Una “Breccia” lunga 153 anni
Quella di Porta Pia - 20 Settembre 1870 e 20 Settembre 2023Se andate a Porta Pia a Roma, zona della città al confine tra il Quartiere salario e il Quartiere Nomentano-Italia, trovate il Monumento al Bersagliere (Voluto, nel 1923, dall’Associazione Nazionale Bersaglieri e “congelato” da Mussolini in persona, per non riaccendere la “Questione romana”) e trovate il Museo Storico dei Bersaglieri, Specialità dell’Esercito Italiano fondata, il 18 Giugno del 1836 dal Generale Alessandro La Marmora.
Quello è il luogo della famosa “Breccia di Porta Pia” dalla quale, proprio i Bersaglieri, entreranno a passo di carica il 20 Settembre di 153 anni fa, nella Roma papalina. Da quella “Breccia” inizia la storia della città di Roma, come parte del Regno d’Italia, di cui sarà la Capitale dal 1971, dopo Torino e Firenze , che lo fu per 5 anni dal 1865.
Qui inserisco una breve Nota nella storia di Roma durante l’occupazione tedesca, per ricordare che quel Museo Storico dei Bersaglieri, inaugurato nella sede attuale il 18 Dicembre del 1932, è stato, durante i 271 giorni in cui “era notte a Roma”, la santabarbara dei GAP romani essendo l’allora custode del Museo un militante comunista e partigiano.
Ma per tornare alla “Breccia”, non furono i Bersaglieri e i fanti piemontesi ad aprirla, magari con ripetuti assalti alla baionetta contro gli zuavi papalini (non solo francesi, ma olandesi e belgi) bensì un Capitano d’Artiglieria piemontese di origine ebraica. Quell’Ufficiale si chiamava Giacomo Segre (1839-1894) che quel giorno, aveva 31 anni e comandava la V Batteria pesante del IX Reggimento di Artiglieria piemontese.
Alle 5.20 del fatidico 20 Settembre 1870, un Martedì, Segre ordinò d’aprire il fuoco contro la Porta Pia, una delle ultime porte delle Mure Aureliane, opera di Michelangelo Buonarroti che la concepì in età già avanzata. Subito dopo sparano anche la II e l’VIII Batteria del VII Reggimento d’Artiglieria, dirette dai Capitani Buttafuochi e Malpassuti. I loro 888 colpi creano la “breccia” da cui i Bersaglieri irruppero nella Capitale dei Regno temporale dei Papi. Di quel primo colpo di cannone e dell’uomo che dette l’ordine di aprire il fuoco, a Porta Pia non c’è una traccia di Memoria.
Per trovare una Lapide che ricordi l’uomo e il momento storico di cui – si può sostenerlo a piena ragione – “accese la miccia”, bisogna andare nella parte ebraica del Cimitero di Chieri (Torino).
Ma di quella “Breccia” furono spettatori entusiasti anche i borghiciani delle Fornaci, capitanati da Sante Viola, capopopolo dell’”Università dei Fornaciari – Società di Mutuo Soccorso simil-sindacale che raccoglieva, al tempo, oltre 400 iscritti – e bestia nera del Tenente Nardini della Gendarmeria pontificia. I borghigiani furono attivi durante tutto il periodo risorgimentale. Come avevano lottato per la Repubblica Romana del 1849 alcuni di loro, tra i quali Sante Viola, parteciparono allo sfortunato tentativo di Garibaldi di riconquistare, nel 1867, Roma ed i loro sentimenti erano innegabilmente nazionali ed unitari. Così quando – intorno alle nove del mattino del 20 Settembre 1870 – un Reggimento di Bersaglieri ed uno di Fanteria, del Corpo di spedizione del Generale Cadorna entrarono in città, attraverso la “Breccia” aperta a cannonate a Porta Pia, trovarono ad accoglierli un folto gruppo di borghigiani entusiasti.
