

Applausi scroscianti ed entusiastici consensi, sabato 1° marzo 2025 all’Auditorium Parco della Musica “Ennio Morricone”, al termine tanto del Concerto n. 2 per violoncello e orchestra di Shostakovic (solista il virtuoso violoncellista ungherese Istvàn Vàrdai), quanto della celebre suite sinfonica Shéhérazade di Rimskij-Korsakov, eseguiti dall’orchestra di Santa Cecilia diretta dal Maestro Tugan Sokhiev, russo di San Pietroburgo.
Confesso innanzitutto la mia forte impressione di fronte alla splendida esecuzione del pezzo shostakoviano, che per la prima volta ascoltavo dal vivo, essendomi fatto sfuggire le sole due precedenti esecuzioni romane (la prima nel 1996, con l’orchestra diretta da Kurt Sanderling mentre il solista era Michael Sanderling; la seconda nel 2004, direttore Marc Albrecht, solista il nostro Mario Brunello).
Si è trattato, in effetti, di una performance, tanto dell’orchestra, quanto del bravissimo solista ungherese, di straordinaria virtuosistica maestria, che ha messo in luce la suggestiva potenza e profondità di una composizione che, completata nel 1966 (in una fase molto triste della vita del celebre musicista russo, funestata da malattie e da continui ricoveri, dalla paralisi della mano destra, dalla morte di molti suoi amici, tra i quali la poetessa Anna Achmàtova, più volte censurata ed emarginata dal governo sovietico, sorte condivisa da Shostakovic per un lungo periodo tra gli anni Trenta e Quaranta), venne eseguita per la prima volta il 25 settembre 1966 dall’orchestra sinfonica di Stato dell’URSS, avendo come solista il più grande violoncellista di tutti i tempi: Mstislav Rostropovich, amico personale dell’autore e anch’egli in sospetto di eresia da parte del governo.
La struttura del concerto, articolata nei canonici tre movimenti, con la parte lenta e intermedia, l’adagio, spostata all’inizio, al fine di offrire immediatamente all’ascoltatore un’atmosfera e un tono espressivi funerei, una sorta di amara meditazione che si stenderà, come un’ombra, anche sulle successive due parti del concerto, entrambe allegretti.
Il violoncello, pur non sovrastando l’orchestra, ha il compito, nella composizione, di iniziare e sviluppare un mesto dialogo attraverso un motivo assorto e sinuoso, a volte tormentato, a volte sommesso e ripiegato su se stesso; talvolta sembra aprirsi ad un lirismo autoconsolotario, quasi subito contraddetto da contorcimenti e violenti pizzicati. Segue poi un lungo brano in cui il solista si cimenta in una sorta di danza macabra, provocando una graduale crescita di tensione nell’intera orchestra, siglata da ripetuti e devastanti colpi di grancassa.
Il secondo movimento, primo allegretto (un allegretto poco allegro), è contrassegnato dall’inserimento del motivo di una canzone tradizionale (Bubliki, kupite bubliki, “ciambelle, comprate ciambelle”) cantata dai venditori ambulanti per le strade di Odessa: una storia triste, di una ragazza con padre alcolizzato, madre prostituta, fratello borseggiatore, costretta, per sopravvivere, a vendere biscotti e dolci sui marciapiedi e per le piazze della grande città. Una storia di emarginazione, utilizzata da Shostakovic come segreto atto di denuncia contro l’arresto di due scrittori dissidenti, Daniel e Sinjavskij, avvenuto nell’inverno del 1966.
Un tema danzante e con movenze meccaniche, che nel Concerto conferisce all’intero secondo movimento un tono sinistro e inquietante, accentuato dall’irrompere di una fanfara di corni e da un rullare di tamburi, tutt’altro che trionfali. Il tema di Bubliki viene poi ripreso nel terzo movimento, nel corso del quale il violoncello, creando una sorta di atmosfera raccolta, di tipo cameristico, dialoga senza sosta, con gusto rapsodico, in compagnia del flauto e con il clarinetto, sollecitando una gigantesca perorazione sinfonica, a piena orchestra.
Dopo l’intervallo e a mo’ di felice e consolatoria conclusione della serata, l’orchestra di Santa Cecilia, diretta impeccabilmente e con raffinata eleganza interpretativa dal Maestro Tugan Sokhiev (che, in vari passaggi, mi ha ricordato alcuni celebri direttori di scuola sovietica visti all’opera, nel vecchio Auditorio di via della Conciliazione, nella conduzione dell’orchestra di Stato di Leningrado e/o quella dell’Armata Rossa), ha eseguito la celeberrima Shéhérazade di Rimskij-Korsakov (maestro di un gigante della musica del XX secolo, Igor Straavinskij), uno dei momenti più alti di tutta la storia della musica russa: composta nel 1888, è intitolata alla principessa che, nella raccolta di fiabe arabe, Le mille e una notte, per salvare la propria vita, racconta al sultano Shahriyar un racconto per notte, per un totale di Mille e una notte, finché il sultano, grato della dedizione della giovane principessa, le risparmia la vita.
L’autore di Shéhérazade attinge, per i quattro movimenti che compongono la suite sinfonica, a quattro distinti racconti della raccolta, tra loro musicalmente collegati, creando in tal modo “un caleidoscopio di immagini fiabesche e dal carattere orientale”. Una musica dallo straordinario potere evocativo, che si affida ad una magia di timbri e ad un’inventiva melodica che è garanzia di continue, magiche, favolose suggestioni di un Oriente incantato e incantevole, ricco di fascinazioni, di profumi inebrianti, di melodie che si rincorrono nella notte, sotto il morbido e carezzevole brillio di astri straordinariamente luminosi e avvolgenti.
I due temi che si ripetono in tutti e quattro i movimenti (titoli: Il mare e la nave di Sinbad, Il racconto del principe Kalender, Il giovane principe e la giovane principessa, Festa a Bagdad. Il mare. Il naufragio) sono definiti già nelle battute dell’incipit: quello minaccioso, che si riferisce al Sultano, segnato dal lugubre predominio degli ottoni più scuri; e il secondo, la “voce” della narratrice Shéhérazade, caratterizzata da delicata dolcezza e sensualità, affidata al violino accompagnato dall’arpa.
I quattro racconti sono un alternarsi continuo di soavi momenti di sensualità e di tenerezza e, in contrasto, di improvvise e parossistiche eccitazioni timbriche e ritmiche, accompagnate da frenetiche e rutilanti e chiassose danze popolari, evocanti (come nell’ultimo episodio) tempeste marine che trascinano su e giù per l’oceano la nave del marinaio Sinbad.
Due temi che s’imprimono fin da subito nella mente e nel cuore dell’ascoltatore, trascinandolo – per dirla con Baudelaire (e con Battiato) – in un “viaggio verso quel paese che ti somiglia tanto … Laggiù tutto è ordine e bellezza, calma e voluttà … il mondo s’addormenta in una calda luce di giacinto e d’oro. Dormono pigramente i vascelli vagabondi arrivati da ogni confine per soddisfare i tuoi desideri …”.
In conclusione, un concerto che è riuscito a collegare, spontaneamente, il sentimento della morte imminente e il racconto fiabesco, la tormentata musica moderna e quell’incantevole sogno, nel quale convivono infiniti sogni, rappresentato dall’immaginifico Oriente delle Mille e una notte, il tutto trasfigurato e trasformato in partiture musicali nelle straordinarie e armoniose composizioni di due tra i massimi rappresentanti della grande musica russa.
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