Dalla Divina Commedia alla Divina Mimesis
Sui complessi e affascinanti rapporti tra Dante e Pasolini“Ed una lupa, che di tutte brame/ sembiava carca nella sua magrezza,/ e molte genti fe’ già viver grame,/ questa mi porse tanto di gravezza/ con la paura ch’uscìa di sua vista,/ ch’io perdei la speranza dell’altezza./ ” (Dante, Inferno, I, vv. 49-54).
“Dal silenzio in cui si è … – venne fuori una «Lupa», che si affiancò alle altre due bestie. I suoi connotati erano sfigurati da una mistica magrezza, la bocca assottigliata dai baci e dalle opere impure, lo zigomo e la mascella allontanati tra loro: lo zigomo in alto, contro l’occhio, la mascella in basso, sulla pelle inaridita del collo. E tra loro una cavità oblunga, che rende il mento sporgente, quasi appuntito: ridicolo come ogni maschera di morte. … Quella «Lupa» mi faceva paura: non per ciò che di degradante rappresentava, ma per il solo fatto di essere un’apparizione, quasi oggettiva: la definizione di sé, un «ecce homo», per così dire, dalla cui realtà la conoscenza non può in alcun modo evadere. La sua presenza era così indiscutibile da togliere ogni speranza di poter giungere mai a quella cima misteriosa che intravedevo davanti a me, nel silenzio” (P. P. Pasolini, da La Divina Mimesis, frammento postumo, Einaudi, Torino 1975).
“Molti son li animali a cui s’ammoglia,/ e più saranno ancora, infin che ‘l veltro/ verrà, che la farà morir con doglia./ Questi non ciberà terra né peltro,/ ma sapienza, amore e virtute,/ e sua nazion sarà tra feltro e feltro./ Di quella umile Italia fia salute/per cui morì la vergine Cammilla,/ Eurialo e Turno e Niso di ferute” (Dante, Inferno, I, vv. 100-108).
“Ne l’ora che comincia i tristi lai/ la rondinella presso a la mattina/ forse a memoria dei suoi primi guai” (Dante, Purgatorio, IX, vv. 13-15)
“Ah rondini, umilissima voce/ dell’umile Italia! Che festa/ alle pasquali fonti, alle foci/ dei fiumi padani, alla mesta/ luce della piazzetta, dei noci,/dei filari ai festoni da gelso/ a gelso, che ai vostri garriti/ verdeggiano più umani! che eccelso/significato in quel vostro perso/ groviglio nuovo, di gridi antichi” (P. P. Pasolini, da L’umile Italia, in Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano 1957).
Gli inizi del rapporto Pasolini-Dante
La storia dei rapporti, o per meglio dire dell’innamoramento di Pier Paolo Pasolini per Dante e, in particolare, per la Divina Commedia, ha il suo incipit (almeno secondo i critici e gli storici della letteratura più accreditati) nel 1951. In quell’anno uno dei più grandi italianisti del ‘900, Gianfranco Contini (che nove anni prima aveva fatto conoscere, ai cultori di novità letterarie, il ventenne Pasolini, recensendo il suo primo volume di versi: Poesie a Casarsa, 1942) pubblica il saggio Preliminari sulla lingua del Petrarca. In questo saggio, il famoso critico – al fine di evidenziare il distacco e la lontananza rappresentata dall’esperienza poetica del poeta aretino rispetto alla grande lezione innovativa, sul piano linguistico e stilistico, costituita dalla Commedia dantesca – metteva in contrapposizione il “monolinguismo” petrarchesco al “plurilinguismo” dantesco: al primo corrisponde lo stile linguistico puro, assoluto e selettivo; al secondo, lo stile ibrido, sperimentale ed aperto alle più disparate “contaminazioni”. Il plurilinguismo dantesco, secondo Contini, era più rispondente all’esigenza (particolarmente avvertita dagli intellettuali italiani nell’immediato dopoguerra) di una produzione artistica e letteraria (ma anche, come vedremo, cinematografica) basata su un rapporto “dialettico” nei confronti della realtà sociale.
