Il futuro della Chiesa e il vangelo secondo Concetta o Peppino
Insegniamo l’ascolto, recuperiamo la vicinanza, e avremo una comunità con una parola da mettere in pratica, una storia da tramandare e dei valori da perpetuareIl vangelo secondo Concetta o Peppino è la base della nostra fede. È così che si è diffuso il cristianesimo, attraverso cioè il racconto delle persone che avevano incontrato Gesù.
Di tutte queste testimonianze, quattro sono state messe per iscritto, ma tutte le altre non si sono perse, anzi, sono state feconde di conversioni e di santificazione di una schiera innumerevole di persone. La fede cristiana si tramanda infatti per contagio.
L’unica volta che Gesù scrive, scrive nella polvere. Non lascia di suo alcuno scritto, neanche un foglietto che ripeta con esattezza qualche sua parola, una frase che lui ritenesse particolarmente importante, uno slogan per i posteri.
Lascia tutto ai suoi apostoli, perché tramandino. E loro tramandano attraverso la loro persona.
La scrittura congela; la parola scritta è inchiodata al tempo, alla cultura, ai modi di scrivere che lo scrittore conosce. Deve essere studiata per essere capita. La parola che leggiamo è in fondo tronca, manca del suono, del ritmo, della pronuncia, manca dell’attualità che il corpo e la voce instaurano quando si parla.
L’oralità permette la relazione. Si crea una comunità di ascoltatori e un ricordo comune di chi quella parola l’ha pronunciata. Così nasce il popolo di Israele: dall’ascolto comunitario della parola del suo Dio. L’ascolto è il primo dei comandamenti, la cui lista comincia proprio con: «Ascolta, Israele!».
La fedeltà neanche per Israele sarà alla parola precisa, esatta, fissata per sempre – la Bibbia non teme infatti di raccontare più volte e in modo diverso lo stesso episodio – perché la fedeltà è rivolta alla verità che essa ha fatto risplendere nella mente di chi l’ha ascoltata, alla gioia, all’emozione, ai cambiamenti a cui ha dato origine. Alle volte bisogna cambiare la parola per essere fedeli a colui che l’ha per primo pronunciata.
Lo stesso Platone, in fondo, sostenne che il filosofo è tale solo se non affida agli scritti quelle cose che per lui sono di maggior valore. La parola rivela ciò che la vista nasconde, perché di chi parla possiamo conoscere sia ciò che porta nella mente e nel cuore, sia il suo desiderio di comunicare con noi.
E ciò che dirà, se è vera comunicazione, tiene conto di chi è chi lo ascolta: i primi ascoltatori determinano il contenuto e la forma del messaggio più della intenzione di colui che parla. Gli autori sono tanti allora: sono tutti coloro che erano presenti.
Chi offre la sua testimonianza non è, naturalmente, uno strumento inerte: trasmette ciò di cui ha fatto esperienza, ma questa gli ha fatto vivere in profondità solo qualcosa di ciò che ha ascoltato e ha tralasciato tutto il resto. Siamo spesso piccoli al cospetto di ciò che ci viene consegnato e neanche è sufficiente che un’intera comunità ascolti e pratichi con fedeltà. È necessario anche che a ciascun suo membro Dio parli personalmente.
Questo non può che avvenire durante la preghiera solitaria. La preghiera rivolge a Dio il «Tu» e col «tu» Dio risponde: sono momenti che non possono essere condivisi, ma portano comunque frutto a vantaggio di tutti. Ciascuno riceve la sua parte di quell’unica rivelazione, quella parte che Dio assegna a lui in particolare e che nessun altro può davvero comprendere. L’uomo si apre a Dio con libertà e Dio risponde con altrettanta libertà. La rivelazione privata possiede d’altronde come suo ultimo obiettivo quello di trasformarsi in patrimonio comunitario.
La rivelazione personale diventa vita vissuta da chi l’ha ricevuta e in questo modo chiave per una maggiore comprensione della rivelazione da parte di tutti. Il Vangelo di Cristo diventa il Vangelo secondo Peppino, secondo Concetta, secondo ogni cristiano.
Alcune di queste tradizioni possono addirittura diventare famiglie spirituali e le famiglie spirituali si intrecciano e si intersecano scambiandosi le loro ricchezze: i domenicani imparano dai francescani e i francescani ascoltano i gesuiti e i gesuiti studiano i carmelitani… Senza anche uno solo di noi non si realizzerà una tradizione di verità, una modalità di amore, un’attrazione particolare verso Dio per qualche persona che non conosciamo.
Il filo che si sarebbe dipanato nei secoli resterà gomitolo inutile per sempre. Siamo, ciascuno di noi, fondamento di un particolare Vangelo, a servizio di tutta la Chiesa.
