Sulle tracce dell’assassino
Un percorso-guida alla scoperta dei luoghi che, a Roma, custodiscono gli inquietanti e meravigliosi capolavori di Caravaggio, l’artista che fece della bellezza l’immagine sensibile del male
“….Bellezza, mostro enorme di spavento e ingenuità!/ cosa importa, in fondo, che tu venga dal cielo o dall’inferno?/ Il tuo occhio, il tuo sorriso, il tuo piede aprono la porta/ d’un Infinito che amo e non ho mai conosciuto./ Fata dagli occhi di velluto! Ritmo, profumo, raggio,/ unica mia regina! Da Satana o da Dio, cosa importa?/ Angelo o Sirena, cosa importa? Tu rendi/ meno schifoso l’universo e meno pesante ogni momento.” (Charles Baudelaire, da Inno alla Bellezza, ne I fiori del male).
“…Nei quadri di Caravaggio non c’è più nulla della raffinata bellezza di Raffaello, della prestanza del Buonarroti. Santi, soldati, testimoni, protagonisti e comparse non nascondono l’età, hanno carni screpolate e rugose, le vene rilevate di chi fa lavori pesanti, tozze le membra, i piedi enormi quasi sempre sporchi, indosso le logore vesti dei poveri”. (Corrado Augias, da L’altro Michelangelo, ne I segreti di Roma).
Sono stato a lungo indeciso sul titolo del presente articolo: l’alternativa (in un primo momento vincente, ma poi scartata definitivamente) a “Sulle tracce dell’assassino” era “Inseguendo un’ombra”; all’improvviso, quando quest’ultimo sembrava non aver rivali, mi sono ricordato che uno dei più intriganti romanzi storici di Andrea Camilleri, dedicato all’umanista ebreo (ma convertito alla fede cattolica) Flavio Mitridate – dotto conoscitore della tradizione cabalistica e amico e consigliere di Pico della Mirandola – aveva come titolo, appunto, Inseguendo un’ombra. Ma, in verità, a determinare la definitiva scelta per un titolo che richiama alla memoria la letteratura poliziesca, è stata, in primo luogo, la presenza del sostantivo “assassino”, che, sebbene dispiaccia moltissimo, è uno di quegli attributi nei quali, da sempre, ci si imbatte ogni qual volta si pensi alla sciagurata biografia di Michelangelo Merisi (meglio conosciuto con il nome di Caravaggio, pictor egregius, nato a Milano nel 1571 e morto, almeno ufficialmente, a Porto Ercole il 18 luglio del 1610). L’altro motivo, forse più importante, è rappresentato dalla parola “tracce”, la quale richiama, inevitabilmente, il percorso che un qualsiasi investigatore deve affrontare per ricostruire la personalità, il carattere e le azioni dell’assassino. Le tracce coincidono, nel corso dell’indagine, con le tessere sparse e frantumate di un mosaico che, nel caso di una personalità complessa e contraddittoria come quella del pittore nato milanese, ma immigrato e formatosi artisticamente a Roma dal 1592 al 1606, è composto dalle molte (ma non moltissime) sue creazioni. Opere che, indubbiamente, nel loro insieme rappresentano una tappa fondamentale nella storia dell’arte di tutti i tempi e di tutti i paesi.
Di queste opere, veri e propri inimitabili (sebbene imitati innumerevoli volte) capolavori, nella nostra città, ve ne sono fortunatamente in cospicua quantità, sparsi in luoghi abbastanza tra loro vicini e di agevole accessibilità. È dunque possibile, per chi ne avesse voglia ed è in possesso di buone gambe, ammirarne un buon numero spostandosi rapidamente, per le strade del centro di Roma, lungo un percorso che comprende innanzitutto musei e chiese aperte al pubblico.
