

In terra benedetta o sopra il comò, dove vuoi che stiano le ceneri, dopo aver fatto cremare i tuoi morti? Per tradizione si seppelliva nella terra o si poneva in un sepolcro il corpo a noi caro e per tradizione quasi tutti chiedono ancora di celebrare il funerale in parrocchia. Sono ormai però molti quelli che si affrettano a far bruciare quel corpo e a riporre le ceneri, frammiste a rimasugli di zinco e al legno del feretro, in un vaso alla moda, che finisce per lo più in un armadio di casa; agli eredi spetterà di disfarsene un giorno. Quale impulso profondo ci porta ad appropriarci di quel poco che resta dei nostri defunti per disporne a piacere, chiudendoli in casa e sottraendoli al ricordo degli altri?
Non si può risorgere finché non si muore; non si ritorna a vivere se non si fa lutto, se non c’è il distacco da chi tanto ci manca. Quante persone raccontano di non uscire di casa, poi dopo, per fare anche solo la spesa, perché non riescono a lasciare da soli quei resti! C’è chi sente in casa rumori o presenze e si rivolge al prete o al proprio dottore, a seconda di come sia solito interpretare quei segni. Dicono di non sopportare il pensiero del loro disfarsi nella cassa da morto, oppure di non poterli andare a trovare per gli impegni o l’età avanzata. È comprensibile, ma piuttosto egoista.
L’estremo dolore può scusare un tal furto, ma tale rimane anche quando finge di essere passione d’amore. Ignora, infatti, ogni altro legame e urla, senza parole, di essere l’unico ad avere diritto a soffrire e a smorzare il dolore prendendo possesso di ciò che è rimasto. Non si riesce da allora a prestare attenzione a chi è lì vicino con la stessa ferita, perché la mente è come inchiodata ai ricordi di ieri. È ben triste vedere il loro presente trasformarsi in un lago stagnante e quanto a loro trasmesso dai morti rimanere inerte come cenere spenta nell’urna e nel cuore.
Chi richiede l’urna dovrebbe, a norma di legge, riporla in luogo accessibile a tutti. Basta un piccolo litigio familiare a vanificare la norma. Chi la prende è convinto, in fondo, che quel corpo sia suo, che solo a sé spetti goderne il possesso; in fondo, è la stessa persona che ha voluto bruciarla, inscatolarla e farne un oggetto, trasformarla in gioiello da indossare e sfoggiare – accade anche questo – o metterla in mostra tra le foto e i fiori.
Eppure, se non crede a una vita al di là della morte, se non percepisce il legame che quei resti hanno ancora con l’anima eterna di chi loro credono morto per sempre, non ha che delle ceneri spente in una di quelle urne da arredamento «che oggi possono essere acquistate in forme e colori molto varie, in grado di adattarsi e integrarsi perfettamente nel proprio arredamento» (recita letteralmente un articolo pubblicitario).
Il corpo non è un semplice oggetto, uno strumento tra tanti con cui operiamo. In ogni tempo e cultura è opera buona seppellire i defunti, è un gesto estremo d’amore. Nella Bibbia si narra di Tobi che rischiò la vita per seppellire i cadaveri abbandonati per strada da un potere crudele. E noi li bruciamo e li mettiamo in soggiorno.
La nostra anima è solo a quel corpo, il nostro specifico corpo, che può unirsi per amare, soffrire e gioire. È parte di noi e solo con quel corpo noi siamo noi stessi. È attraverso di esso che fummo amati e curati, e con esso ci uniamo al corpo di Cristo per ricevere l’anticipo della nostra salvezza. È per questo che è necessario risorga: perché tutto ciò che noi siamo raggiunga la sua perfezione nell’unione con Dio. Cremare e portarsi le ceneri in casa è una novità nella storia, un fenomeno che porta danni alla psiche e allo spirito. Il papa ha condannato e proibito, e non poteva non farlo: in due millenni di storia nessun cristiano aveva mai osato sottrarre i propri morti alla misericordia di Dio.
