Il Paradiso di “Accattone”

L’interpretazione del sogno e la religiosità di Pasolini
“Il funerale entra e sparisce. Accattone resta solo, affannato, lungo il muretto. Si guarda intorno, poi, accanito e ingenuo come un bambino, si arrampica sul muretto, e va dall’altra parte. Lì su un pezzo di terra buia, vede solo un vecchietto, tutto bianco, che sta cominciando a scavare una buca. Accattone gli si avvicina timoroso e il vecchietto lo guarda benevolo; allora Accattone si siede accanto a lui: ACCATTONE (con un po’ di coraggio) A sor mae’, perché nun me la fate un pochetto più in là? Nun lo vedete che è tutta scura qui, la tera? … Il vecchietto, sempre paziente e benevolo, guarda più in là, e infatti, oltre la buca, si stende una vallata, stupenda, invasa da una luce radiosa, sconfinata, che evapora nell’azzurro di un’estate piena di sole fermo e consolante”. (Pasolini, dalla sceneggiatura del film ACCATTONE).

Vi è una scena, in Accattone, distinta nella sceneggiatura con il numero 72, con il titolo “LUOGO IRREALE” e con il sottotitolo “Ora irreale”, che, per la sua “stranezza”, fa sì che il cinema di Pasolini, già al momento della sua nascita, acquisti dimensioni e caratteristiche che, nonostante gli espliciti richiami al neo-realismo (in quel momento in precipitoso declino), lo pongono in netto contrasto con quella tradizione che aveva celebrato, a partire dall’immediato dopoguerra, i suoi legittimi trionfi con i capolavori di Rossellini, De Sica, Visconti, Germi, e con le pellicole di alcuni “minori” (si fa per dire) quali De Sanctis e Lizzani. È la scena (di chiaro stampo surrealistico, alla Buñuel, ma richiama alla memoria anche un certo cinema di Bergman, tanto per intenderci “Il posto delle fragole”) in cui Accattone sogna il suo funerale, il quale si svolge con la sua “doppia” partecipazione (in quanto salma e in quanto “condolente”, un espediente non nuovo in letteratura e neanche nella storia del cinema).

Questa sequenza ha uno dei suoi punti di forza nello straordinario uso espressivo che Pasolini fa dei silenzi nel suo cinema. Nel sogno infatti domina uno strano e “spaesante” silenzio. È tuttavia brevemente introdotto dalle note bachiane del coro finale della Matthaeus Passion, di Johann Sebastian Bach, nella tonalità di Mib Maggiore, nella scena in cui vediamo Accattone dormire; la musica s’interrompe poi bruscamente all’inizio del sogno, che si svolge nel silenzio: un sogno di morte, premonitore del suo destino, che inizia con Accattone – disteso nei pressi della casa della ex moglie Ascenza, una baracca della Borgata Gordiani – che viene chiamato dagli amici del baretto (Renato, il Cipolla, lo Sceriffo, il Tremarella, Pio, il Balilla), tutti vestiti in nero, e poi accompagnato ad un corteo funebre (un “funeraletto nero, con in testa al carro la croce che ondeggia”), raggiunto il quale viene informato, dall’amico Pio, che “Accattone è morto”. Il corteo si ferma subito dopo davanti ad un muro con un cancello: tutti entrano nel cimitero, tranne Accattone al quale un uomo, “una specie d’autista”, gli vieta d’entrare (una reminiscenza, forse, di un famoso passo de Il processo di Kafka).

Accattone, però, rimasto solo, non si dà per vinto: si arrampica sul muretto, scende nella parte interna del cimitero e trova un vecchietto intento a scavare una buca. Accattone, intuendo che si tratta della sua tomba, chiede allora al vecchietto di scavare la buca “un po’ più in là”, dove vi è più luce. Il vecchietto, paziente e benevolo, accoglie la richiesta e, all’improvviso, la cinepresa non inquadra più il cimitero, ma una stupenda vallata, invasa da una luce radiosa e sconfinata, “che evapora nell’azzurro di un’estate piena di sole”. A questo punto si ha la dissolvenza e dal sogno del Paradiso (la vallata radiosa), Accattone precipita nella squallida realtà della borgata, ritrovandosi nella strada polverosa antistante la bicocca di Maddalena, la prostituta momentaneamente in carcere della quale egli è amante e “protettore”.

Quale il significato del sogno e, in particolare, della vallata sconfinata, radiosa, stupenda, assolata? Ce lo spiega lo stesso Pasolini negli Appunti, stesi dopo la fine della lavorazione del film – per sé ma anche per i propri amici intellettuali che si interrogavano sul senso autentico dell’opera prima di Pier Paolo – e pubblicati per la prima volta da Garzanti nel 1993 come introduzione alla sceneggiatura. Il titolo di questi appunti è significativo: Il senso di un personaggio. Il paradiso di Accattone. Aver messo insieme il senso del personaggio (e perciò dell’intero film) con la scena del sogno del paradiso ha un unico e semplice significato: è nella scena del sogno che risiede il nocciolo semantico dell’opera. Così scrive, infatti, l’autore: “Dovevo scegliere una vallata che, in un sogno di Accattone, …., raffigurasse un rozzo e corposo paradiso”; per fare ciò era andato fuori Roma, nel basso Lazio, nella zona tra Subiaco e Olevano Romano, le cui campagne Pasolini aveva conosciute attraverso un quadro del pittore francese Corot, “Ricordavo le sue montagne leggere e sfumate, campite come tanti riquadri di sublime, aerea garza contro un cielo dello stesso colore”. Insomma: un paradiso per quei sottoproletari di borgata (come Accattone e i suoi amici) provenienti dalle campagne della Ciociaria. A questo punto, Pasolini previene una possibile obiezione proveniente dall’ambiente intellettuale dei suoi amici, quella relativa alla “conversione” di Accattone, un delinquente di bassa tacca, un “pappone”, che non soltanto cerca di convertirsi al lavoro (non riuscendovi) e ai furtarelli (un fallimento pure in questo campo), ma addirittura muore e va in paradiso.

