4 Lezioni sulla vita di Antonio Gramsci
Saranno tenute dal prof. Lelio La Porta presso il Teatro Tenda di via Perlasca. Il calendario degli incontriL’Universita’ popolare “Antonio Gramsci” organizza un Seminario che si articola in 4 incontri di due ore ciascuno dalle 16,45 alle 18,45.
Gli incontri si svolgeranno presso il Teatro Tenda sito in via Giorgio Perlasca (una traversa di viale Palmiro Togliatti fra la via Prenestina e la via Collatina). Ecco il calendario.
Venerdì 28 novembre Da Labriola a Gramsci: come nacque e si sviluppò il marxismo teorico in Italia.
Venerdì 5 dicembre Il concetto gramsciano con cui fare i conti per leggere la storia, non soltanto italiana, fra XIX e XX secolo: la rivoluzione passiva.
Giovedì 11 dicembre Come si diventa egemoni ossia perché “un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo”.
Venerdì 19 dicembre La filosofia della praxis ovvero: “I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta ora di mutarlo”.
Un’avvertenza: la sede degli incontri potrebbe cambiare; in tal caso verrà data immediata informazione a tutte/i le/gli interessate/i.
I testi che verranno utilizzati saranno i seguenti:
I Quaderni del carcere di Antonio Gramsci. Un’antologia, a cura di Lelio La Porta e Giuseppe Prestipino, Carocci editore, Roma, 2014
Raul Mordenti, Gli occhi di Gramsci, Red Star press, Roma, 2014
Ed ecco un testo del prof. Lelio La Porta
L’Università popolare in genere, e in modo specifico la neonata “Università popolare Antonio Gramsci”, ha come obiettivo quello di diffondere la cultura che è appannaggio dei gruppi dominanti presso i gruppi subalterni. D’altronde uno degli scopi che Gramsci si prefiggeva tenendo conferenze nei quartieri operai di Torino era quello di diffondere la cultura borghese presso il proletariato industriale in quanto soltanto in questo modo, cioè facendo sì che anche i subalterni conoscessero la cultura di Dante e di Michelangelo, sarebbe stato possibile porre le basi della Città Futura, del regno della libertà nel quale godere al massimo della bellezza in una situazione di uguaglianza sostanziale. In questo senso, il riferimento è ad un articolo gramsciano del 29 dicembre del 1916, nel quale si sostiene che nell’ Università popolare diventa decisiva la modalità di insegnamento, ossia il fatto che gli “uditori”, come li definisce Gramsci, si appassionino alla storia della ricerca, al percorso che conduce alla verità: “Mostrare come è stato percorso dagli altri è l’insegnamento più fecondo di risultati”. Quindi, a leggere nel merito quanto scrive Gramsci, nell’Università popolare deve essere proposto un tipo di insegnamento che si allontani dal modello della semplice ricezione da parte di chi ascolta ma che sviluppi, al contrario, lo spirito di ricerca che è l’anticamera di quello spirito di scissione che si trova alla base di ogni presa di coscienza. Questo “incipit” è necessario per intendere fono in fondo quali siano gli scopi formativi dell’”Università popolare Antonio Gramsci” e quali siano i fini più immediati degli appena iniziati seminari gramsciani di cui, in calce, vengono proposti i contenuti. Nella sostanza, soprattutto nella loro fase iniziale, gli incontri seminariali dovrebbero avere il carattere specifico e puro dell’insegnamento per mettere a disposizione degli “uditori” gli strumenti per un ulteriore approfondimento e per la discussione. Molte/i fra coloro che parteciperanno provengono da ambienti legati comunque alla sinistra e, quindi, con una preparazione già acquisita; ma altrettante/i sono, nello spirito gramsciano originario dell’iniziativa, alla ricerca di uno stimolo che attivi, nell’ottica della filosofia della praxis, un processo di comprensione della realtà al fine di trasformarla. La ricerca, per essere tale, necessita degli spunti iniziali di attivazione che saranno forniti da chi avrà l’incarico di proporre volta per volta le tematiche gramsciane che, in itinere, saranno oggetto della discussione e del confronto.
Come esempio viene proposto lo schema della lezione del prossimo 5 dicembre sulla rivoluzione passiva. Una delle possibilità che si offrono ai gruppi dominanti, in specie a quelli capitalistici, di prevenire o porre rimedio a una crisi economica e insieme politica è detta da Gramsci “rivoluzione passiva”, intesa come una serie di “riforme”, decise dai gruppi dominanti, talvolta per attenuare alcuni aspetti più palesi dell’oppressione di classe o per adottare elementi programmatici in alcuni settori economici, purché a beneficio dell’assetto capitalistico, o per accordare concessioni apparenti e illusorie al fine di poter conservare un temporaneo consenso passivo delle masse e un’adesione opportunistica dei loro capi (cooptazione per “trasformismo”).
Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 (1801) è il titolo dello scritto di Vincenzo Cuoco nel quale l’autore, che prese parte agli eventi da lui narrati finendo esule a seguito della repressione controrivoluzionaria, sottolineava come il fallimento della Repubblica partenopea del 1799 dovesse essere attribuito alla scarsa energia rivoluzionaria dei giacobini napoletani che privarono la loro azione trasformatrice del decisivo ed insostituibile contributo di “una iniziativa popolare unitaria”. La rivoluzione passiva, quindi, è fondamentalmente un evento che cambia lo stato esistente delle cose ma senza intervento delle masse: quindi il cambiamento è nell’ottica del superamento di una situazione pregressa mantenendo determinate posizioni politiche e sociali, ossia quelle di coloro che hanno avuto la leadership del movimento; si tratta di una “rivoluzione senza rivoluzione” o, per dirla con il francese Edgar Quinet (Le Rivoluzioni d’Italia, 1848-1852), che riformulò in pieno XIX secolo il concetto di Cuoco, di una “rivoluzione-restaurazione”, ossia di un modo specifico di manifestarsi delle rivoluzioni italiane dipendenti dal servilismo tipico della religiosità cattolica.
Secondo Gramsci, tutto il processo della modernizzazione europea può essere letto alla luce del concetto di rivoluzione passiva, cioè come, per usare le sue parole, il mantenimento del “potere economico-corporativo in un sistema internazionale di equilibrio passivo”, come l’ “aspetto passivo della grande rivoluzione che si iniziò in Francia nel 1789”. Prendendo in considerazione il Risorgimento italiano, Gramsci nota come in quel processo storico i moderati, cioè i conservatori, ebbero in mano il controllo totale della situazione a scapito del Partito d’Azione, cioè dei progressisti, imponendo alla fine il loro punto di vista. Eppure fra Cavour, esponente dei moderati, e Mazzini-Garibaldi, esponenti del Partito d’Azione, Gramsci individua un nesso dialettico secondo il quale nel Risorgimento italiano si verificarono delle progressive “modificazioni molecolari” che mutarono la composizione delle precedenti forze in campo diventando “matrice di nuove modificazioni”. Ciò non toglie che Gramsci consideri il Risorgimento come fenomeno di rivoluzione passiva (e Gramsci si chiede se possa essere assimilato alla guerra di posizione), e come fenomeno per cui in Italia un gruppo dominante ha “decapitato” l’avanguardia del gruppo avversario, all’interno del quale, soprattutto in fase di consolidamento della componente governativa, gioca un ruolo fondamentale il trasformismo (fase parlamentare della stessa rivoluzione passiva). Tale processo è dunque riconducibile ad un “ammodernamento” dello Stato non attraverso rivoluzioni radicali-giacobine bensì tramite “riforme o guerre nazionali”. In questo senso la rivoluzione passiva, ossia la passività delle masse popolari, diventa, per i moderati, un autentico programma politico e d’azione ancora più importante della stessa unificazione nazionale, è l’accoglimento “delle esigenze popolari” minime da parte delle classi dominanti “come reazione (…) al sovversivismo sporadico e disorganico delle masse popolari”. Il Risorgimento italiano fornisce inoltre a Gramsci l’opportunità di effettuare una lunga riflessione (consegnata al paragrafo 24 del Quaderno 19) sui suoi esiti, potremmo dire, nazionali ma anche una comparazione con quanto avvenuto in Europa nello stesso torno d’anni a partire dall’esperienza dei giacobini francesi del periodo 1792-94. Gramsci trae la conclusione che in Italia non ci fu un partito giacobino, nel senso di una guida delle grandi masse italiane (anche se gli stessi giacobini francesi furono alla fine vittima delle loro contraddizioni di classe, ossia borghesi, e da ultimo non compresero le profonde esigenze vitali dei subalterni francesi). Per questi motivi, il Risorgimento fu affidato alla conduzione dei moderati piemontesi, nell’ottica di un riformismo controllato dall’alto.
Gramsci giudica rivoluzione passiva il regime fascista per le nazionalizzazioni (decise a beneficio dei gruppi capitalistici in crisi o in difficoltà), per la sostituzione dei sindacati indipendenti e combattivi, da quel regime soppressi, con la collaborazione corporativa tra i lavoratori e il padronato, per la diversione nazionalistica e velleitariamente imperialistica con la colonizzazione di territori oltremare a compenso della persistente disoccupazione italiana. Le opere storiche di Benedetto Croce concedono una (involontaria?) giustificazione teorica al fascismo.
Lelio La Porta
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