

Solo una strada nel VI Municipio per ricordare il conterraneo di Pertini
Sono passati quasi 115 anni dalla morte di Pietro Sbarbaro. Il comune di Roma, intitolandogli una strada nel VI Municipio, qualche decennio fa, ne ha risarcito solo in parte il debito che l’intero paese ha nei confronti di un uomo troppo scomodo per essere ricordato diversamente.
Persona d’intelligenza straordinaria e di vastissima cultura, Pietro Sbarbaro nasce a Savona nel 1838. A soli 14 anni è in rapporto epistolare con Cavour che ignora la sua età e per lettera discute col ragazzo di politica e di economia. Giovanissimo, ottiene la cattedra di filosofia del diritto all’università di Parma. Qualche anno dopo, entrato in aperta polemica con il ministro della pubblica istruzione Guido Baccelli, viene sospeso dall’insegnamento.
Si dedica allora al giornalismo, quello d’assalto, denunciando tutte le menzogne e le “deviazioni” della classe politica, a Destra come a Sinistra (sono gli anni del governo De Pretis). La serie di minacce, schiaffi, bastonate (c’è anche chi gli penetra in casa tentando di ucciderlo a revolverate) e le immancabili querele che gli procura la nuova attività non bastano a farlo tacere.
Intanto, nel 1884 comincia a lievitare lo scandalo più clamoroso della politica nazionale: il tracollo della Banca Romana. Il presidente si chiama Bernardo Tanlongo, un nome sul cui anagramma (“gran ladro ben noto”) scherzano un po’ tutti, però a bassa voce. Lo scandalo coinvolge ministri, banchieri, finanzieri ma lui, Pietro Sbarbaro, non fa sconti a nessuno: ne parla senza timori e, soprattutto, ne scrive. Denunciato, in breve processato e condannato (straordinaria, nel caso, l’efficienza della macchina “giustizia”), viene spedito in un carcere in Sardegna dove resta rinchiuso per 4 anni.
Muore a Roma a 55 anni in assoluta miseria. Quasi contemporaneamente alla sua morte Costanzo Chauvet, uno dei suoi avversari, viene arrestato per truffa continuata ai danni dello stato: il megascandalo della Banca Romana ormai è scoppiato e non si può più contenere. Siamo alla fine dell’Ottocento e l’intreccio tra affari, finanza e politica fa il suo ingresso ufficiale nelle stanze dei poteri forti. Chi cercherà di combattere la corruzione, nel migliore dei casi, continuerà a contare solo detrattori, talvolta anche eccellenti. Come due tra i più grandi pensatori italiani del Novecento. Il primo è Antonio Gramsci il quale, denunciando il vigore moralistico di certe polemiche, afferma che “ se si vuole diminuire o annientare l’influsso politico di una personalità o di un partito, non si tenta di dimostrare che la loro politica è sbagliata o nociva, ma che determinate azioni sono interessate in senso personale e privato…. polemiche simili sono una prova di elementarità del senso politico”. Sulla stessa lunghezza d’onda Benedetto Croce per il quale “la petulante richiesta che si fa dell’onestà nella vita politica è una manifestazione di inintelligenza delle cose della politica”.
Occorre aspettare altri 50 anni prima che un uomo politico, individuando alla base i problemi del paese, ponga come centrale il problema della “questione morale”. L’uomo si chiama Enrico Berlinguer ed è il capo del più grande partito comunista d’occidente. Il giudizio ch’egli dà sui partiti politici, apparso in una lunga intervista su “la Repubblica” del 28 luglio 1981, ha un effetto dirompente anche all’interno del Pci. Poi la sua morte toglie tutti dall’imbarazzo e la questione morale è ridotta a rango di problema qualsiasi quando non affossata del tutto, salvo periodiche riesumazioni ad opera del (finto) indignato di turno. Fino all’arrivo di “Mani Pulite”. Il resto è storia recente.
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