L’arte di Caravaggio
Prima però di iniziare questa “passeggiata” artistica, è bene ricordare il carattere essenziale dell’arte di Caravaggio, carattere niente affatto disgiunto da una vita che, per usare un termine alla moda, è possibile definire “spericolata”, una vita segnata dalla violenza, dalle continue infrazioni alle leggi e alla morale corrente (quella cattolica contro-riformistica), dallo sperpero del tempo e del denaro, dai frequenti arresti e interrogatori da parte della polizia, da un grave fatto di sangue (un omicidio) e dal conseguente processo in contumacia concluso con una condanna a morte, dalla fuga da Roma e da soggiorni quasi mai tranquilli in città come Napoli, Malta (questo terminato con un processo, una condanna e una clamorosa evasione dalla più terribile e invalicabile fortezza dell’isola), e poi Siracusa, Messina, Palermo, di nuovo Napoli e, infine, dalla tragica e misteriosa sua scomparsa sulla spiaggia di Porto Ercole.
Ebbene, l’arte di Caravaggio, la sua essenza del tutto peculiare, è possibile sintetizzarla, parafrasando e rovesciando la celebre definizione platonica enunciata nel Simposio, nell’espressione: “bellezza come immagine sensibile del male” (invece che del bene). Sembra incredibile ma è così: con Caravaggio tramonta, o per meglio dire, viene contestato e rovesciato quel concetto, elaborato in Grecia nel V secolo a. Cr. e riscoperto dal Rinascimento italiano (per essere più precisi dalla cultura fiorentina sorta nella corte medicea nella seconda metà del ‘400) del Bello inteso quale ordine, forma, armonia, proporzione, simmetria, ritmo, in una parola: perfezione. Ma tutti questi termini, testé elencati, non sono altro che aspetti singolari di un Tutto che coincide con il Bene. In Caravaggio, al contrario, tanto nella vita quanto nelle opere, “inciampiamo” (l’uso del termine non è affatto casuale) continuamente in: disordine, deformità, disarmonia, sproporzione, asimmetria, aritmia, imperfezione. È il Male, a mio avviso (e non soltanto a mio avviso, ma anche a parere di molti dei suoi contemporanei), la presenza costante e determinante delle sue storie e immagini narrate e/o “gettate” con violenza sulle sue tele. Lo stesso male che si nasconde nell’oscurità, nella notte, nelle tenebre o nella penombra che costituiscono lo “sfondo” delle medesime tele. Lo stesso male che si intravede negli ambienti (sordide bettole, vicoli dove non penetra la luce del sole, misere stanze dove si stanno svolgendo o si preparano delitti, letti dove si distendono cadaveri, stalle, scantinati, ecc.) nei quali si agitano ragazzi che fuggono spaventati, energumeni in atto di infliggere il decisivo colpo di pugnale nel collo della vittima designata, ma anche giovani e procaci prostitute in veste di madonne, ragazzini che esibiscono sfacciatamente e maliziosamente la loro incipiente sessualità, truffatori, bari, ubriaconi. Un’umanità, quella che popola le tele di Caravaggio, sofferente, afflitta dalla fame, dalla fatica quotidiana, dalle malattie, dalla dura lotta per la sopravvivenza in una città (la Roma a cavallo tra XVI e XVII secoli) dominata da un clero corrotto e ipocrita, in cui una donna su tre vive (e fa vivere la famiglia) sui proventi della prostituzione, in cui la plebe sopravvive, in maggioranza, di elemosine e di assistenza offerte dalle numerose confraternite che, tra i loro fini statutari, contemplano le “sette opere di misericordia corporale” a vantaggio dei poveri. È da questa umanità disperata e segnata dal peccato, dalle sue non esemplari peripezie quotidiane, che nascono i capolavori di Caravaggio, che tanto colpirono (ma anche scandalizzarono) i suoi contemporanei, i grandi collezionisti d’arte che fecero carte false e pagarono somme esorbitanti per entrarne in possesso; che suscitarono, tra gli artisti, legioni di ammiratori e di imitatori (e, tra questi ultimi, ve ne sono di grandissimi: gli italiani Guercino e Guido Reni, i fiamminghi Rubens, Rembrandt, Vermeer, lo spagnolo Velasquez). Quei capolavori che, ancora oggi, sono ammirati da folle di appassionati d’arte e anche da persone comuni che, pur ignoranti in materia artistica, non possono fare a meno di emozionarsi nell’imbattersi, in veste di fruitori, in qualcuno di essi. Ciò che, sul piano filosofico ed estetico, costituisce lo straordinario paradosso della pittura di Caravaggio è che quest’artista riesce a trasfigurare il male (o per meglio dire: gli aspetti spaventosi della dura realtà) in bellezza, in immagini che evocano, con immediatezza, il sentimento del bello e del sublime. L’arte di Caravaggio possiede la capacità, come direbbe Baudelaire (uno che di artisti maledetti se ne intendeva) di “rendere meno schifoso l’universo e meno pesante ogni momento” del poco tempo che spetta ad ogni mortale.
