialmente di famiglie immigrate dalle regioni meridionali, che venivano a Roma per trovare lavoro nell’edilizia.
Come si può facilmente intuire, l’originaria popolazione di Villa Certosa era formata da ceti poveri e popolari: contadini, operai, artigiani, molto spesso in lotta per la sopravvivenza. Erano pertanto o del tutto impermeabili alla retorica fascista delle “magnifiche sorti e progressive” della romanità imperiale, oppure addirittura (come nel caso degli sfrattati dal centro storico) in possesso di molti motivi di rancore nei confronti del fascismo. La guerra e la resistenza all’occupazione nazista (tra il settembre del 1943 e il giugno del 1944) fu motivo, per gli abitanti di Villa Certosa, di dimostrare concretamente i loro sentimenti antifascisti. Molti furono coloro che imbracciarono le armi per combattere i fascisti e i nazisti (da questi ultimi Villa Certosa era ritenuta, al pari del Quadraro, un nido di vespe). Ma, oltre ai combattenti, tutta la popolazione del quartiere svolse un’opera di resistenza tenace all’occupazione. Nascondere i renitenti alla leva, i partigiani provenienti dagli altri quartieri e su cui gravava il pericolo di essere catturati dalle SS, i militari alleati fuggiti dai campi di prigionia, trasportare armi e munizioni e viveri, sabotare i convogli dei tedeschi seminando chiodi a quattro punte lungo la via Casilina, e tante altre piccole operazioni di resistenza non armata: furono queste le imprese in cui si segnalarono soprattutto le donne della Certosa. All’incrocio tra via Galeazzo Alessi e via dei Savorgnan, affissa ad un muro una lapide ricorda il sacrificio di due cittadini di Villa Certosa, combattenti per la libertà, che morirono durante la lotta di resistenza: Guerrino Sardella e Pietro Principato. Il primo, tipografo originario di Colonna, morì a 28 anni, il 2 febbraio del 1944, nel carcere di Regina Coeli, dopo che era stato catturato nella propria abitazione nel novembre del 1943. Portato a via Tasso, fu più volte torturato e poi processato e condannato alla fucilazione. Fu l’ufficiale che comandava il plotone d’esecuzione che dovette ucciderlo con un colpo alla tempia, dopo che i militi del plotone si erano rifiutati di sparare. Rimane di lui una bellissima lettera d’addio alla moglie, pubblicata nella raccolta Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana. Il secondo, di anni 45, morì invece il 5 giugno del 1944, il giorno successivo alla liberazione di Roma, assassinato da un cecchino fascista che sparò da una finestra di via dei Savorgnan, mentre nella strada sottostante si festeggiava la liberazione della città. Era originario del rione Monti, precisamente di via Panisperna, dove svolgeva un’attività di lucidatura di mobili. Dovette fuggire via dal centro perché, essendo un notorio antifascista, erano più le volte che stava in carcere che quelle che stava in libertà.
Dopo la guerra la combattività degli abitanti di Villa Certosa non diminuì, ma si rivolse verso obiettivi civili. Insieme alle Consulte popolari (organizzazioni che riunivano tutti coloro che, nella periferia romana, avevano un qualsiasi problema legato al lavoro, alla casa, alla scuola, alla sanità ecc.), i cittadini di Villa Certosa iniziarono lunghe lotte per far asfaltare le strade del quartiere, per l’installazione di fontanelle pubbliche, per la luce, per i servizi (il verde, la scuola, l’asilo nido, il presidio medico). Villa Certosa, infatti, continuava a restare un’isola, fisicamente separata dal sottostante quartiere di Torpignattara e, soprattutto, immutabile nel suo tessuto edilizio e urbanistico. La speculazione edilizia, che negli anni Cinquanta e Sessanta celebrò i suoi più grandi trionfi, non toccò, se non marginalmente, Villa Certosa. Le sue case rimasero piccole e modeste, le sue strade strette e piene di buche. Intanto la popolazione cresceva e, dagli anni Sessanta, scoppiò il problema della casa per i numerosissimi inquilini del quartiere. Si videro, di conseguenza, i certosini impegnati nelle epiche lotte per la casa che, in quegli stessi anni, fiorirono in tutti le periferie romane e che, verso la metà degli anni Settanta, portarono all’abbattimento degli agglomerati di baracche sparsi un po’ ovunque nella città e alla costruzione di nuovi e più “umani” quartieri di edilizia residenziale pubblica. Anche i giovani certosini parteciparono da protagonisti a quelle lotte ma, una volta raggiunto l’obiettivo della casa popolare, la conseguenza immediata fu un impoverimento e un graduale invecchiamento del quartiere. Giovani famiglie, infatti, si trasferirono in altre zone della città (Pietralata, Ponte Mammolo, Rebibbia, Laurentino) e, a Villa Certosa, rimasero gli anziani che, ovviamente, non riuscirono a coprire i vuoti lasciati dall’esodo della gioventù.
