

“Il 2 giugno 1946 il meteo dice che l’Italia è divisa. Tempo incerto con temporali al Centro-nord e primo caldo africano nel Sud. Anche le urne riveleranno un paese diviso lungo la stessa linea di demarcazione. Fin dal primo mattino la rivoluzione democratica prende forma davanti ai seggi. Lunghe file di uomini e di donne aspettano pazienti di dire la loro sul futuro dell’Italia. Per le donne, che fra gli aventi diritto al voto sopravanzano gli uomini di un milione, è la prima volta in una votazione politica nazionale. La partecipazione è enorme; quasi il 90% dei cittadini va alle urne.
Lo scrutinio inizia il pomeriggio del 3, perché si è votato anche il lunedì mattina. I primi risultati referendari arrivano dal Sud e dicono monarchia. Al Viminale c’è il ministro dell’Interno, il socialista Romita, a dirigere la macchina elettorale. Nella notte la monarchia è avanti, tanto che la mattina presto del 4 De Gasperi comunica al ministro della Real casa Falcone Lucifero che si prospetta una loro vittoria.
Poi l’andamento si rovescia, arriva la valanga repubblicana del Centro-nord e nel pomeriggio del giorno successivo Romita annuncia il risultato: è Repubblica. Ma l’Italia è spaccata. Da metà Lazio in su la vittoria repubblicana è schiacciante. Viceversa, nel Sud e nelle isole, è la monarchia a prevalere nettamente.
Il re sembra accogliere il verdetto come aveva promesso e si prepara a partire per l’esilio. Sennonché ci ripensa. Un gruppo di giuristi padovani ha fatto osservare che il decreto elettorale luogotenenziale n. 98 assegna la vittoria all’opzione espressa dalla «maggioranza degli elettori votanti». Perciò i monarchici vogliono far entrare nel conto anche le schede nulle e bianche di cui ancora non c’è un dato definitivo. Alla fine saranno un milione e mezzo e anche volendole surrettiziamente conteggiare nel quorum, non muterebbero il risultato finale. Lo renderebbero solo più risicato e soggetto a richieste di riconteggi con querelle e recriminazioni infinite da parte monarchica. A dar man forte alla resistenza savoiarda ci si mette anche la Corte di cassazione chiamata a proclamare il risultato definitivo. Il 10 giugno il presidente Pagano legge i voti che hanno preso repubblica e monarchia, non dà il numero di quelli non validi e rimette a un’udienza successiva il giudizio finale
L’ostinato e capzioso rifiuto di Umberto di prendere atto del risultato, scatena nel Paese manifestazioni contrapposte: antimonarchiche e antirepubblicane.
A Roma, il pomeriggio dell’11, Romita celebra la vittoria della Repubblica con un grandioso comizio a piazza del Popolo.
A Napoli, invece, si contano sette morti e molti feriti tra la folla di monarchici che assalta la federazione del Pci in via Medina, colpevole di aver esposto il tricolore senza la “ranocchia”, come viene sprezzantemente chiamato dai repubblicani lo stemma sabaudo.
La Cgil mobilita i lavoratori a sostegno del governo. De Gasperi, intanto, fa la spola con il Quirinale cercando di convincere con le buone il re ad accettare il responso delle urne. È un lavoro estenuante, con momenti drammatici. In uno di questi, a Falcone Lucifero che inveisce contro di lui, De Gasperi risponde irato: «E sta bene: domattina o verrà lei a trovare me a Regina Coeli o verrò io a trovare lei».
Alla fine, di fronte a un rifiuto che si fa via via più pervicace, cui si aggiunge l’intenzione di volere la ripetizione del referendum, nella notte fra il 12 e 13 il governo decide di far assumere a De Gasperi le funzioni di capo dello Stato ope legis, riducendo il re a semplice cittadino. A far decidere anche i titubanti è un “tintinnar di sciabole” golpista che si sente in alcuni ambienti militari monarchici, avvisaglia della guerra civile. Il governo è compatto nel fronteggiare il monarca. Le posizioni più lucide e intransigenti le ha Togliatti, ma anche il liberale Cattani, pur sostenendo le ragioni del re, non si oppone alle prese di posizione e alle decisioni governative. A propendere, invece, per le ragioni della Corona sono, in via personale, l’ammiraglio Stone e l’ambasciatore inglese Noel Charles.
Il 13 Umberto II cede e nel pomeriggio vola da Ciampino verso Cascais in Portogallo. Se ne va irato, lanciando un proclama incendiario al Paese in cui accusa il governo di avere «in spregio alle leggi […] compiuto un gesto rivoluzionario, assumendo, con atto unilaterale e arbitrario, poteri che non gli spettano». De Gasperi, a nome del governo, respinge nella ricostruzione umbertina «quanto di fazioso e mendace» c’è, affermando che il regno dei Savoia «si conclude con una pagina indegna». La fellonia di Umberto l’ha privato del cordiale scambio di saluti che, all’atto della partenza, aveva immaginato di fare con il monarca.
Ad aiutare l’isolamento della monarchia nelle sue velleità golpiste, è anche il risultato del voto per l’Assemblea costituente. Per le sinistre è una mezza delusione. I comunisti avevano due obiettivi: diventare primo partito a sinistra e ottenere insieme ai socialisti il 50% dei seggi. Invece, arrivano terzi, dopo il Psiup, e, insieme, non superano il 40%. Sempre a sinistra, chi esce distrutto dal voto è il Partito d’Azione che rimane sotto l’1,5% con due seggi, nonostante sia stato la seconda forza partigiana nella Resistenza. Prevedibilmente, invece, spariscono i demolaburisti, mentre riappare la tradizione storica del Partito repubblicano che conquista 23 seggi. A vincere è, indiscutibilmente, la Dc moderata con il 35% dei voti. Insieme ai liberali supera di poco il blocco socialcomunista. Ma a destra deve fare i conti con la presenza dell’Uomo qualunque che, essenzialmente nel Meridione, ha preso il 5,7% e i monarchici con il loro, più che deludente, 2,3% circa. Appare evidente che l’elettorato cattolico ha votato a maggioranza per la monarchia, in sintonia con il Vaticano che spinge a destra, in senso intransigentemente anticomunista, il partito di De Gasperi.
Il panorama politico subisce qualche modificazione che mette irrevocabilmente da parte la vecchia “esarchia” del Cln e riassesta al centro la geografia politica del Paese rispetto al Centro-nord resistenziale. Tramontano, definitivamente, le vecchie personalità liberali prefasciste.
Subito dopo i risultati, De Gasperi forma il suo secondo governo. È un quadripartito Dc-Pci-Psiup-Pri. Senza il Pli, che però lascia il ministro Corbino, trasformato in indipendente per l’occasione, a far da sentinella liberista al Tesoro e all’Economia. De Gasperi tiene anche gli Interni e, ad interim, gli Esteri. A capo provvisorio dello Stato i costituenti eleggono Enrico De Nicola, meridionale e monarchico. Lo propone Togliatti e ottiene rapidamente l’accordo unanime. È una figura perfetta per conquistare alla nascente Repubblica il consenso del Sud monarchico e isolare il revanscismo sabaudo”.
Questo testo è tratta dal mio libro “I cinque anni che sconvolsero l’Italia 1943-1948. La rivoluzione democratica” di prossima pubblicazione, edito da Bordeaux
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