In quei primi anni Cinquanta, il giovane poeta Pasolini, trapiantato da poco tempo in una Roma caratterizzata da uno sviluppo abnorme e dal proliferare di agglomerati urbani e di baraccopoli (le borgate “beduine” o “africane”), preparava, sotto l’influsso del pensiero politico ed estetico di Antonio Gramsci, quei poemetti che sarebbero poi confluiti nella raccolta Le ceneri di Gramsci, (1957); un titolo che sostituì, all’ultimo istante, quello originario che, guarda caso, richiamava esplicitamente il famoso verso (o, per meglio dire, sintagma) n. 106 del primo Canto dell’Inferno dantesco, vale a dire L’umile Italia. Pasolini, convinto, gramscianamente, che l’arte e la letteratura dovessero rappresentare la vita e il modo di esprimersi delle classi subalterne – così come il loro radicamento nelle tradizioni rurali e religiose, ma anche e soprattutto le loro istanze di cambiamento e di riscatto – vedeva nello sperimentalismo e nelle contaminazioni tra linguaggio “alto” (quello delle èlites del potere, degli intellettuali, della scienza e della religione) e linguaggio “basso” (quello delle classi umili, del proletariato e, nella concreta situazione della periferia romana, del sottoproletariato), una specie di riproposizione del problema che già Dante, a suo tempo, aveva affrontato e risolto, in maniera esemplare, nella sua Commedia.
Dante veniva quindi assunto come modello per un rinnovato impegno degli intellettuali degli anni Cinquanta a svolgere una funzione di “rappresentazione” del popolo, così come auspicato da Gramsci nei suoi Quaderni del carcere, in vista della creazione di una letteratura nazionale e popolare; qualcosa che in Italia, secondo il pensatore sardo, non si era ancora sviluppata.
Alla duplice lezione di Contini e di Gramsci, Pasolini aggiunse, alcuni anni dopo, quella del celebre teorico e storico della letteratura Erich Auerbach, la cui fondamentale opera Mimesis, il realismo nella letteratura occidentale, venne tradotta in italiano nel 1956, un anno prima della morte dell’autore. In Auerbach, il quale (sia detto en passant) è stato uno dei più grandi studiosi tedeschi di Dante e della sua Commedia (i suoi Studi su Dante rappresentano una pietra miliare nel campo della “dantistica” del ‘900), risulta centrale, per la letteratura di ogni tempo ma in particolare per quella medievale, il concetto di “figura”, che sta ad indicare un fatto storico concreto, che ne preannuncia un altro, altrettanto storico e concreto; nella Divina Commedia, ad esempio, sia Enea che san Paolo sono entrambi “figure” di Dante, in quanto hanno entrambi compiuto un viaggio nell’oltretomba per adempiere ad una missione affidata loro da Dio. Anche Ulisse, che ha infranto un limite imposto da Dio, in quanto protagonista di un folle volo, fatto per seguire virtute e canoscenza, può essere visto come “figura” di Dante, in quanto ha adempiuto alla sua missione terrena. Anche sul piano stilistico Auerbach, con il suo saggio, ha imposto una terminologia imperniata sul concetto di “contaminazione degli stili”, un concetto che risulta fondamentale al fine di comprendere il carattere realistico della grande letteratura occidentale.
Frutto della lettura e dell’interpretazione del pensiero auerbachiano è, per Pasolini, il saggio La confusione degli stili, del 1957. La novità, nella comprensione dei concetti auerbachiani da parte di Pasolini, e nella loro applicazione non solo in ambito letterario (in quest’ambito per misurare il grado di realismo di un determinato scrittore attraverso una accurata analisi stilistica volta ad evidenziare la presenza, nell’opera, di una pluralità di stili), consiste nella possibilità di trasferire questi concetti in anche sul terreno cinematografico; Pasolini, infatti, da alcuni anni svolge un’attività di sceneggiatore e soggettista al servizio di diversi registi, tra i quali il già famoso Federico Fellini (con il quale ha collaborato a Le notti di Cabiria, interpretato da Giulietta Masina negli umili panni di una prostituta). La sua attività di sceneggiatore si svolge, negli anni che vanno dal 1954 al 1959, in parallelo con la prosecuzione della sua militanza poetica (Le ceneri di Gramsci, come già detto, sono del 1957, ma nel 1955 aveva pubblicato Canzoniere italiano, Antologia della poesia popolare e nel 1958 darà alle stampe L’usignolo della Chiesa Cattolica) e con una produzione narrativa che approda ad autentici capolavori quali Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959), quest’ultimo finalista al Premio Strega di quell’anno, dove si classifica al secondo posto dietro Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Nella 1ª fase della cinematografia di Pasolini
Pasolini, nel 1960, si sente così pronto al grande salto, vale a dire il passaggio ad una cinematografia di cui egli sia autore “totale”: regia, soggetto, sceneggiatura; una cinematografia (nazional-popolare egli la definisce) che trasferisca in immagini il plurilinguismo di matrice continiana e quella contaminazione di stili di derivazione auerbachiana e che, nei suoi personaggi, riproduca quel concetto di “figura” tanto caro al filologo tedesco: Accattone (nel film omonimo iniziato nel 1960, ma terminato nel ‘61), Ettore (figlio di Mamma Roma, nell’omonimo film del 1962), Stracci (protagonista de La Ricotta, del 1963), non sono altro che “figure” di quel Gesù Cristo che tutte le include e riassume in Il Vangelo secondo Matteo del 1964.