L’itinerario romano
Ma ritorniamo al percorso che ci porterà “sulle tracce dell’assassino”. È un percorso che inizia dal Campidoglio, in particolare dalla sala di santa Petronilla della Pinacoteca dei musei Capitolini: qui, in posizione centrale, separati da un bellissimo “ritratto di gentiluomo” dello spagnolo Velasquez (che conobbe l’opera di Caravaggio, rimanendone fortemente impressionato, circa vent’anni dopo la sua morte, nel suo primo viaggio in Italia), troviamo La buona ventura (1594) e San Giovannino Battista (1602). Sono due opere che, sebbene non appartengano al gruppo dei grandi capolavori, tuttavia ci dicono molto sull’autonomia e sulla libertà dell’artista (rispetto alla rigida normativa estetica di stampo controriformistico dettata da san Carlo Borromeo e dal cardinale Paleotti, in due famosi trattati, qualche decennio prima dell’arrivo a Roma di Caravaggio) sia riguardo ai temi da trattare (non erano ammessi riferimenti a pratiche che avevano a che fare con le superstizioni popolari) sia relativi alla rappresentazione dei santi (scandalosissimo ritrarre un santo così venerato come Giovanni Battista nudo e con l’impudica sfrontatezza di un “ragazzo di vita”).
La seconda tappa è situata a poche centinaia di metri dal Campidoglio, per la precisione alla Galleria Doria Pamphili, nell’omonimo palazzo all’inizio di via del Corso; qui possiamo ammirare due quadri del 1597: Maddalena penitente e Riposo nella fuga in Egitto: nonostante la tematica tratta dai Vangeli, ciò che ci colpisce è quella lieve, ma ben percepibile, carica di sensualità che emanano tanto la Maddalena seduta in un interno e quasi dormiente, quanto, nel secondo quadro, l’angelo musicante appena coperto da un bianco velo fluttuante che, se non fosse per le ali, non avrebbe alcunché di diverso da una bella e provocante ragazza ritratta da tergo.
La terza tappa ci conduce – proseguendo lungo il Corso e deviando a sinistra in direzione di piazza di Pietra e, da lì, passando per il Pantheon e poi, attraversando piazza sant’Eustachio e lasciandoci alla nostra destra Palazzo Giustiniani e a sinistra Palazzo Madama – in piazza san Luigi dei Francesi, cosiddetta per la presenza dell’omonima chiesa. Qui, in questo bello e ricco tempio (punto di riferimento da almeno cinque secoli per tutti i francesi transitanti per Roma), posto di fronte a Palazzo Giustiniani, al termine della navata sinistra, è situata la celebre cappella Contarelli (Cointreuil), continua meta di visitatori e amanti dell’arte, attratti dalla presenza di ben tre capolavori dell’artista: La vocazione di san Matteo a sinistra, San Matteo e l’angelo al centro e il drammatico e concitato Martirio di san Matteo a destra, tutti e tre databili al 1601/1602. Sono le opere che imposero all’attenzione dei collezionisti e del grande pubblico il pittore milanese, le opere che inaugurarono un modo di dipingere diverso e antitetico rispetto a quello, accademico e moralistico, preteso dalla Chiesa controriformistica, le opere che segnano la raggiunta maturità tecnica e stilistica dell’autore. Soprattutto il Martirio di san Matteo, denso e movimentato, rappresenta un vertice della pittura cosiddetta “naturalistica”, quella pittura destinata però a soccombere (almeno in Italia), nei decenni successivi, di fronte all’avanzata inesorabile del barocco, in parallelo con la sconfitta, in ambito scientifico, delle nuove tendenze copernicane e galileiane le quali, proibite dalla Santa Inquisizione nei paesi cattolici, saranno sviluppate in territori nei quali forte era stata la diffusione della Riforma protestante (Olanda, Francia, Inghilterra).
