

È inevitabile, quando si parla di calcio, di tifo e di memoria collettiva si percorre un terreno impervio che può creare danni allo stomaco anche del sostenitore più incallito e coinvolto: la retorica. Soprattutto quando i sentimenti individuali si intrecciano con la coscienza popolare di un quartiere tendenzialmente marginale e che lotta con magri mezzi per una dignità quotidiana come poteva esserlo il Quadraro negli anni ’70. Proprio in quel contesto, che lega il domestico alla strada come se quest’ultima stessa sia parte di una casa collettiva, si sviluppa un’epopea che riguarda il cambiamento di prospettive e di mentalità, con quel simbolismo fortissimo in grado di creare un portale tra intimo, pubblico e leggendario che è figlio dello sport più popolare in Italia, sublimato da gioie, dolori, urla e sofferenze di chi lo segue con trepidazione. Di chi lo ama.
Già, perché l’incipit di questa curiosissima pubblicazione Einaudi non è altro che un “breve prologo sull’amore”: “la vita non inizia quando uno nasce, la vita inizia nel momento in cui si comincia ad amare”. Basterebbe solo questa frase che dà inizio all’opera per racchiudere l’intero spirito e inquadrare l’operazione che Bonvissuto fa sul suo passato, sul sottobosco popolare che racconta e sulla leggenda calcistica che vive in prima persona: è tutto personale e chiuso nelle coscienze di chi vive. Durante la lettura si ha sempre l’impressione di essere messi in prima persona all’interno di una comunicazione indiretta, fatta di regole non scritte come lo è sovente quella che vive all’interno delle periferie.
Anche perché lo scrittore, per raccontare lo spirito del tempo di una Roma disillusa e popolare che si ritrova nel calcio da quasi zona retrocessione a lottare con la squadra nazionale più potente nel giro di un quinquennio buono, opta per una scelta che rende questo libro davvero unico nel suo genere. Una scelta che lo smarca dalla facile retorica per abbracciare un populismo inedito che lotta con le turbe individuali del bambino protagonista.
Sarebbe molto facile lasciarsi andare nell’ennesima celebrazione degli eroi dello scudetto giallorosso di ormai quasi quattro decadi fa, con tanto di nomi, cognomi, caratteristiche, stili di gioco, strategie comunicative di un Presidente capace di tener testa alla più potente famiglia italiana. Bonvissuto, con l’intelligenza dello scrittore navigato, non fa nulla di tutto questo: non fa mai nomi. Non c’è un calciatore, un parente, uno zio, addirittura il padre e neanche egli stesso con un nominativo proprio. Tutto è un soprannome o un ruolo sociale immaginario. Neanche il biondo campione di Porto Alegre, raffigurato in una copertina dai colori diluiti a mo’ di quadro impressionista dopo un goal nella sfida scudetto dell’anno della grande vittoria (sfida peraltro persa), si salva dalla bonaria e voluta mancanza: o meglio, lo scrittore gioca di gran gusto con l’incapacità dei romani, soprattutto di borgata, degli anni a cavallo tra i ’70 e gli ’80 nel pronunciare correttamente il suo nome, spesso sostituendo con ingenua brutalità la “l” con una “r” a metà della parola stessa. D’altronde, come dice il titolo di un capitolo, bisognerebbe imparare a “pensare il Brasile”.
Cosa non semplice da parte di una comunità che quando si ritrovava a pranzare fuori porta non vedeva l’ora di tornare al quartiere per non dare alla vita la possibilità di morire fuori Roma. “Perché chi nasce a Roma ha l’onore più grande nel morirci”. A tal proposito Bonvissuto racconta molto bene la genesi della sua famiglia, i motivi del silenzio del padre e le ragioni di una madre protettiva e dal carattere aspro come le borgatare di una volta: nell’anno della retrocessione in B della Roma nel 1951 il padre e il presunto “zio”, onnipresente nelle partite, furono sbaraccati dal Parco degli Acquedotti per poi trovare una ricollocazione al Quadraro, dove il papà dovette persino costruire un bagno pubblico che servisse l’intera palazzina. Uno spaccato di una Roma molto lontana anche dalla povertà più nera attuale, dove il “noantri”, che coinvolge la passione calcistica come ogni altro ramo della vita, è una sorta di coperta protettiva che serve al popolo per la sopravvivenza.
Lo stesso popolo che a fine anni ’70, dopo il pranzo della domenica, si ritrova in massa a casa del piccolo protagonista dove una radiolina scassata Grundig dà gli aggiornamenti dai campi (altro che pay per view!). Così c’è la narrazione delle tappe di una Roma piccolissima che mano a mano diventa più grande: si va dal pareggio in casa nel ’79 contro la squadra di Bergamo per mano del baffuto bomber di Crocefieschi che scongiura la Serie B grazie al 2 a 2, al tragico pomeriggio del razzo che in un derby va da una sponda all’altra per uccidere un padre di famiglia, alle prime esperienze di stadio con la vittoria esaltante della Coppa Italia contro il Torino ai rigori. E poi… e poi con la riapertura del calciomercato agli extracomunitari arriva Lui. Il numero 5, atteso all’aeroporto da un popolo intero che accorre in massa a vederlo e di cui neanche conosce le sembianze germaniche (altro che riviste o siti internet in tempo reale!). Atteso anche dal piccolo protagonista, che rimane a fissare una vetrina per ore dove la maglia dell’ultima squadra brasiliana ad averlo avuto in campo è esposta con la scritta “sta arrivando!”.
Perché in fondo, per un bambino dell’epoca e non solo, l’avvento del numero 5 (con tutte le sfumature cabalistiche del caso ostentate nel libro) ha rappresentato qualcosa che andava oltre l’immaginazione. Qualcosa di mistico.
Un libero a tutto campo, ruolo che oggi è praticamente inesistente, capace di partire dalla difesa e poi fiondarsi all’attacco per fare robe come un colpo di tacco al volo per liberare il tuffo dello stesso bomber che due anni prima scongiurò la retrocessione. E poi il goal a Pisa, dopo la grande sconfitta nel big match di quell’anno… e le dichiarazioni pubbliche che certificavano che ciò che si pensava impossibile in realtà possibile lo era davvero.
Così il libro da metà, terminata la disamina ambientale e antropologica, prende la strada di un racconto superomistico, dove il piccolo avrà anche guai e finirà col distaccarsi parzialmente dalla mentalità “de noantri” solo per aver accompagnato, con l’urlo liberato a squarciagola, il goal del proprio eroe contro l’Italia ai Mondiali di Spagna, dove questo con una finta di corpo sbilancia l’intera difesa per trafiggere il portiere della squadra dei rivali in campionato.
Una storia di condivisione, rielaborazione solitaria e romanticismo con un via vai di mentori che si susseguono quasi moltiplicandosi (un po’ barboni che vivono in roulotte sul fiume e rivendono cose ritrovate, un po’ vicini solitari di posto allo stadio, un po’ filosofi dei massimi sistemi). Tutta ad altezza bambino. Per i tifosi della Roma è impossibile non emozionarsi, anche per quelli che non hanno vissuto gli anni ’70 e ’80 e che magari hanno pure la fortuna di non rendersi conto di una mancanza abbastanza clamorosa: anche solo l’accenno ad un goal annullato che qualche anno prima dello Scudetto poteva già far vincere la Roma in un celebre scontro diretto. Grazia del sabaudo editore Einaudi, che salutiamo con affetto per averci sottoposto l’opera.
Sandro Bonvissuto, La gioia fa parecchio rumore, Einaudi,2020, pag. 200.
Valerio Principessa
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