Papa Pio IX (al Secolo il cardinale Giovanni Maria Mastai-Ferretti-Senigallia), intanto si era richiuso nei Palazzi Vaticani, dopo aver rifiutato – preferendo dichiararsi prigioniero dello Stato italiano – l’offerta fattagli dal Governo del Regno sabaudo di mantenere la piena sovranità sul territorio all’interno delle “Mura Leonine”, in cui era compreso il “Borgo dei Fornaciari”.
Il 2 Ottobre successivo, i borghigiani insorsero alla notizia che erano stati esclusi dal Governo di Firenze (allora Capitale del Regno d’Italia) – in quanto abitanti all’interno delle “Mura Leonine” – dalla possibilità di votare al Plebiscito per l’unione della città al Regno d’Italia. Talmente grande fu la sommossa che alla fine, il Governo piemontese dovette cedere: gli abitanti di Borgo furono ammessi al voto e votarono in massa per l’unione di Roma al Regno sabaudo.
Dove cominciano e dove finiscono le storie
Rosario (Sasà) Bentivegna, nome di battaglia “Paolo”, è stato uno degli attori principali della storia che inizia con l’attacco partigiano di Via Rasella, il 23 Marzo del 1944, e termina con l’eccidio delle “Cave Ardeatine”, del giorno successivo. Nel dopoguerra è stato molte volte – e contemporaneamente – sia imputato (poi assolto) in diversi Processi, penali e civili, relativi a quell’azione partigiana ed alla rappresaglia successiva; sia interpellato, come attore/testimone di quell’azione militare che era pienamente inserita nella strategia di resistenza armata all’occupazione nazifascista di Roma. Come ha affermato anche la Corte di Cassazione, da ultimo, con la Sentenza N.17172, del 7 Agosto 2007,quella di Via Rasella fu una legittima azione militare definita nella Sentenza come un:
- « […] legittimo atto di guerra rivolto contro un esercito straniero occupante e diretto a colpire unicamente dei militari».
Atto di guerra che ha portato alla rappresaglia contro i 335 martiri delle Ardeatine (alla fine della guerra tutti riconosciuti come “partigiani combattenti”) e contro la città.
Bene, Rosario Bentivegna ha raccontato ad Alessandro Portelli, autore dell’importante lavoro sui nove mesi dell’occupazione tedesca di Roma, edito da Donzelli con il titolo “L’Ordine è già stato eseguito”, anche un’altra storia. Una storia personale che apparentemente non riguarda quel periodo. Ma solo apparentemente però. E’ una storia che parla di Roma, appena designata come nuova Capitale del Regno d’Italia, dei suoi Palazzi, degli architetti che li hanno progettati, degli operai che li hanno costruiti e – soprattutto – delle Cave da cui sono venuti i materiali che hanno permesso la costruzione di quei palazzi, tra le quali le “Cave Ardeatine”.
E’ una storia nella Storia e forse uno scherzo del destino che qualcuno – in tempi ormai lontani – ha definito “cinico e baro”. Racconta, infatti, Bentivegna che il nonno – di nome come lui Rosario e Architetto di Corleone – che aveva costruito la Frazione palermitana di Mondello, arriva a Roma, dopo il 1870. La “febbre edilizia” del tempo ha bisogno di materiali ed i terreni a Sud di Roma, quelli fuori Porta San Paolo e Porta San Sebastiano, se mescolati con la calce, formano una massa che s’indurisce tanto all’aria, quanto a contatto con l’acqua.
Le industrie di estrazione e di laterizi – ricorda Bentivegna nell’intervista – «si moltiplicano in gran numero nella città e nel suburbio». «Le cave – tra l’Appia e la Tiburtina – sono, all’epoca, circa 170, con 3160 lavoratori». Tra queste ci sono anche le “Cave Ardeatine” «scavate» – ricorda ancora Paolo – «per estrarre il materiale con cui si espande Roma moderna». Le “Cave Ardeatine”, però più avanti nel tempo «Cambieranno il nome in “fosse”» – conclude Paolo – «quando saranno riempite con altro materiale.».