La tappa successiva del nostro percorso è rappresentata dalla vicinissima chiesa di sant’Agostino, situata nel vicolo che si apre sulla destra di san Luigi. In questa chiesa del XV secolo, annessa al convento degli agostiniani, è conservata, in una cappella della navata sinistra, la celebre e scandalosa Madonna di Loreto (o dei Pellegrini), del 1604, nella quale il volto e il corpo della madre di Gesù furono facilmente identificati, dai fedeli frequentatori della chiesa, con quelli della prostituta Maddalena (detta Lena) Antognetti, amante occasionale dell’artista, colei che sarà causa di guai giudiziari per Caravaggio, nonché, con tutta probabilità, concausa dell’omicidio da lui commesso il 28 maggio del 1606 ai danni di Ranuccio Tomassoni, e della successiva condanna a morte. Utilizzare, quali modelli per le figure di santi e di madonne, donne e uomini presi dalla strada e dediti a mestieri umili quando non degradanti, non era una novità per Caravaggio. Ciò non impediva che, ad ogni nuova opera che veniva scoperta in un luogo di culto, si sollevassero clamori, indignazioni e proteste da parte della moltitudine dei benpensanti. Talvolta succedeva che la tela venisse addirittura rifiutata dai committenti (fu il caso di quella del celebre Transito della Vergine che, destinata alla chiesa di Santa Maria della Scala in Trastevere, venne respinta dai carmelitani e, dopo molte peripezie, finì per fare bella mostra di sé al Museo del Louvre di Parigi), oppure che Caravaggio fosse costretto a farne una nuova versione (è il caso, ad esempio, di San Matteo e l’Angelo e de La Conversione di Saulo).
Dopo la visita alla chiesa di sant’Agostino, ci aspetta un più lungo tragitto, lungo via della Scrofa e poi via di Ripetta, che ci porterà in piazza del Popolo, precisamente nella chiesa di santa Maria del Popolo. A metà circa del tragitto, però, sarà opportuno fare una piccola deviazione, prima di oltrepassare Palazzo Borghese, per raggiungere il vicolo del Divino Amore (già vicolo san Biagio) che sfocia sulla piazzetta detta della Torretta. Nel vicolo, al n. 19, possiamo dare un’occhiata, dall’esterno, alla casa che, per circa due anni, fu l’abitazione-studio di Caravaggio, prima della sua condanna e della successiva fuga a Napoli. La casa esiste tuttora e non è molto diversa da quella che fu più di 400 anni fa: c’è ancora nella facciata, immediatamente sotto il tetto, la finestrella dalla quale penetrava la luce che andava ad illuminare parzialmente lo studio dove l’artista dipinse, servendosi della medesima modella (cioè Lena Antognetti) sia la Madonna dei pellegrini che la Madonna dei palafrenieri (quest’ultima la troveremo nella Galleria Borghese). Non esiste più, invece, in piazza della Torretta, il grande laboratorio, di proprietà di un celebrato ma modesto pittore come Giuseppe Cesari, detto il Cavalier d’Arpino, dove Caravaggio, in qualità di garzone, mosse i suoi primi passi dopo essere immigrato a Roma negli anni tra il 1593 e il 1596. Tra l’altro, è bene ricordare che la zona in cui si trovava la casa di Caravaggio era chiamata l’Ortaccio, una zona malfamata a causa della massiccia presenza di prostitute che esercitavano il mestiere in quei vicoli e in quei tuguri degradati.
