Buddha e Gesù
Non li si può avere insieme...Una statuetta di marmo del Buddha e un Crocifisso di legno con un Gesù emaciato posti da una signora su di un tavolinetto all’ingresso di casa mi ha fatto sobbalzare più che se avessi visto la pizza con l’ananas, o gli spaghetti tagliati con la forchetta in un ristorante romano. Era poi non l’ascetico Siddharta Gautama della tradizione indiana, ma il Buddha grassoccio e calvo della tradizione cinese, un certo monaco Budai di qualche secolo dopo, così che era ancora più forte il contrasto.
Nella sua vita Gesù non lesinava pranzi di nozze e inviti a cena, mentre, al contrario, il panciuto Budai a un certo punto si dedicò a stretti digiuni e perse molto della sua giocondità: è il destino dei personaggi storici, essere apprezzati per ciò che non sono stati; persino il marxista Che Guevara è diventato un molto capitalistico volto per magliette.
Siamo preda delle mode e non ci accorgiamo di guardare culture agli antipodi dalla nostra – sia per geografia, sia per ideologia – con occhi abituati a luci e colori molto diversi, a categorie cristiane, cadendo in ridicoli equivoci e offensive incomprensioni. Mettiamo insieme catechismo e libri zen, chiamando «religione» una filosofia che non riconosce alcun dio e si concentra solo su una serie di pratiche di vita. Se poi consideriamo che il buddismo è una costellazione di scuole molto distanti tra loro, inserendovi alcune addirittura il pantheon di déi dell’induismo, per noi occidentali diventa pericoloso entrarvi con leggerezza. Senza temere il ridicolo, infatti, osiamo chiamare «meditazione» sia l’orazione mentale di santa Teresa d’Avila, sia la pratica meditativa delle palestre yoga; mi immagino santa Teresa raccontarlo ai santi del paradiso come uno degli aneddoti più divertenti a cui ancora le capita di assistere. Non ci sono concezioni di vita più diverse del buddismo e del cristianesimo.
Il cristianesimo, sotto un’apparenza di religione di rinuncia e martirio, è una fede che trasuda ottimismo da ogni poro: sostiene che Dio abbia creato ogni cosa perché bella e degna di esistere ai suoi occhi, e abbia fissato leggi per la materia con perfetta razionalità, così che l’uomo, dotato di ragione, le possa conoscere, apprezzare e amare. L’essere umano è buono e di immenso valore ai suoi occhi; se buono non ci appare più, è perché, con il suo libero arbitrio, si è allontanato dalla verità sulla sua vera natura. Dio tuttavia continua ad amare questa umanità confusa e alla fine della vita donerà, a chi lo ha desiderato e atteso, una comunione eterna di gioia e amore con lui.
Tutto quindi è nato per la gioia di Dio e, seppure attraverso una storia segnata dalla sofferenza – ma con Dio vicino a consolare – tutto avrà il suo compimento nella gioia eterna di Dio con gli esseri umani elevati a suoi figli. La preghiera è il colloquio d’amore tra Dio e la sua amata creatura, la quale dona consolazione, luce e capacità di amare Dio stesso e le altre persone con vera passione.
La sofferenza è poi conseguenza dell’aver abbandonato Dio fonte di ogni bene, ma Dio stesso l’ha voluta vivere di persona per condividere la nostra vita. Dio è ora presente nella nostra sofferenza ed essa, piuttosto che amareggiarci o incattivirci, ci dona una maggiore intimità con Dio e una gioia nuova, anticipo di quanto vivremo in paradiso.
Tutt’altra atmosfera si respira nel buddismo, pessimista e disperato sin nella sua radice. Ebbe inizio infatti con l’illuminazione, dopo sette settimane ininterrotte di profondo raccoglimento, dal principe Siddhārta Gautama nel 530 a. C. a Bodh Gaya (India); lì egli afferrò la conoscenza delle Quattro nobili verità e dell’Ottuplice Sentiero, arrivando alla Grande Illuminazione che lo liberò dal ciclo delle rinascite: nella vita degli esseri senzienti, tra cui l’essere umano, è insita la sofferenza. Non un grande risultato per una riflessione durata cinquanta giorni ininterrotti.
Tutto il buddismo è riflessione su quest’unico tema: la sofferenza della nascita, della vecchiaia, della morte e della malattia, insieme al dolore dell’essere vicino a ciò che non si desidera, dell’essere lontani da ciò che si desidera, dal non ottenere ciò che si desidera e dal non riuscire a mantenere ciò che si ha; a questi si aggiunge il dolore per ciò che muta, per l’insoddisfazione che danno le cose di questo mondo e per l’inutilità delle numerose nostre attività. Sentiamo vero quanto Siddhārta sostiene – anche la Bibbia vi dedica un libro, il Qohelet –, ma qui il risultato è unilaterale, precluso ogni discorso su una possibile gioia. Non è prevista gioia nel buddismo.
Vi è infine un ulteriore disagio esistenziale: il nostro possedere il «non-sé». Per Siddhārta nulla c’è da conoscere di noi stessi, perché in noi non è presente alcun nucleo permanente, individuale, che ci sopravviva quando il corpo muore; e nulla c’è da conoscere anche fuori di noi, perché tutto è in movimento continuo senza alcuna direzione. Una società buddista non conosce la scienza – perché non esistono leggi stabili della materia – né vi può essere psicologia dove non c’è un io, né una storia, né una morale, visto che l’essere umano esiste senza uno scopo o destino particolare. Non c’è preghiera, perché non c’è dio con cui entrare in rapporto, e la meditazione e le sue pratiche sono pensate solo per evitare di sentire dolore.