Ieri, a 153 anni da quella “Breccia”, nessun pezzo sui Quotidiani nazionali ha ricordato quell’evento. Io lo faccio oggi qui perché le date fondanti della nostra Repubblica non vanno dimenticate, come non va dimenticato quel primo colpo di cannone, propiziato dalle lotte del Risorgimento e dall’epopea della Repubblica Romana del 1849 a cui molto deve la nostra Costituzione e dunque, tutti noi.
Parliamo di storia …
L’Argentina democratica non dimentica e non dimenticherà. In Argentina, il prossimo 22 Ottobre, si terranno le Elezioni Generali che designeranno il nuovo Presidente della Repubblica. E una parte del Congresso Nazionale (metà dei Deputati e 1/3 dei Senatori). Tra i candidati alla Presidenza della Repubblica c’è Javier Milei, ex conduttore radiofonico 53enne, politicamente attestato su posizioni estreme di destra.
La Campagna elettorale ha portato alla luce, a destra, la tendenza a rivedere la storia argentina degli anni della dittatura militare (1976-1983) leggendo quegli anni come se da una parte ci fosse un gruppo di facinorosi comunisti armati e dall’altro le forze militari di sicurezza che hanno si compiuto degli eccessi ma, diremmo così, per “legittima difesa”, meglio per proteggere lo Stato. Ecco, è come se – i 30mila e più desaparecidos, i luoghi dell’internamento e della tortura, come la ESMA, La Escuela De Mecanica de la Armada (la Scuola di Meccanica della Marina Militare, oggi luogo della Memoria degli anni della dittatura militare), le fosse comuni e i voli della morte, con lancio nell’oceano dei prigionieri legati, anestetizzati, ma ancora vivi (e benedetti dal prete salito a bordo) – non fossero mai esistiti o, al più, fossero soltanto degli “eccessi”; mentre furono dei crimini contro l’umanità, perpetrati dai militari in una “guerra sporca” che non era una vera e propria guerra, ma solo la militarizzazione illegale della repressione statale, che darà, tra l’altro, origine ai Processi contro i militari, tenutisi nel Paese (ma anche da noi) a partire dal 1985 e per alcuni anni successivi.
Questa rilettura storica delle dittature è oggi comune in America latina e non solo lì: Jair Bolsonaro, in Brasile, nega le nefandezze criminali della dittatura militare, che strinse il Paese in una morsa opprimente e assassina dal 1954 al 1985; così come fa, in Cile, Josè Antonio Kast, con gli anni della Giunta militare di Pinochet, mentre la spagnola Vox rivaluta il franchismo degli anni dal 1939 al 1975.
Questa tendenza a riscrivere la Storia sembra avere attecchito anche da noi, dove si definiscono “musici pensionati” gli assassini del Polizei Regiment “Bozen” e non è più solo l’estrema destra nazifascista a nutrire dubbi sugli autori (fascisti) della strage alla Stazione Ferroviaria di Bologna, ma quei dubbi li nutre anche una consistente frangia del partito della Premier Meloni, se non la Meloni stessa, anche se non lo dice più chiaramente come quando era all’opposizione.
Sic stantibus rebus diventa allora maggiormente importante, nel nostro Paese, continuare a fare Memoria di “ciò che è stato”, in ogni situazione e soprattutto nella Scuola. Impegno costante che l’ANPI ha preso da sempre e intende continuare ad onorare. Intendiamo farlo – e lo faremo – non solo per ristabilire, riguardo alla storia degli anni del fascismo e della Seconda guerra mondiale, la “verità effettuale delle cose”, ma anche per continuare a rendere il doveroso e sacrosanto omaggio a chi – con la sua resistenza al nazifascismo e al prezzo di enormi sacrifici (anche della vita) – ci ha permesso, oggi, di “essere e fare” in libertà.
Ugo Fanti, Presidente della Sezione Anpi di Roma Aurelio-Cavalleggeri “Galliano Tabarini”