Nella chiesa di santa Maria del Popolo, e precisamente nella Cappella Cerasi, situata a sinistra dell’abside e dell’altare maggiore, troviamo altri due capolavori dell’artista, appartenenti anch’essi al suo periodo di massima ispirazione e produttività: trattasi di La crocifissione di san Pietro e di La conversione di Saulo, ambedue del 1601. Due tele nelle quali, tanto per i modelli utilizzati (popolani male in arnese e vestiti o svestiti poveramente), quanto per l’ambientazione (interni di una povertà e di uno squallore impressionanti), è difficile, se non impossibile, rinvenire un qualsivoglia elemento di misticismo o di presenza del sacro. Ciò che colpisce, in queste tele, è la crudezza e la sgradevolezza delle immagini, evidentissima nei volti e nei gesti degli assassini di Pietro, così come – nel secondo quadro – in quel profilo di cavallo (animale che riempie ben più della metà della tela, risultando così il vero protagonista del dipinto) colto un attimo dopo aver disarcionato dalla groppa il povero Saulo, ritratto in una posa che niente ha a che vedere con il racconto degli Atti degli Apostoli, vale a dire la folgorazione sulla via di Damasco.
A questo punto, usciti dalla venerata chiesa di Santa Maria del Popolo, occorrerà ritornare indietro percorrendo via del Babuino, piazza di Spagna, salire la scalinata di Trinità dei Monti, girare a destra imboccando via Sistina e percorrerla tutta fino a piazza Barberini; qui giunti, superare la piazza e prendere via delle Quattro Fontane dove, a metà della salita, troviamo l’ingresso di Palazzo Barberini, il quale ospita la Galleria nazionale di arte antica. Al primo piano del Palazzo, in una delle sale più suggestive della Galleria, incontriamo altre tre tele di Caravaggio, tra le quali la più famosa è senza alcun dubbio Giuditta che uccide Oloferne, del 1599 circa. La storia è una delle più famose della Bibbia, narrata in pittura innumerevoli volte da artisti noti e meno noti, ma mai in maniera così terribile e con un realismo che supera ogni immaginazione; mai Giuditta (nel volto e nel corpo della quale sono riconoscibili le sembianze di un’altra famosa prostituta romana del tempo, vale a dire Fillide Melandroni, anch’essa amante per un breve periodo di Caravaggio) era stata ritratta in atteggiamento così determinato e violento; più che un’eroina popolare, disposta a concedersi al nemico per la salvezza della sua città e del suo popolo, la Giuditta di Caravaggio è una donna che, essendo stata offesa e violata nella sua dignità femminile e umana da un uomo che odia le donne e le considera meri strumenti di piacere sessuale, vuole vendicare se stessa e, insieme a lei, tutte le donne che hanno subito violenza. Nel volto di Oloferne (nel suo grido raccapricciante e nel sangue che schizza copioso sul cuscino e sul lenzuolo che, pochi istanti prima, sono stati muti spettatori di una brutale violenza sessuale), invece, possiamo cogliere una sorta di pre-sentimento – destinato ad essere evidenziato in molte altre tele dipinte negli anni a venire – sull’esito finale della sciagurata esistenza del pictor egregius Michelangelo Merisi da Caravaggio. Le altre due tele conservate nella Galleria Barberini: Narciso e San Francesco in meditazione (di quest’ultima ne esiste una copia identica anche nel vicino convento dei Cappuccini, all’inizio di via Veneto) ripropongono il tema ossessivo e opprimente della morte imminente. Nel Narciso la morte è intesa come termine di ogni espressione di bellezza, nel San Francesco che guarda meditabondo il teschio possiamo cogliere, invece, un tormentoso dubitare intorno a ciò che ci attende “dopo” l’immancabile trapasso.
