Altri racconti di spiriti nei Castelli Romani

La movimentata notte di Massimo D'Azeglio nel palazzo Cesarini Sforza a Genzano

Proseguiamo nei racconti di spiriti nei Castelli Romani di cui abbiamo pubblicato la prima puntata qualche tempo fa. E  per chi se la fosse persa, nessun problema, può leggerla a questo a questo link

Ed ecco i nuovi racconti. Buona lettura!

 

Un agricoltore di Grottaferrata tutte le mattine andava in campagna in sella al suo cavallo. Una mattina, davanti al cancello del cimitero, il cavallo si fermò improvvisamente: un lucido teschio spalancava le sue vuote occhiaie in mezzo alla strada. L’uomo, per nulla turbato, lo spronò a proseguire e il teschio, colpito da uno zoccolo dell’animale, rotolò lontano.

L’agricoltore durante la giornata, preso dal lavoro, dimenticò l’accaduto e tornò a casa tranquillamente. Ma la sera stessa, verso mezzanotte, tre forti bussate lo svegliarono: l’uomo si alzò dal letto e andò ad aprire, pensando ad un parente, ad un vicino in cerca d’aiuto, ma davanti alla porta non trovò nessuno. Guardò da ogni parte, osservò le case vicine, tutte con le persiane serrate e buie, poi abbassò gli occhi: il teschio, visto la mattina, era sui gradini di casa e sembrava ridergli in faccia con l’intatta chiostra di denti.

 

A una ragazzina di Rocca di Papa era morto il padre. Un giorno chiese il permesso alla madre di andare da sola al cimitero: voleva portare un mazzetto di fiori sulla tomba. La madre sapeva che la figlia avrebbe incontrato molta gente per la strada e molta anche al cimitero e la mandò tranquilla.

La ragazzina pulì la tomba e mise i fiori nel vaso, pregò, salutò la gente che incontrò e poi si avviò verso l’uscita. Mentre camminava, lo sguardo le cadde sulla finestrella dell’obitorio: c’era un uomo giovane là dentro, vestito con una cotta bianca sopra una tonaca nera. Era in piedi sul tavolo dell’obitorio, ma i suoi piedi non toccavano il marmo, non toccavano… Allora si sbiancò: «Ragazzi’ che te senti male?» le fece un uomo che passava.

«No, no, sto bene», ma corse a casa con l’affanno. 

Appena entrata, chiamò la madre e le raccontò confusamente quello che aveva visto. La madre, pur non credendo alle sue parole, l’abbracciò, la calmò, la convinse che i morti non fanno mai del male, anzi il contrario.

Nel frattempo entrò una vicina di casa che raccontò un piccolo avvenimento paesano: quel giorno avevano riportato il corpo di un giovane, che voleva farsi prete, ma, poveretto, era morto

prima. Non potendolo vestire da sacerdote, gli avevano messo addosso una bella cotta bianca ricamata sopra la tonaca nera. Una cotta bianca… La madre della ragazzina ebbe subito in mente le parole della figlia, sbiancò anche lei e raccontò tutto alla vicina.

 

Ariccia-PonteUn tempo molti disperati trovavano la morte buttandosi dal ponte di Ariccia. Si sfracellavano al suolo, ma non raggiungevano ugualmente la quiete, perché le anime dei suicidi non possono andare in paradiso e vagano per l’eternità.

Una mattina, due donne, madre e figlia, passavano sotto il ponte per andare a lavorare in campagna. Ad un tratto, nel silenzio dell’alba, sentono alle loro spalle il galoppo di due cavalli: impaurite, si mettono in fretta da parte, si abbracciano per non farsi travolgere, ma subito dopo torna il silenzio vivo del mattino e non passa nessun cavallo. Quando si voltano per rendersi conto dell’accaduto, vedono la strada deserta: non c’è nessuno, né uomini, né cavalli.

Le donne affrettano il passo, capiscono che i cavalli altri non erano che due anime in pena.

 

Una giovane di Ariccia va al camposanto poco prima dell’ora di chiusura. Mentre si affretta a pulire le pietre delle tombe dei parenti e a sistemare qualche fiore, le passa vicino un signore alto, distinto, con il cappello in testa, tre crisantemi in una manoe un elegante bastone nell’altra. La ragazza spontaneamente gli dice: «Sbrigatevi ché il camposantaro chiude…». Lui la guarda, ma non risponde e se scria (scompare).

La giovane non si accorge dell’improvvisa sparizione e, una volta sistemate le tombe, esce dal camposanto quasi di corsa. Incontrando il custode, gli dice in fretta: «Non chiude’ che c’è un signore dentro…».

E lui: «Un signore alto, ben vestito? Eh… ogni tanto se fa vedé…»

«Scappai a casa come il vento», ha concluso l’anziana narratrice di Ariccia Rina Barchiesi

 

lacasinadellerose_net_bkumbria_1207327876Spiriti senza  nome quelli dei racconti precedenti.  Mentre un fantasma  con un’identità precisa, nome e cognome, e tanto di stemma nobiliare, che si lamenta e vaga ogni notte nel Palazzo Sforza Cesarini è – secondo una credenza sedimentata da lungo tempo nell’immaginario popolare di Genzano –  proprio quello della contessa Livia, che in quel palazzo ha abitato.

Eppure la contessa non è morta di morte violenta, né nel palazzo c’è stato il tipico spargimento di sangue che si ritrova in tutte le storie di fantasmi. Però l’idea che il palazzo fosse abitato da vari spiriti, fra cui quello di donna Livia, è sicuramente già presente neIl’ottocento. Ne è testimone Massimo D’Azeglio che ne I miei ricordi racconta, nel tono umoristico che percorre molte pagine del libro, l’incontro con gli spiriti dell’allora disabitato castello. Il suo soggiorno a Genzano data al 1826.

