

Il 10 febbraio è stata la “giornata del ricordo”. Com’è noto il Parlamento italiano la istituì nel 2004 venendo incontro all’esigenza di mettere fine a una reticenza e a una certa colpevole ambiguità e rimozione storica di ciò che avvenne nelle terre dell’Istria e della Dalmazia dove la fine della guerra e la sconfitta del nazifascismo si confusero con un’esplosione di vendetta nazionalista da parte dei partigiani di Tito nei confronti degli italiani perché tali, senza distinzione alcuna fra fascisti e antifascisti.
Simbolo di questa vendetta furono le foibe dove furono gettate molte migliaia di persone (circa 12.000) di etnia italiana decedute nei campi di concentramento o assassinate dai titini; alcune di queste vittime furono “infoibate” ancora vive. A ciò si aggiunse l’esodo penoso e drammatico di centinaia di migliaia di nostri connazionali (circa 350.000) costretti ad abbandonare le loro case e i loro averi in terre diventate jugoslave per riparare in Italia. I profughi giuliano-dalmati furono sistemati dai governi dell’epoca (diretti dalla DC) in campi di raccolta che avevano ben poco da invidiare a quelli di concentramento per prigionieri di guerra.
Le reticenze, le ambiguità e la rimozione storica, da parte di quasi tutto l’antifascismo italiano, di quella tragedia frutto dell’odio nazionalista fu, in parte, anche conseguenza della “Guerra fredda” che vi allungò le sue ombre. Dopo la rottura fra Tito e Stalin del 1948, l’Italia, entrata a far parte del Patto Atlantico e della Nato, mise in sordina, per ragioni geopolitiche, quel che avevano combinato i partigiani comunisti titini; e gli jugoslavi, simmetricamente, affievolirono la richiesta di consegnare loro i criminali di guerra italiani che avevano commesso stragi ed eccidi durante la guerra di occupazione nazifascista. I comunisti del Pci, dal canto loro, considerarono per lungo tempo i profughi come tutti complici delle gesta fasciste e, in un primo momento, come dei nazionalisti da guardare con sospetto perché fuggivano dal socialismo titino. Per un certo periodo, a testimonianza della divisione esistente fra comunisti di diversa etnia e affiliazione politica, nella zona di Trieste esistettero addirittura ben tre partiti comunisti: quello che si rifaceva al Pci e, fra la minoranza slovena, uno di rito cominformista-staliniano e uno titino.
Occorre tuttavia costatare che durante la “guerra fredda” il confine orientale dell’Italia fu contrassegnato da buoni rapporti con la Jugoslavia titina e fu considerato un confine aperto tra nazioni a diverso regime sociale a differenza della restante “cortina di ferro”, come la definì Churchill nel ’46, che divideva l’Europa occidentale da quella orientale e comunista.
Nel 1975 questa situazione più positiva ebbe come sbocco il Trattato di Osimo (nella foto – governo Moro) in cui Italia e Jugoslavia si accordarono definitivamente sui rispettivi confini in Istria.
Poi intervenne, nei primi anni ’90, la dissoluzione della Jugoslavia titina con tutto il seguito nazionalistico di orribili guerre e pulizie etniche che sappiamo e che, però, non ebbero conseguenze di rilievo sul nostro confine orientale. La Slovenia è entrata nell’Ue il 1° maggio del 2004.
E’ più che giusto, perciò, che la Repubblica antifascista, anche se con colpevole ritardo, abbia cercato di mettere fine ai “non ricordo”. Il primo Presidente della Repubblica chiamato a celebrare la data del 10 febbraio fu Ciampi che disse parole storicamente chiare sulle sfondo di responsabilità per quegli eccidi: “Questi drammatici avvenimenti formano parte integrante della nostra vicenda nazionale; devono essere radicati nella nostra memoria; ricordati e spiegati alle nuove generazioni. Tanta efferatezza fu la tragica conseguenza delle ideologie nazionalistiche e razziste propagate dai regimi dittatoriali responsabili del secondo conflitto mondiale e dei drammi che ne seguirono”.
