13 giugno 1988: nasce a Lisbona Fernando Pessoa

Il più grande poeta portoghese del XX secolo
“L’incompetenza congenita ad esistere”.
Visse nella solitudine e nel dolore, nella lontananza da stesso e cercando rifugio nel sogno. Scrisse bellissimi e malinconici pensieri e versi che cantano la noia e lo squallore di giornate sempre uguali, trascorse alla scrivania da impiegato contabile in una ditta di import-export, scandite dal monotono rumore della pioggia, lasciata cadere con generosità su Lisbona da nuvole provenienti dal vicino oceano Atlantico.
Scrisse di sé (firmando sempre con eteronimi): “Cammino non per strada, ma nel mio dolore … i miei passi risuonano sul marciapiede come un ridicolo rintocco a morte … mi separo da me e vedo che sono il fondo di un pozzo. È morto colui che mai sono stato. Dio ha dimenticato chi dovevo essere. Solo il vuoto interludio… Se fossi un musicista scriverei la mia marcia funebre … Dalla finestra che dà dentro di me contemplo con stupore i tramonti viola, i crepuscoli vaghi di dolori immotivati, dove, nelle cerimonie del mio smarrimento, passano i pericoli, i fardelli, i fallimenti della mia incompetenza congenita ad esistere …”.
Per tentare di contenere il tedio di un’esistenza grigia e incolore si costruì, ma solo per se stesso, un complicato universo di immagini ch’egli stesso definì inutili ed effimere. “Vivere del sogno e per il sogno, scomponendo e ricomponendo l’Universo, distrattamente … Fare questo coscienti, pienamente coscienti, dell’inutilità del farlo. Ignorare la vita con tutto il corpo, perdersi dalla realtà con tutti i sensi, abdicare all’amore con tutta l’anima. Riempire di inutile sabbia le brocche del nostro viaggio alla fonte e svuotarlo per riempirle di nuovo e svuotarle ancora, in un gesto assolutamente futile. Intrecciare ghirlande per poi, non appena fatte, disfare completamente e minuziosamente. Prendere i colori e mescolarli sulla tavolozza senza avere una tela davanti a noi su cui dipingere …”, e così via, procedendo e intrecciando indefessamente una tela infinita di figure retoriche. L’orrore per la vita reale gli consigliò l’amore per la Retorica, che coltivò con assiduità e con metodo quasi ecclesiastico. Confessò con disinvoltura che “Non conosco piacere come quello dei libri, pur leggendo poco … i libri sono presentazioni ai sogni … le mie letture predilette sono la ripetizione di libri banali che dormono insieme a me sul comodino. Ce ne sono due che non mi abbandonano mai: La Retorica di Padre Figueiredo, e le Riflessioni sulla lingua portoghese, di Padre Freire … lo stile affettato, claustrale, frusto, di Padre Figueiredo è una disciplina che fa la delizia del mio pensiero. La prolissità… di Padre Freire, intrattiene il mio spirito senza farlo stancare e mi educa senza darmene pensiero”.
L’opera di questo irrimediabile e irriducibile “inadatto” alla vita reale, ma formidabile costruttore di universi onirici e retorici, riuscì, in modi e con percorsi del tutto misteriosi e che ci rifiutiamo di indagare, ad influenzare profondamente il pensiero, lo stile e financo il materiale narrativo di due grandi scrittori da pochi anni scomparsi: il portoghese, quindi suo compatriota, José Saramago; l’italiano di nascita, ma portoghese di adozione, Antonio Tabucchi. Per il primo basti l’esempio del suo romanzo L’anno della morte di Ricardo Reis, dove il protagonista (Ricardo Reis) è uno degli eteronimi di Pessoa, e dove appare il fantasma dello stesso Pessoa intento a dialogare con Reis durante notti tristi e insonni. Per il secondo valga il riferimento al suo capolavoro Sostiene Pereira, nel quale Pereira potrebbe benissimo essere un ulteriore e dimenticato travestimento di Pessoa.
(I passi di Pessoa citati provengono da Il libro dell’inquietudine)

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