Per capire bene l’intento di Pasolini, l’idea “fondante” di quell’opera (ma anche il fil rouge che lega il Vangelo ai precedenti film) e, dal punto di vista tecnico, il procedimento seguito dall’autore per “tradurre” – in una qualche forma di ibridazione la pluralità di mezzi artistici impiegati (pittura, musica, letteratura, cinema) – quella contaminazione di stili tipica del realismo teorizzato da Auerbach, credo sia utile citare alcuni passi di una lettera del regista al produttore del film, Alfredo Bini: “… l’umanità di Cristo è spinta da una tale forza interiore, da una tale irriducibile sete di sapere e di verificare il sapere, senza timore di nessuno scandalo e nessuna contraddizione, che per essa la metafora “divina” è ai limiti della metaforicità, fino ad essere idealmente una realtà … L’idea di fare un film sul Vangelo, e la sua intuizione tecnica, …, devo confessarlo, è frutto di una furiosa ondata irrazionalistica. Voglio fare pura opera di poesia, rischiando magari i pericoli dell’esteticità (Bach e in parte Mozart, come commento musicale; Piero della Francesca e in parte Duccio per l’ispirazione figurativa; la realtà, in fondo preistorica ed esotica, del mondo arabo come fondo e ambiente).
Alle parole di Pasolini si possono aggiungere alcuni passi di un comunicato de La Cittadella di Assisi (istituzione cattolica progressista che aveva accolto con entusiasmo il progetto pasoliniano e la sua realizzazione), diramato come risposta alle aspre polemiche suscitate dal film negli ambienti tradizionalisti cattolici italiani: “… Gesù amò tutti, ma predilesse i pubblicani, i peccatori, i ladroni, e anche le povere creature cadute nella più angosciosa miseria morale, come la Maddalena, l’adultera, la samaritana. Agli attacchi di certa stampa non abbiamo risposto … sommessamente però abbiamo osservato che se tutti fossimo veramente cristiani, su ogni piaga umana non verseremmo aceto ma olio di bontà. Gesù morì per aiutare tutti, per fare salvi tutti”; e, sul ruolo del cinema nella società moderna, il comunicato proseguiva con parole che sembravano riprendere, nella sua profonda essenza, il pensiero di Pasolini: “… Adesso il cinema può assumere il ruolo che nei secoli passati aveva la così detta “Bibbia dei poveri”, cioè i grandi affreschi, le sculture, insomma l’arte sacra”. (le citazioni della lettera a Bini e del comunicato de La Cittadella sono tratte da Enzo Siciliano, Vita di Pasolini).