Nel 1993 Slovenia e Italia (governo Ciampi) avevano già istituito una commissione mista storico culturale che dopo sette anni di lavoro produsse una relazione comune sulla storia difficile di quelle terre e delle reciproche ingiustizie nazionaliste subite per quasi un settantennio (1880-19450) da italiani e sloveni. Quel documento, purtroppo, non è stato valorizzato. Potrebbe ancora originare una comune “giornata del ricordo” che sarebbe un vero atto di condivisione della memoria, almeno fra italiani e sloveni.
Chi non ha alcun diritto di farsi vessillifero, nella “giornata del ricordo”, di una tragedia da loro stessi in gran parte provocata sono gli antichi eredi del fascismo e i moderni nazionalisti-sovranisti italiani. A costoro, come sempre, occorre rinfrescare la memoria.
Nel primo dopoguerra il fascismo italiano in quelle terre di confine ne combinò di tutti i colori contro slavi e croati che erano etnie maggioritarie nei contadi che circondavano le città istriane e dalmate a maggioranza italiana come Trieste, Fiume, Pola. L’italianizzazione fu perseguita spietatamente. I fascisti abolirono nelle scuole l’insegnamento delle lingue croata e slovena. Tutti gli insegnanti croati e sloveni furono sostituiti con insegnanti italiani. Furono imposti d’ufficio nomi italiani a tutte le centinaia di località dei territori assegnati all’Italia col Trattato di Rapallo, anche laddove precedentemente prive di denominazione in lingua italiana, in quanto abitate quasi esclusivamente da croati o sloveni. Decine di migliaia di sloveni e croati furono obbligate a italianizzare i loro cognomi. Gli impieghi pubblici furono assegnati solo agli italiani.
Durante la guerra fascisti e nazisti trucidarono senza pietà civili e partigiani jugoslavi, misero a ferro e fuoco numerosi villaggi, attuarono rappresaglie ed eccidi feroci. Per esempio il generale Roatta, quello che l’8 settembre del ’43 scappò con il re e Badoglio, lasciando Roma e l’Italia in balìa dei tedeschi, ordinava ai militari italiani: “il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato nella formula dente per dente, ma bensì da quella testa per dente”. Il generale Mario Robotti, da parte sua, comandante dell’XI Corpo d’Armata nella zona di Lubiana raccomandava: “internamento di tutti gli sloveni per rimpiazzarli con gli italiani” per “far coincidere le frontiere razziali e politiche” e poi “esecuzione di tutte le persone responsabili di attività comunista o sospettate tali”. Infine si lamentava: “Si ammazza troppo poco!”. Dopo l’8 settembre del ’43 le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume, furono prese nelle amorevoli cure amministrative dirette, con l’assenso dei fascisti repubblichini, dal gauleiter nazista Friedrich Reiner. Stessa cosa, per altro, i “patrioti” di Mussolini fecero con quelle di Bolzano, Trento e Belluno consegnate direttamente ai tedeschi.
Tutto ciò forse giustifica ciò che fecero i titini? Assolutamente no. Ma non consente agli eredi del fascismo italiano di ergersi, sotto qualsiasi forma e in qualsiasi luogo d’Italia, a difensori delle popolazioni italiane e dei profughi dell’Istria e della Dalmazia che subirono le conseguenze terribili delle politiche di odio nazionalista e delle efferate mascalzonate dei fascisti. Il 20 settembre del 1920 Mussolini, parlando a Pola, elencò prima le nobili imprese fasciste: “Qual è la storia dei Fasci? Essa è brillante! Abbiamo incendiato l’Avanti! di Milano, lo abbiamo distrutto a Roma. Abbiamo revolverato i nostri avversari nelle lotte elettorali. Abbiamo incendiato la casa croata di Trieste, l’abbiamo incendiata a Pola…”; poi disegnò la politica sciovinista e nazionalista che in seguito avrebbe spietatamente attuato in quelle terre di confine: “Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava […] non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani”.
Insomma, il progenitore del “prima gli italiani”.
Aldo Pirone
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