Dopo la visita alla Galleria Barberini, la tappa successiva e finale è rappresentata dalla Galleria Borghese, raggiungibile percorrendo tutta via Veneto fino a Porta Pinciana, oltrepassata la quale si entra nel sempre mirabile parco di Villa Borghese. Una volta penetrati nella Villa, è facile, seguendo le indicazioni, giungere al Casino Nobile del cardinale Scipione Borghese, contenitore, nelle sue molte sale, di una tra le più belle e preziose collezioni d’arte che vi siano sulla faccia della terra. Nella Sala VIII della Galleria sono conservate ben 6 delle 12 tele appartenute al famoso cardinal Scipione, nipote del papa Paolo V. Di queste, alcune appartengono al primo periodo della produzione caravaggesca, e sono: Giovane con canestro di frutta (1593) e Autoritratto in veste di Bacco (o Bacchino malato, 1593); mentre San Giovanni Battista (1604) e la Madonna dei Palafrenieri appartengono al secondo periodo; infine San Girolamo scrivente (1606) e Davide con la testa di Golia (1609-1610) appartengono sicuramente al periodo della fuga e dell’esilio da Roma, ultimo e più drammatico periodo dell’attività dell’artista.
Il volto dell’assassino
Osservare e ammirare ben sei dipinti del nostro pictor egregius potrebbe dare alla testa, perciò è bene soffermarsi su quello che, a mio avviso, risulta essere il più significativo ai fini del nostro preliminare assunto (la bellezza come immagine sensibile del male), l’ultimo dell’elenco: Davide con la testa di Golia. Sebbene il soggetto non sia affatto nuovo nella storia dell’arte occidentale, nuovissimo e originale, drammaticamente originale, è invece il modo di trattarlo. Nessuna fierezza o trionfalismo nel volto del giovane David che tiene in mano il capo gocciolante sangue di Golia (notare gli occhi ancora aperti e la smorfia di dolore stampata sulla bocca, anch’essa aperta, del gigante decapitato), bensì un’affranta malinconia e una quasi condivisione della sofferenza che affligge il nemico abbattuto. Ma ciò che più impressiona è il volto di Golia, che altro non è che l’autoritratto di Caravaggio. Un Caravaggio consapevole del castigo che lo attende come punizione non soltanto per l’omicidio commesso, ma per tutta una vita di errori, di violenze, di fughe. La morte come unica via d’uscita da una strada torbida e pericolosa.
Ed è con questa immagine di disperazione e di morte (nonché di straordinaria bellezza) che si conclude il percorso che, per successive tappe, ci ha condotto alla scoperta delle tracce che l’assassino (ma anche artista eccellentissimo, degno di stare sullo stesso piano, elevatissimo, sul quale già risplendevano i geni di Michelangelo Buonarroti, Leonardo da Vinci, Raffaello Sanzio) Michelangelo Merisi da Caravaggio ha disseminato per le vie, le piazze, i palazzi e le chiese della nostra città.
Per chi voglia approfondire
Innanzitutto la preziosa monografia Caravaggio, a cura di Mina Gregori, Edizioni Electa, 2004, che si raccomanda per la qualità delle immagini fotografiche. In secondo luogo la monumentale e documentatissima biografia dell’artista, M l’enigma Caravaggio, autore l’australiano Peter Robb, edita da Mondadori nel 2001, lunga all’incirca 550 pagine. Per chi non se la sentisse di affrontare l’improba fatica, consiglio l’agile volumetto di Costantino D’Orazio, Caravaggio segreto, edito da Sperling & Kupfer nel 2013. Per chi è interessato ad una biografia romanzata che faccia leva sugli aspetti “polizieschi” del caso, consiglio invece il libro di Alex Connor, Maledizione Caravaggio, edito da Newton Compton nel 2018. Infine, per una panoramica storica e antropologica sulla Roma dei tempi di Caravaggio, ritengo utilissimo Roma moderna, a cura di Giorgio Ciucci, edito da Laterza nel 2002.