Vorrei aggiungere, a queste citazioni chiarificatrici del significato di questa importante fase dell’opera e della vita dell’artista friulano, un passo, tratto dall’importante saggio di Emanulela Patti, (scritto in inglese e pubblicato ad Oxford nel 2015) Pasolini After Dante. The ‘Divine Mimesis’ and the Politics of Representation. E’ un passo, questo, che mette in evidenza il mutamento che è in procinto di compiersi nella complessiva visione del mondo e della storia del grande poeta-narratore-regista, un mutamento che rappresenta un punto di svolta di straordinaria importanza: “Nello specifico, il primo cinema pasoliniano risulta come un’approssimazione figurale progressiva alla figura di Cristo, prima solo suggerita attraverso associazioni simboliche musicali (per esempio, attraverso la musica di Bach), pittura (si pensi al Cristo morto di Mantegna o alla Deposizione di Pontormo), e scultura (la figura dell’angelo e la croce in Accattone), fino alla totale identificazione con Cristo in persona ne Il Vangelo secondo Matteo. Non solo Cristo è la parola che si fa carne, ma anche il soggetto ‘sacrificale’ per eccellenza. Ed è proprio in questa combinazione di rappresentazioni figurali della realtà altamente intellettuali e rappresentazioni fisiche, più immediate di corpi, che Pasolini raggiunge un realismo creaturale di grande portata. Salvare, attraverso la morte, i suoi “poveri Cristi” da una società che minacciava la scomparsa della loro differenza culturale all’inizio degli anni Sessanta segna quel passaggio fondamentale, nella carriera di Pasolini, dalla fiducia in un “buon Inferno” di diversità linguistica e culturale, quello delle borgate degli anni Cinquanta, alla speranza di una salvezza al di fuori dell’“universo orrendo” nei primi anni Sessanta e poi la definitiva perdita di ogni fede al realizzarsi dei due Paradisi, quello capitalistico/consumistico e quello comunista – che in entrambi i casi rappresentavano per Pasolini, come scrive ne La Divina Mimesis, due forme di omologazione linguistica e culturale”.
L’annuncio della Divina Mimesis
Il Vangelo, che conclude la prima grande fase dell’opera cinematografica pasoliniana è del 1964, l’anno che precede il settimo centenario della nascita di Dante (1265 – 1965). Ed è proprio in previsione di quell’evento, e sotto l’incalzare di quel “mutamento” sopra accennato, che Pasolini partorisce l’idea di ri-scrivere la Divina Commedia di Dante o, almeno, l’Inferno. Egli lo annuncia, in versi, in una lunga poesia, risalente al novembre-dicembre 1963, dal titolo Progetto di opere future, penultima della raccolta Poesia in forma di rosa, che vede la luce nel 1964. Seguiamone i passi più significativi:
… Mi rifaccio cattolico, nazionalista,
romanico, nelle mie ricerche per “BESTEMMIA”,
o “LA DIVINA MIMESIS” – e, ah mistica
filologia! Nei giorni della vendemmia
gioisco come si gioisce seminando,
col fervore che opera mescolanze di materie
inconciliabili, magmi senza amalgama, quando
la vita è limone o rosa d’aprile …
… la via
della Verità passa anche attraverso i più orrendi
luoghi dell’estetismo, dell’isteria,
del rifacimento folle erudito ….
Gioco dialettico sprofondato nel profondo, oh
sì! Da ricostruire stilema per stilema,
perché in ogni parola scritta nel Bel Paese dove il No
suona, c’era opposto allo stile quel Sema
imposseduto, la lingua di un popolo
che doveva ancora essere classe, problema
saputo e risolto solo in sogno.
… Ah, non stare più in piedi nel sapore di sale
del mondo altrui (piccolo-borghese, letterario)
col bicchiere di whisky in mano e il viso di merda,
-ché mi dispiacerebbe solo non rappresentarlo
così com’è – prima che per me uomo si perda –
nella “DIVINA MIMESIS”, opera, se mai ve ne fu,
da farsi, e, per mio strazio, così verde,
così verde, del verde di una volta, della mi joventud,
del mondaccio ingiallito della mia anima …
A questi versi ne seguono altri, nei quali diventa esplicito l’intento di iniziare l’opera “da farsi” inserendo, nell’Inferno “arcaico, enfatico (romanico, come il centro delle nostre città dal suburbio ormai per sempre spacciato)” un pezzo di nuovo Inferno “dell’età neocapitalistica, per nuovi tipi di peccati a integrazione degli antichi”. E’ impressionante che, in questo nuovo Inferno, appaiano cerchi e gironi di nuovo conio, nei quali alloggiare personaggi che appartengono ad ambienti di cui lo stesso Pasolini è parte attiva, sebbene in posizione “dialettica”, protagonista di clamorose e rumorose polemiche e, comunque, in una situazione molto distante dal Pasolini “arcaico, umile e puro” degli anni Cinquanta. E così è possibile incontrare: A) nel cerchio dei TROPPO CONTINENTI: conformisti (salotto Bellonci), Volgari, Cinici (giornalisti del Corriere), Deboli, Ambigui, Paurosi; B) nel Cerchio degli INCONTINENTI quelli che eccedono in: Rigore (socialisti borghesi), in Rimorso (Soldati, Piovene), in Servilità (masse infinite senza anagrafe, senza nome, senza sesso); e così via, di nuovo cerchio in nuovo cerchio. Egli stesso, in un certo senso, consapevole di essere stato troppo a lungo membro di questa “picciola compagnia” di disillusi e “imberbi deputati all’impegno”, confessa che “mai, nella mia malridotta passione, mai fui tanto cadavere come ora”.