«Ma non sai che ci stan gli spiriti?». Gli aveva detto, spaventata, la giovane aiutante del custode nel consegnargli le chiavi, quando aveva capito che quel  giovane signore aveva tutta l’intenzione di dormire in una di quelle stanze “quasi smobiliate”.

Massimo D'Azeglio
Massimo D’Azeglio

Massimo D’Azeglio non fa alcun caso alle sue parole né allo sguardo di compassione con cui la giovane lo saluta, e, rimasto solo, sistema i libri e gli attrezzi per dipingere, alloggia il cavallo in una stanza al pianterreno del palazzo e trascorre la giornata serenamente a spasso. Quando la sera rientra nel rovinato castello, si mette a dormire tranquillamente:

[…] Sul mio letto, al posto della sposa, collocai il mio schioppo carico, e soffiato sul moccolo di sego della lanterna, non passarono cinque minuti che ero già addormentato. Ma il mio sonno fu breve. La quiete profonda della notte fa sembrare maggiori tutti i romori, come ognuno può aver provato. Il castello, quando mi risentii, pareva abitato a tutti i piani ed in tutte le camere; era un andare e venire generale: sul palcoscenico pareva in corso la rappresentazione. Mi sentivo poi sventolare non so che vicino al viso, che passava, ripassava, girava per aria: una pagnottella, che avevo portato con me per la mia colezione del domani la sentii muoversi, cadere per terra dal tavolino dove l’avevo deposta, e poi seguitare il suo viaggio sul pavimento…

Mi alzai a sedere sul letto e tesi l’orecchio dicendo tra me: «Che diavolo succede!» e, pensando che un cervello disposto a vedere ombre e apparizioni avrebbe penato poco in quel tramenìo a vedersi alle coste tutte le anime degli Sforza, da Giacomo Attendolo a Ludovico il Moro.”

Massimo D’Azeglio non si spaventa, presto scopre che gli spiriti, paventati dalla sotto guardiana, altri  non sono che sorci e pipistrelli usciti dalle numerose fessure del vecchio parato di cuoio di cui sono tappezzate le pareti. Di qualche sorcio – racconta – riuscì a liberarsi, ma i pipistrelli che gli sventolavano sul viso, li sopportò stoicamente. «Sono gli animali più innocenti del mondo, e non mi diedero altrimenti noia».

 

Una sorta di fantasma, lontano dall’aureola nobiliare della contessa Livia, apparentemente campagnolo nel nome e di vita molto più breve, è ‘a Pampanella di Rocca di Papa, o meglio di un quartiere di Rocca di Papa perché era conosciuto e nominato solo nel quartiere più antico, quello medievale in alto sotto la fortezza. E sicuramente solo dal 1920 circa fino agli anni ’70. Mio padre e mia zia Livia, nati proprio in quel quartiere, che certamente nelle strade e nei vicoli di quel quartiere hanno giocato nel primo decennio del Novecento, non me ne hanno mai parlato, mentre la ricordano uomini e donne nati successivamente. E, come avviene per tutte le storie popolari, ognuno ha pronta una sua versione, cambiandole persino il nome in Mammanella o Mammana. Così per alcuni ‘a Pampanella è una strega altissima, magra con mani adunche, per altri un lungo fantasma vestito di bianco, per altri ancora una specie di incrocio fra un fantasma e una strega che, in ogni modo, fa paura. Difatti è un fantasma infido, maligno che porta via i bambini che non vogliono rientrare quando è già buio oppure che vanno a giocare su alla fortezza – in dialetto L’Orcatura -, considerato proprio il regno della Pampanella o de’ e pampanelle, al plurale, come dice Franco Carfagna. «No ì loco che ‘i stanno ‘e pampanelle  ( Non andare lì che ci sono le pampanelle ) gli dicevano i familiari da bambino per non farlo andare dalle parti della fortezza, che era allora scoscesa, senza muri di sostegno, pericolosa.

Il rocchigiano Tigellino Trinca ha ricordi differenti, di un ingenuo sapore boccaccesco: fin dopo la seconda guerra mondiale, la fortezza non era illuminata da alcun lampione e gli innamorati – quelli un po’ più spregiudicati, per quei tempi molto casti e rigorosi riguardo alla moralità delle ragazze – ci andavano a fare all’amore e, non volendo intorno occhi curiosi di ragazzi, alimentavano questa favola delle pampanelle.

 

Alla prossima con storie di cimiteri

 

Bibliografia

Massimo d’Azeglio, I miei ricordi, Utet, Torino, 1979

Maria Pia Santangeli, Streghe, spiriti e folletti- L’immaginario popolare nei Castelli Romani e non solo, Edilet ( Edilazio letteraria), Roma, 2013

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mariapiasantangeliMaria Pia Santangeli, toscana di nascita, vive da quarant’anni a Rocca di Papa, nei Castelli Romani. Ha pubblicato Rocca di Papa al tempo della crespigna e dei sugamèle e Boscaioli e carbonai nei Castelli Romani,Streghe, spiriti e folletti, tutti editi da Edilazio, e due libri per ragazzi: le quattro fiabe de Il Principe degli specchi (Sovera, 2000) e il breve romanzo ecologico Arbìn bambino albero (Ragazzi Editors, 2008), tutti e due lungamente citati in due tesi di Laurea sulla Letteratura per l’infanzia (Università di Roma Tor Vergata e Roma Tre). Nel 1996 ha fondato a Rocca di Papa l’Associazione culturale L’Osservatorio. Sempre a Rocca di Papa ha ideato e organizzato per tre anni una notte di cultura denominata La notte verde.

 

 


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