In fondo il buddismo non è che un potente analgesico. Il dolore, infatti, non è colpa del mondo, né di un antico peccato umano, e non ci sono rivoluzioni da compiere, né conversioni personali a cui dedicarsi. Il dolore nasce dal desiderio di trovare felicità in ciò che è passeggero, o di preferire la vita, o a volte la morte. Siddhārta non sa da dove nasca questo nostro desiderio e perché si volga a ciò che è al di sopra della nostra natura, ovvero all’eternità, o almeno a una continuità in questa esistenza; non sa, eppure indica la via d’uscita: è spegnersi.
È una strada che spesso seguono coloro che vivono una malattia mortale: raffreddare il cuore e la mente come un’anestesia spirituale. Siddhārta vive questo stadio, ma si fa medico altrui e per odio della malattia che lo angoscia, non sapendo fare altrimenti, decide di uccidere il malato.
Di sicuro la malattia ne esce sconfitta, ma il defunto non potrà gioirne. Dove il cristianesimo cerca in Dio forza, coraggio e luce per godere di ciò che è buono e modificare ciò che non lo è, il buddismo offre un percorso per riuscire ad abbandonare ogni passione vitale, ogni godimento dell’esistenza, persino la propria identità, e così esentarsi da ogni sofferenza: è il Nobile Ottuplice Sentiero.
Esso ricerca la retta visione (il riconoscimento delle Quattro Nobili Verità), la retta intenzione (ovvero, libero dal desiderio di essere riconosciuto, assumere sentimenti di compassione verso tutti gli esseri senzienti), la retta parola (per non danneggiare alcuno), la retta azione (per agire senza scopo o intenzione), la retta sussistenza (evitando gli eccessi), il retto sforzo (perseverando nella pratica buddista), la retta presenza mentale (per non lasciarsi influenzare dal desiderio e dall’attaccamento) e la retta concentrazione (per una corretta padronanza di sé durante la meditazione).
È tutto molto nobile e retto; leggiamo però il testo sacro, la Bhagavadgītā: «Piacere e dolore, perdite e acquisti, vittoria e sconfitta, tutte queste cose considerale uguali e accingiti a combattere. Così sarai immune dal peccato». La guerra è al buddista indifferente, perché la realtà esterna è insignificante e anche i crimini più orribili alla fine non contano. Ciò che si presenta come agire disinteressato – è il punto cruciale – si attua come pratica del non-coinvolgimento: agire come se non importasse, come se non fossi tu ad agire, come se le cose, incluse le tue azioni, accadessero in modo del tutto impersonale. A questo si arriva.
L’immagine del buddista pacifista, sorridente e sereno è lontana dalla realtà. Il buddismo theravāda, il più diffuso, ha sostenuto e incoraggiato l’estremismo nazionalista, con dure persecuzioni contro islamici e cristiani, in Thailandia, Sri Lanka e Myanmar; il buddismo zen, tanto venduto in libreria, è definito dal filosofo ateo Slavoj Žižek come «l’ideologia esemplare del tardo capitalismo». I maggiori pensatori zen hanno infatti in passato legittimato la subordinazione assoluta dei soldati alla macchina militarista giapponese grazie all’etica di disciplina e sacrificio che li caratterizza: lo zen mira infatti a vivere istante per istante, senza riflettere, arrivando a vedere nell’obbedienza militare cieca e immediata ai superiori il modo per raggiungere quella perfetta spontaneità che li libera da ogni pensiero. Da brividi.
L’acclamata meditazione orientale è tecnica per non percepire il dolore della propria vita, ed è tra noi cura per la depressione e l’ansia, o per migliorare il sonno e ridurre lo stress. Un cristiano, un islamico o un ebreo meditano per conoscere e amare Dio, il buddista per svuotarsi di ogni desiderio e ritrovarsi vuoto come una pila esausta nel cassonetto.
E lo yoga? I tipi più diffusi comprendono anch’essi la meditazione; è rilassante perché svuota, ma non dona amore e non fa sentire amati coloro che la praticano, e li lascia in una fredda indifferenza. Il risultato non è una passione rinnovata per la vita, ma la svalutazione di ogni affetto e obiettivo.
Se il crocifisso appare truculento e tragico, è per i cristiani il ricordo dell’amore che Dio ha per noi, rivela la preziosità di ogni vita umana ed è segno di speranza per quella gioia eterna riservata a coloro che hanno imparato ad amare. Il buddismo non ha invece un simbolo proprio, perché nulla ha da rappresentare: d’altronde, il suo obiettivo è il nulla, lo sciogliersi nell’universo senza ricordarsi di sé, né di alcuna persona amata, né di alcun avvenimento passato. È l’oblio. È il buio che fa vedere ogni cosa uguale: uomini, animali e piante; passato, presente e futuro; bene e male; indifferenza e impegno.
Non si può avere Budda e Gesù insieme, è necessario scegliere, perché è molto diverso vivere avendo davanti l’essere immersi – con tutta la propria storia – nell’amore infuocato del paradiso oppure il diventare parte di un universo indifferente e indifferenziato nel nirvana; non sono cose che possano stare insieme: devo ricordarmi di dirglielo alla signora con quel tavolino all’ingresso di casa.
don Domenico Vitulli
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