Questo Progetto di opere future risulta, tirate tutte le somme, una sorta di lungo manifesto programmatico di quella DIVINA MIMESIS che, nelle intenzioni del poeta, avrebbe dovuto estendersi ben al di là della rappresentazione del nuovo Inferno; un’opera che, in un certo senso, rappresentasse, perfino nel titolo, l’espressione di un’autentica venerazione per un modello di poesia “civile” senza eguali nel panorama letterario italiano. Nello stesso tempo quest’opera doveva tradursi in una presa di distanza (e in una condanna morale) nei confronti di una situazione sociale e politica che stava pericolosamente evolvendo verso quell’omologazione consumistica neo-capitalistica che diventerà la “bestia nera” dei numerosissimi interventi giornalistici degli ultimi anni di vita del poeta friulano.
L’opera, purtroppo, rimase per un decennio in qualche cassetto della scrivania dello studio che aveva ricavato nella sua nuova casa all’EUR, ultima abitazione del poeta dopo aver lasciato la casa di via Carini a Monteverde. E, tuttavia, che Pasolini, nonostante l’enorme mole di lavoro alla quale si sobbarcò nell’ultimo decennio della sua esistenza, non avesse rinunciato all’idea di riprendere in mano, un giorno, questo suo progetto, lo dimostra una poesia, del 1968, dal titolo lunghissimo: Proposito di scrivere una poesia intitolata «I primi sei canti del Purgatorio» (La si può leggere nelle pagine 66-67, nel vol. II di Pasolini, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 2003). Gli ultimi versi di questa poesia hanno come argomento la luce, quella luce che, a detta dell’autore, rappresenta il tema principale dei primi sei Canti del Purgatorio,
Una luce che naturalmente non può che essere aurorale, una luce che
è radente, con “le ombre lunghe”
(la macchina da presa
portata in spalla di buon mattino,
anzi, all’aurora,
per essere sul posto alle otto,
col freschetto, e in corpo la lietezza).
Le esperienze mattutine medievali
tornano artificialmente
(se c’è mai qualche cosa di artificiale):
molti sono ancora i luoghi nel mondo
dove non si trovano pali della luce e caselli.
Dove canta Filomena, concentrata, ignara,
piena della sua certezza.
Dove la brezza è annusata da sabini e leoni.
Le ore in cui si alzano i pendolari e i guerriglieri.
Versi, questi del Pasolini del 1968, che richiamano subito alla memoria i danteschi vv. 10-10 del Canto I del Purgatorio:
Noi eravam lunghesso mare ancora,
come gente che pensa a suo cammino,
che va col cuore e col corpo dimora.
Ed ecco qual, sorpreso dal mattino,
per li grossi vapor Marte rosseggia
giù nel ponente sovra ‘l suol marino,
cotal m’apparve, s’io ancor lo veggia,
un lume per lo mar venir sì ratto,
che ‘l mover suo nessun volar pareggia.
La Divina Mimesis
Il torso, o l’abbozzo, inviato da Pasolini all’editore Giulio Einaudi pochi giorni prima di trovare la morte, il 2 novembre 1975, all’Idroscalo di Ostia, è soltanto un “documento” di un’opera ideale che, nonostante i fermi propositi dell’autore, non è riuscita a trasformarsi in concreta realtà. Sicuramente questo “documento” fu da lui rifinito in pochi giorni e annunciato in un’intervista, apparsa postuma (per la precisione il 7 novembre) sul quotidiano La Stampa di Torino: “Volevo fare qualcosa di ribollente e magmatico, ne è uscito qualcosa di poetico come Le ceneri di Gramsci, anche se in prosa. Per questo pubblico i primi due canti: a un Inferno medievale con le vecchie pene si contrappone un Inferno neocapitalistico. Ma siamo, per il momento, al “mezzo del cammin di nostra vita”, all’incontro con le tre fiere, eccetera».