E questo avviene dopo che, a livello della narrativa pasoliniana, si era assistito un anno prima, in Una vita violenta, ad una analoga conversione del protagonista, Tommasino, dallo status di sotto-proletario a quello proletario e alla lotta di classe. Adesso, con Accattone, abbiamo “addirittura un film in cui si avalla l’integrazione figurale (nel senso che il protagonista diventa addirittura una nuova e moderna incarnazione simbolica di Cristo) dello stato tradizionale e cattolico per eccellenza”.

Pasolini, a questa obiezione, cerca di rispondere storicisticamente, inquadrando cioè la vicenda di Tommasino Puzzilli in una fase storica segnata dalle speranze suscitate, nella classe operaia, dalle vicende del XX Congresso del PCUS e dall’avvio del rinnovamento nel PCI; mentre la storia di Accattone andrebbe calata, secondo il poeta, nella fase di smarrimento causata dal tentativo reazionario, nell’estate del 1960, provocato dalla formazione del Governo Tambroni. Una spiegazione che, in verità, non dovette convincere neanche lo stesso Pasolini se, subito dopo, ritorna sul significato autenticamente “religioso” contenuto nel film: in quell’estate del 1960 (ricordiamo che l’inizio delle riprese, al Pigneto, è nell’ottobre dello stesso anno), scrive Pasolini “ … mi sono affacciato a guardare quello che succedeva dentro l’anima di un sottoproletario della periferia romana ….; e vi ho riconosciuto tutti gli antichi mali …, la sua miseria materiale e morale, la sua feroce e inutile ironia, la sua ansia sbandata e ossessa, la sua pigrizia sprezzante, la sua sensualità senza ideali, e, insieme a tutto questo, il suo atavico, superstizioso cattolicesimo di pagano. Perciò egli sogna di morire e di andare in Paradiso. Perciò soltanto la morte può “fissare” un suo pallido e confuso atto di redenzione. Non c’è altra soluzione intorno a lui, come intorno ad un enorme numero di persone simili a lui”. Verso la fine del breve scritto, Pasolini afferma di aver dato, con Accattone, “una tragedia senza speranza, perché mi auguro che pochi saranno gli spettatori che vedranno un significato di speranza nel segno della croce con cui il film si conclude”. Da queste ultime parole si comprende facilmente come l’augurio di Pasolini sia soltanto un espediente retorico, essendo l’augurio sottaciuto di Pasolini esattamente l’opposto.

D’altronde, come hanno rilevato molti critici e studiosi di cose pasoliniane, il poeta scrittore cineasta Pier Paolo Pasolini non smise mai, neanche per un istante, di fare i conti con la sua educazione cattolica: ne sono testimonianza gli innumerevoli riferimenti alla religiosità popolare disseminati in tutte le sue poesie (e financo in alcuni titoli delle sue raccolte, come L’usignolo della Chiesa Cattolica del 1958 e La religione del mio tempo del 1961, lo stesso anno dell’uscita sugli schermi di Accattone), per non parlare di film come La ricotta (1963) e Il Vangelo secondo Matteo (1964).

A proposito di quest’ultimo film, nella fase della sua progettazione Pasolini fu in contatto stretto con i rappresentanti dell’Associazione “Pro Civitate Christiana”, che gestiva (e continua a gestire) l’Istituto La Cittadella di Assisi; in uno scambio epistolare con Lucio Caruso, uno dei responsabili dell’Associazione, il regista scrisse: “… io non credo che Cristo sia figlio di Dio …. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell’umanità. … Vorrei che le mie esigenze espressive, la mia ispirazione poetica, non contraddicessero mai la vostra sensibilità di credenti. Perché altrimenti non raggiungerei il mio scopo di riproporre a tutti una vita che è modello – sia pur irraggiungibile – per tutti”. E per “tutti”, era sottinteso che Pasolini comprendesse anche i poveri Accattoni (e i poveri intellettuali vilipesi e perseguitati, inseguiti per strada, malmenati e processati, per le loro idee, per le loro opere, per i loro strani modi di vita). Il Vangelo fu dedicato da Pasolini “alla cara, lieta, familiare ombra di Giovanni XXIII”, e fu premiato dall’OCIC (Ufficio internazionale cattolico del cinema) con la seguente motivazione: “L’autore, di cui si dice che non condivide la nostra fede, ha dato prova nella scelta dei testi e delle scene di rispetto e delicatezza. Egli ha fatto un bel film, un film cristiano che produce una profonda impressione”.

 


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