Oltre a quella per la casa, un’altra battaglia impegnò, tra il finire degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, la popolazione dei certosini: quella per un Piano di recupero che trasformasse quel vecchio e informe agglomerato in un quartiere moderno, in possesso di tutti i requisiti per un vivere civile. In effetti, tra il 1981 e il 1984, fu approvato dal Comune di Roma un Piano urbanistico che prevedeva l’abbattimento di case non più agibili, il restauro e la conservazione delle case dotate di caratteristiche idonee, la costruzione di strade e servizi, a partire dal sistema fognario, la costruzione di case popolari che dovevano fungere, in un primo momento, da case parcheggio per gli inquilini e, in seguito, da abitazioni per anziani e giovani coppie. Quel piano urbanistico, dopo pochi anni, a causa del cambiamento della maggioranza al Comune di Roma, fu completamento stravolto e svuotato. Così non vi fu il recupero delle vecchie case, non partirono le costruzioni di nuove strade e servizi ma, in compenso, furono costruiti, nell’area di Villa Berta (tra via degli Angeli e la ferrovia), ben 400 nuovi appartamenti di edilizia né economica né popolare e che, con la vecchia Villa Certosa, non hanno assolutamente niente da spartire, sebbene confinino con essa. Fu la sconfitta del movimento per il recupero di Villa Certosa: le case continuarono ad invecchiare così come la popolazione. Negli anni Novanta, infine, il tessuto sociale di Villa Certosa iniziò a modificarsi: ad abitare le vecchie case non restaurate andarono famiglie provenienti non più dalle regioni meridionali italiane, bensì dai paesi del Magreb, dall’Africa nera, dal Bangladesh, dal Sudamerica. Costoro sembrano ripercorrere lo stesso destino dei vecchi certosini. Fuggiti dai loro paesi per motivi politici od economici, stipati fino all’inverosimile in case piccole e a volte malsane, pagano fitti altissimi e vivono di lavori molto spesso precari. Hanno però il conforto della presenza dei loro familiari e dei loro connazionali. I bambini, numerosi, vanno tutti a scuola e si inseriscono facilmente in un ambiente che, per loro, rimane pur sempre estraneo alla loro cultura e alle loro tradizioni ma nel quale trovano condizioni di vita umane e dove l’infanzia può ancora esprimersi all’aria aperta, senza incorrere in continui pericoli. Apprendono molto rapidamente la lingua italiana ma, per le strade di Villa Certosa, adoperano un dialetto romanesco ricco di parole ed inflessioni provenienti dalle varie lingue materne. Villa Certosa, a livello sociale, rimane quindi quel punto d’incontro tra diverse culture e tradizioni che era stata la sua caratteristica principale fin dalle origini, con la differenza che, oggi, è possibile parlare di un quartiere multinazionale (o multietnico) e multiculturale. A livello urbanistico, invece, non si notano grandissime novità rispetto alla situazione di trent’anni or sono (l’epoca, cioè, del Piano di recupero): la stessa viabilità, la medesima carenza di servizi, ma un tessuto edilizio che, negli ultimi anni, grazie agli investimenti effettuati dai medesimi residenti, comincia pian piano a ristrutturarsi (pur conservando le medesime cubature) e rendersi più gradevole, tanto negli interni e negli esterni delle case, quanto nei giardini che le circondano. Comincia, inoltre, ad essere superata quella distanza fisica che separava la Certosa dal sottostante quartiere di Torpignattara: un numero sempre crescente di giovani, provenienti da Torpignattara e da altri quartieri, ha scelto ormai da alcuni anni la Certosa, la sua piazzetta, i suoi ristorantini e i suoi pubs, come meta d’incontro e di svago serale in tutte le stagioni dell’anno. Anche l’attività sociale e politica ha subito una svolta importante: e ciò grazie ad un Comitato di quartiere caratterizzato da spirito d’iniziativa, da proposte e da esperienze di socialità e di recupero di spazi sociali abbandonati (il giardino liberato, un pezzo di scarpata, un’area inutilizzata adiacente alla piazzetta di Largo dei Savorgnan), ma anche di iniziative culturali che sono diventate appuntamenti fissi (come, ad esempio, l’annuale “festa per Ciro”, in memoria del giovane certosino Ciro Principessa ucciso da un sicario neo-fascista nel 1979) e hanno acquistato un’importanza cittadina. Oggi, a distanza di più di quasi cent’anni dalla nascita di Villa Certosa, sebbene molti problemi rimangano immutati, questo quartiere rappresenta un “unicum” nel panorama della città e della periferia romana: a poca distanza dal centro storico ma con l’aspetto di un piccolo paese di campagna; molto spesso “dimenticato” dalle Istituzioni esterne ma ricco interiormente di umanità, di solidarietà, di volontà di riscatto.
Per saperne di più (Bibliografia essenziale):
Insolera I., Roma moderna, Einaudi, Torino 1976.
Berlinguer G. – Della Seta P., Borgate di Roma, Editori Riuniti, Roma 1976.
Portelli A., L’ordine è già stato eseguito, Donzelli, Roma 2001.
Sirleto F., La storia e le memorie, Edizioni Viavai, Roma 2002.
Mogavero G., I muri ricordano, Massari, Roma 2003.
Ficacci S., Torpignattara, Fascismo e Resistenza di un quartiere romano, Franco Angeli, Milano 2007.
FRANCESCO SIRLETO, è stato per circa 40 anni (dei quali 31 nel liceo Benedetto da Norcia) professore di storia e di filosofia. Si è occupato di storia locale e dei movimenti per i diritti alla casa e ai servizi sociali. È stato anche consigliere nell’ex VI Municipio. Tra le sue pubblicazioni: Le lotte per il diritto alla casa a Roma (1998), La storia e le memorie (2002), Quadraro, una storia esemplare (2005), Il piacere dei testi (2020). Ha tradotto, dal tedesco, con P.S. Neri, il manuale di Patrologia di Hubertus Drobner (1998). Ha collaborato al Catalogo della mostra fotografica di Rodrigo Pais Abitare a Roma in periferia (2016).
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Grazie. Ti confesso che non conosco affatto quel quartiere. Eppure, nato a Milano, a 3 anni mi sono trasferito a Roma (Largo Preneste) e dal 1990 vivo a Torre Maura. Due quartieri non lontani da quello da te descritto.