L’intero abbozzo non supera la trentina di pagine; la prefazione consta di queste poche, sarcastiche righe: “La Divina Mimesis: do alle stampe oggi queste pagine come un «documento», ma anche per fare dispetto ai miei «nemici»: infatti, offrendo loro una ragione di più per disprezzarmi, offro loro una ragione di più per andare all’Inferno”.
Il Canto I si apre, giustamente, con la “Selva oscura”, nella quale si ritrova improvvisamente il protagonista (l’Actor): “Intorno ai quarant’anni, mi accorsi di trovarmi in un momento molto oscuro della mia vita. Qualunque cosa facessi, nella «Selva» della realtà del 1963, anno in cui ero giunto, assurdamente impreparato a quell’esclusione dalla vita degli altri che è la ripetizione della propria, c’era un senso di oscurità. Non direi di nausea, o di angoscia: anzi, in quella oscurità, per dire il vero, c’era qualcosa di terribilmente luminoso: la luce della vecchia verità, se vogliamo, quella davanti a cui non c’è più niente da dire. Oscurità uguale luce. La luce di quella mattinata d’aprile …”.
La narrazione prosegue, inevitabilmente, con la descrizione dell’ “orribile valle” che, in realtà, molto somiglia alla periferia nord della Capitale d’Italia all’inizio degli anni Sessanta: palazzoni, automobili, ma anche la sala di un vecchio cinema (Splendor o Splendid?) dove si sta svolgendo un’assemblea di operai, donne, giovani, militanti del PCI (“Le belle bandiere degli anni ‘40”). Tra un apparire e uno scomparire, tra la luce della vecchia verità nel mezzo di un’avvolgente, angosciosa oscurità, in una sorta di “sogno fuori della ragione”, il nuovo Dante, come l’antico, e senza comprendere come ciò sia potuto accadere, prosegue il suo cammino lungo la “valle” per ritrovarsi ai piedi del “colle”, dalla sommità del quale proviene una luce accecante. Come ogni bravo lettore di Dante può immaginare, seguono, da questo momento in poi, i famosi incontri con i tre animali: la lonza, il leone, la lupa, simboli, rispettivamente dell’avarizia, della superbia, della lussuria. Nella Divina Mimesis è soprattutto la lupa (l’animale al quale Pasolini sente di assomigliare in maniera particolare) a incutere terrore: “I suoi connotati erano sfigurati da una mistica magrezza, la bocca assottigliata dai baci e dalle opere impure, lo zigomo e la mascella allontanati tra loro: lo zigomo in alto, contro l’occhio, la mascella in basso, sulla pelle inaridita del collo. E tra loro una cavità oblunga, che rende il mento sporgente, quasi appuntito: ridicolo come ogni maschera di morte. E l’occhio secco in uno spasimo; tanto più abietto quanto più simile agli spasimi dei santi: un’aridità allucinata, che dove posa la sua luce pare si attacchi come colla colata dalla pupilla fatta tonda, ora troppo diritta ora sfuggente; e in mezzo il naso, ingrossato nella pelle e nei buchi, sopra il labbro superiore proprie brame divenute, incancrenendo, sempre più naturali”.
Chi potrà salvare, dai mortali pericoli che si nascondono nella selva oscura, il protagonista-narratore che, pur angosciato e in preda alla disperazione, non può fare a meno di avvertire che è egli stesso, in massima parte, responsabile della situazione apparentemente priva di via d’uscita nella quale si trova? Così come nella Commedia, anche nella Mimesis appare misteriosamente una guida, un traghettatore (per Dante “lo mio maestro e ‘l mio autore”, per Pasolini “il più alto dei poeti del nostro tempo”) che inviterà (sarebbe meglio dire: comanderà) lo smarrito narratore ad intraprendere il viaggio salvifico già percorso da Dante.
Sull’identità e sul significato del nuovo Virgilio s’interrompe, opportunamente, questo breve resoconto de La Divina Mimesis, un abbozzo che, pur nella sua incompletezza ed esiguità, svolge un ruolo importantissimo ai fini della comprensione della poetica pasoliniana e, soprattutto, dell’influenza esercitata da Dante sull’intera produzione artistica dell’autore friulano.
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