A chi ha aperto strade nuove tocca, a un certo punto, lasciar tutto, fidarsi, affidarsi; creata una comunità di discepoli perché apprendano, capiscano, vivano e trasmettano quanto hanno visto e ascoltato, deve uscire di scena, perché la morte lo elevi a punto di riferimento, ma permetta alla sua parola di crescere libera e fecondare vita nuova, mondi nuovi, per i quali chi per primo l’ha pronunciata non è stato preparato.
Ciò che si racconterà non sarà solo la sua parola isolata, ma il suo modo di vivere, di pregare e amare. La morte dell’iniziatore – o una semplice sua uscita di scena – permette alla parola di creare connessioni nuove, di entrare in contesti nuovi e ricevere significati nuovi, già inclusi in essa, ma imprevedibili finché essa non sia entrata in nuovi tempi e nuove culture: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Giovanni 12,24).
La fede non ha testi fondativi; i testi sono promemoria di idee nate in una persona concreta attraverso ciò che essa ha sperimentato nella preghiera e nella carità. Dio opera per via di incarnazione, non di informazione. Si è manifestato in Abramo, Mosè ed Elia, si è fatto carne di uomo in Gesù Cristo, continua a rendersi presente attraverso Concetta e Peppino. Quanto si ingannano coloro che credono nella Sola Scriptura! Non è forse nato prima il popolo di Israele e solo dopo esso ha scritto i suoi testi sacri? La Chiesa non è forse nata prima che alcuni suoi membri scrivessero i Vangeli e le Lettere? Non è stato forse tutto trasmesso sin dall’inizio in forma totalmente orale?
La trasmissione orale usava la memoria, ma la memoria antica non era la riproduzione di quanto avevano letto, ma la riproposizione di un testo che era stato loro rappresentato e recitato ad alta voce. Ogni interprete era allo stesso tempo un anello nella catena di una tradizione e l’origine a sua volta di una nuova tradizione. I Vangeli sono quattro per questa ragione, e la Chiesa ha condannato come eretico in passato chi ha tentato di unificarli.
Di Gesù solo in minima parte ciò che ha detto e fatto è affidato allo scritto, ma nulla si è perso che non fosse passeggero; tutto appartiene alla Chiesa, ed essa è l’attualizzazione della parola di Gesù, è la comunità che, di bocca in bocca, ha tramandato la vita, le opere e le parole del suo fondatore.
C’era allora anche la musica a facilitare la memorizzazione, a colorare del giusto sentimento ogni parte della narrazione, e a costringere la parola a dare ordine ai pensieri.
La predicazione di Gesù, quando è stata ri-tradotta nella lingua originaria, l’aramaico, ha rivelato ritmo e allitterazioni, ovvero, il suo essere in realtà musica e poesia.
Queste cose ce le siamo forse dimenticate. Nelle parrocchie trionfano i foglietti per far leggere ai presenti ciò che il lettore sta proclamando in quel momento davanti a loro; non si ascolta, si preferisce leggere e guardare. Nonostante tutto, però, nella Messa cattolica permane uno spazio della parola che costringe all’ascolto, sebbene siano proprio quelle parti di essa che di più vengono attaccate. L’omelia risulta sempre inadeguata, perché troppo lunga, o troppo complicata, o troppo semplice, o per tante altre opposte ragioni; ma le omelie dei sacerdoti un tempo duravano anche più di un’ora.
Abbiamo semplicemente perso l’abitudine all’ascolto. I canti non vanno bene perché troppo semplici e chiunque può cantare, oppure troppo complessi e nessuno ci si azzarda; e durante la preghiera eucaristica, concentrati nella preghiera personale, nessuno ascolta quelle parole che fondano la propria fede.
Nonostante tutto la Chiesa rimane un’isola felice per la folla di coloro che accendono la televisione appena svegli fino a notte inoltrata, lasciando che le immagini scorrano senza volume.
Adesso ascoltiamo in modo diverso, a volte per fissare in appunti scritti, e riportiamo attenti a tramandare ogni singola sillaba come è stata forse anche registrata. I grandi numeri degli ascoltatori a volte permettono di ascoltare a distanza, senza il calore, la mimica e gli sguardi che sono parte integrante di quel discorso. È importante invece l’ascolto che sente il calore del corpo di chi parla. La Chiesa è nata con i piccoli gruppi.
Togliamo l’ascolto dalle nostre giornate e avremo dei lettori solitari, ognuno a casa propria. Togliamo l’ascolto e ognuno conoscerà, semmai, solo sé stesso. Insegniamo l’ascolto, recuperiamo la vicinanza, e avremo invece una comunità con una parola da mettere in pratica, una storia da tramandare e dei valori da perpetuare.
Avremo un popolo che condivide una cultura, uno stile di vita. Avremo una comunità, una società, una discendenza, e così avremo forse un futuro. «Ascolta, Israele!»: Israele ascoltò e da «massa di gente promiscua» divenne un unico popolo, eletto da Dio. E noi, noi avremo un futuro?
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