Portarseli a casa impedisce che ricevano le indulgenze quotidiane delle Messe celebrate in ciascun cimitero, le indulgenze delle preghiere di chi si reca a trovarli e quelle di tutte le Messe celebrate in novembre, il mese dei morti. Per l’anima in attesa di entrare al cospetto di Dio l’unica cosa che conti è affrettare il momento ed è a questo che servono le nostre indulgenze. È l’ultimo desiderio che possiamo esaudire. E invece riduciamo in brandelli bruciati la persona che amiamo e la buttiamo nel vento o in mare, senza poterci più girare a guardarla, perché ora neanche possiede più un luogo a cui poterla legare. A chi la morte ha già tolto tutto ciò che qui possedeva, togliamo anche il luogo in cui poterla pensare.
Quando vengono in Chiesa a chiedere il funerale, li riconosci all’istante, per queste persone sei solo un commesso dietro al bancone. Hanno già deciso ogni cosa e il sacerdote può solo adattarsi e fissare il suo prezzo. Sono abituati ai centri commerciali, dove soddisfare ogni loro bisogno. Non vogliono consigli, perché il loro dolore non cerca sollievo, vuole solo l’omaggio che si tributa alle vittime di un’ingiustizia e l’onore dell’eroe che sostiene la prova. Chi non si inchina è ignorante e cattivo. Si chiede pertanto alla Chiesa, come fosse dovuto, una sua cerimonia, ma secondo il loro gusto e piacere; non importa a che serva o come si svolga: per loro è un omaggio al defunto e il resto è superfluo; si desidera un prete che non faccia problemi e accolga ogni cosa, per quanto capricciosa o stravagante essa sia, e alla fine, infatti, un prete lo trovano sempre, uno a cui non importi più niente o si sia stancato di spiegare ogni volta ciò che tanto non si vuole sentire.
Il parente a cui è affidato l’ingrato compito di mercanteggiare col clero bigotto si atteggia a eroe quando torna trionfante, ma nessuno sa ed è interessato a sapere, di aver perso ciò di cui tutti avrebbero avuto davvero bisogno: il legame con la comunità parrocchiale che li accoglie; il rapporto con chi essi pensano sia morto per sempre; quel cammino di lutto che la Chiesa propone per addolcire il dolore e dar loro sollievo. Hanno perso un futuro più pieno, perché incapace di accettare il loro presente. È per questo che il discorso alla fine del funerale non parla mai del defunto com’è, ma sempre e solo di loro e di come ora si sentono.
Quanto più umano e arricchente è ciò che la Chiesa propone per millenaria esperienza! La morte che tutti affronteremo è un momentaneo distacco dal corpo, per subito andare lì dove la vita che abbiamo scelto ci porta: all’eterno dolore, oppure alla purificazione finale, oppure a godere per sempre dell’amore di Dio e di tutti i suoi santi. Cesserà questo mondo un giorno e tutta la creazione verrà rinnovata, insieme al nostro corpo risorto. È sapendo il fine che si conosce la strada.
La preghiera di parenti e amici affianca il morente per dissipare le ultime angosce e ricordargli il suo destino di gloria; la confessione lo riconcilia con la propria storia terrena e le persone incontrate; l’olio e la comunione gli danno forza e speranza.
Ai parenti è offerto il conforto di una veglia di preghiera comunitaria e nell’istante straziante in cui si chiude la cassa il sacerdote conforta con le preghiere al Signore, mentre l’intero quartiere si prepara ad accompagnare il feretro in processione alla Chiesa. La Messa ci indica la meta eterna e colora di speranza anche il pianto più aspro; la processione che da lì poi si dipana prepara il cuore a consegnare al Signore la persona che ci aveva per un po’ di tempo donato. Le ultime preghiere al sepolcro mantengono tenero e docile il cuore, perché non entri insieme al feretro in quella tomba di pietra, ma resti fuori in attesa che la vita trionfi alla fine dei tempi. Le Messe all’ottavario e al trigesimo ricorderanno poi a tutti che se forte è la morte, più forte è l’amore.
Questi riti ci uniscono, ci fanno vedere un fratello, una sorella nelle persone che ogni giorno incontriamo, ci danno speranza, non ci chiudono nella tristezza della vita da soli. Il percorso ci rende più saggi e sereni: sapremo ora sfruttare ogni occasione per coltivare affetti e amicizie per non dover rimpiangere un giorno i momenti sprecati. È questo che la Chiesa ci offre, se noi glielo lasciamo fare.
È questo che possiamo vivere ancora, se ci lasciamo guidare. È così che la Chiesa trasforma il dolore in pace profonda. È questo ciò che rifiuta chi non vuole ascoltare e insulta, denigra e disprezza pur di essere schiavo del proprio dolore.
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